04 luglio 2006

Tutte le donne di Giacomo Puccini

di Augusto da San Buono

Pigro e geniale , nevrotico , strafottente e timido , goliardico e primitivo, amava stare in compagnia e , allo stesso tempo , sentiva il bisogno della solitudine; era legato in modo quasi morboso alle brume del suo lago di lucchesia ( “gaudio supremo, paradiso, vas spirituale, reggia…abitanti 120, 12 case”), amava le scapestrate compagnie maschili , le scorribande tra i falaschi , il rompere della quiete di una natura selvaggia , i colpi di fucile, le imprecazioni e le bestemmie della sua gente – e tuttavia non sognava che di fuggirsene al più presto, andare a Milano , là dove si poteva far carriera, dove l’aspettavano la fama e la gloria, la ricchezza e le belle donne. Questo era Giacomo Puccini .
Sensibile e cinico, estrovertito e angosciato (all’improvvisa e rumorosa allegria , spesso becera, faceva seguito la malinconia e l’inquietudine, la cupezza), fumatore accanito e lavoratore fantasioso, ma discontinuo , disposto ad amare e a soffrire con una passione senza pudori, quasi sempre sopra le regole, come i suoi personaggi, ma spudoratamente bugiardo , fanfarone e infedele. Questo era Giacomo Puccini.
“E’ stato - scrive Federico Diotallevi – un grandissimo, immenso musicista , il vero autentico erede di Verdi, interprete e cantore del melo’ italiano nel mondo , al di fuori dei patriottismi un po’ forzati di altri operisti coevi, ma anche un sommo puttaniere, se mai ce ne furono , uno che ogni lasciata è persa , uno che il sesso ce l’aveva stampato in testa e dal sesso fu dominato interamente per tutta la sua esistenza. Si raccontano aneddoti boccacceschi su di lui , fin da quand’era ragazzo e frequentava già , nonostante avesse solo quindici anni, i bordelli di Lucca. E poi amori ad ogni latitudine , di ogni età, razza, religione, consumati in treno, negli alberghi , nelle pinete e nei tuguri, sulle spiagge di Viareggio o nella campagna di Forte dei Marmi, nei camerini teatrali. Vicende
talora scabrose di cui si occupò anche la cronaca rosa e nera , come ad esempio la sua relazione con Corinna, una ragazza torinese di ventun’anni (“Sono - dirà di se stesso, con spietata sincerità - nevrotico, isterico, linfatico, degenerato, malfattoide , erotico , musico-poetico) , o quella , drammatica, legata al suicidio della servetta di casa Puccini , Doria Manfredi , una ragazza diciassettenne, invaghitasi del celebre e ormai attempato musicista lucchese e perseguitata ossessivamente , crudelmente e ingiustamente , dalla compagna e convivente di Puccini (che diverrà poi sua moglie), Elvira Bonturi. Quest’ultima , - che era stata moglie di uno dei migliori amici di Giacomo, Narciso Geminiani, e già madre di due figli, aveva abbandonato il marito e s’era rifugiata, anni addietro , a Milano, in casa del musicista , suscitando grande scalpore e scandalo a Lucca, - conosceva assai bene il maestro e il suo antico “vizietto”. Ma stavolta aveva sbagliato, poiché l’autopsia rivelò che la ragazza era illibata, e fu costretta a pagare i danni ai familiari.

Le donne contrassegnarono tutta la sua esistenza , furono ( insieme alle sigarette che iniziò a fumare a soli dodici anni ) una costante nella vita di Puccini , fin da bambino, quando rimase orfano del padre Michele , a soli cinque anni , con un fratello più grande e ben cinque sorelle . Fu allevato in una famiglia in cui le donne – scrive Pinzauti - dovevano apparirgli inconsciamente un’ossessione, l’incentivo di precoci curiosità e turbamenti , e quasi un incubo di dolcezza e di costrizioni”. Le donne lo soffocavano d’affetto, d’attenzioni, ma anche di ansie, di divieti , d’ attese e di
frustrazioni. In questo vero e proprio gineceo, con la madre, cinque sorelle e una serie infinita di cugine e zie, si snoda la breve stagione dell’infanzia di Giacomo, che segnerà il proprio destino, insieme al pianoforte che suonava (non bene) fin dai quattordici anni nelle chiese e nei locali pubblici di villeggiature , per comprarsi le sigarette (già a quindici anni fumava in modo accanito) e – dicevano le voci – andare nelle case di tolleranza. E poi il mare di Viareggio, o le brume di Torre del Lago , gli scorci di palude , i deserti autunnali coi rami secchi che bruciano amari nelle campagne serali , le acacie ubriache di profumi, in primavera, le vie strette e polverose d’estate.
Una città dai confini malcerti che trascolorava tra la campagna e il mare , un microcosmo toscano di ciechi organisti matti di vino donne e incenso , tutti matti i musici Puccini , i vivi e i morti, dirà la madre Albina Magi, per spiegare la propria faticata vita di vedova perduta in un’eterna veglia , con sessantasette lire al mese di pensione , sette figli da mantenere e i problemi del quotidiano ; e poi la nonna , avara e inflessibile, la zia “nera” , energica e mascolina , la zia “rossa”, anacronistica e seducente , e le cinque sorelle, la prima, Ramelde, tagliente e impietosa, l’ultima,


Iginia, che poi si fece monaca , tenera, ingenua come una bambina, tutta pietà , santini e preghiere. Per un fato che perseguita la famiglia da generazioni, gli uomini sono morti quasi tutti precocemente ( il padre Michele muore a 51 anni ) , vittime d’incidenti o dei propri fallimenti, e l’amore che si riversa sul piccolo Giacomo è a un tempo capriccioso, avvolgente e rabbioso, frustrante , pieno zeppo di remore e di tabù di natura religiosa, soprattutto quello della madre. Infatti Puccini trasferirà , inconsciamente , il suo senso di colpa , nei suoi personaggi femminili, a partire dalla sua prime opere, nell’Anna delle Villi e nella Fidelia di Edgar , donne – come avverrà anche in seguito - che pagano con la morte il loro amore “colpevole”. E anche l’attrazione sessuale , che Puccini subirà per tutta la sua vita, sarà sempre sentita , più o meno inconsciamente , come un tradimento della Madre , se non addirittura come un inconfessabile sentimento incestuoso. Tutte le sue donne saranno, come lui, vulnerabili e insicure, malate di solitudine e malinconia, malate d’amore. Contrariamente a ciò che scrive in certe lettere , in cui appare cinico e calcolatore artefice dei suoi personaggi teatrali, che sembrano essere studiati a tavolino, Puccini amò profondamente tutte le “sue” donne , a partire dalla Manon Lescaut , “donna leggera e impudente , amante infelice, peccatrice senza malizia “, come la definì lo stesso abate Prevost, porto accogliente e caldo , tante volte fantasticato dalla sua indole ardente e sensuale. Una donna , insomma, tutta carne e sesso, di quelle che fanno impazzire con i loro capricci e la loro imprevedibilità, ma che alla fine ripagano i loro amanti in una morbida pienezza di sudditanza e di abbandoni, anche se sono destinate a rimanere “sole, perdute, abbandonate in lande desolate”, e a maledire la loro bellezza . Puccini ebbe il merito – scrisse un suo acerrimo critico – di sentire in sé “una certa poesia animale” , fatta di intimità e comprensione delle piccole gioie e degli umili dolori, con una sensualità facile che ha sinceri ritorni di candore compassionevole.
Quella poesia gli veniva dalla sua terra, Lucca - allora facente parte del Granducato di Toscana – , dove era nato il 22 dicembre 1858, in una famiglia in cui si respirava musica da quattro generazioni, (per un secolo e mezzo la dinastia dei Puccini ,maestri di Cappella , organisti, insegnanti ,aveva assicurato una continuità alla vita pubblica musicale lucchese) , e pur non mostrando doti musicali particolari e non fosse neppure il primo dei maschi , era stato designato l’erede dei Puccini . Non deluse le attese, ma fu solo grazie ai sacrifici e alla determinazione della madre Albina , che potè completare i suoi studi al conservatorio di Milano e divenire in capo a pochi anni uno dei più acclamati autori di musica operistica. Rispetto ai vari Catalani ,Leoncavallo, Mascagni, Giordano , Puccini aveva un miracoloso istintivo senso teatrale e grandi capacità di seduzione, in particolare sul pubblico femminile, sia con armonie e melodie sentimentali, che con il suo fascino personale d’uomo contraddittorio, dicotomico. Da un lato “bestia , birbante , maschilista , uomo da bettola e da bordello” ,dall’altra signore elegante, raffinato , amante della modernità e dell’avventura ( comprò il “bicicletto”, diverse vetture, i primi motoscafi, ebbe numerosi incidenti automobilistici); era quasi illetterato (componeva versi di una banalità soncertante , filastrocche scurrili e sgrammaticate che facevano inorridire Illica e Giocosa) , e tuttavia seppe cavare il meglio dai suoi librettisti , che erano i migliori verseggiatori sulla piazza ; la sua musica si rifaceva alla grande tradizione italiana e tuttavia fu moderna , sempre attenta, sorvegliata, aggiornata alle novità strumentali francesi e alle avanguardie viennesi.
Dopo la Manon, del 1893, ecco Mimì, che scopre andando a vedere a teatro, a Parigi, Vie de Boheme di Henri Murger . Se ne innamora subito e pensa di metterla in scena , nonostante Leoncavallo ci avesse pensato prima di lui e vantasse quindi dei diritti “morali” di primogenitura (Murger era morto da quasi quarant’anni, senza eredi ). “Egli musichi, io musicherò”. Ne nacque una querelle che si trascinò per diverso tempo, anche sui giornali, ma alla fine la sua Boheme, “audace esperimento di tecnica scenica impressionista”, messa in scena il 1° febbraio 1896 a Torino, fu un trionfo, e rimane ancora oggi l’opera più replicata al mondo, insieme alla Traviata di Verdi, mentre nessuno ricorda l’opera omonima di Leoncavallo.
Puccini ci aveva lavorato sodo , per tre anni , durante i quali aveva messo a dura prova la pazienza dei suoi librettisti, Illica e il panciuto Giacosa , che si sfogò con l’editore Ricordi (“Sono stanco morto del continuo rifare, ritoccare, aggiungere, correggere, tagliare , riappiccicare , gonfiare a destra e a sinistra, vi giuro che a fare libretti non mi ci colgono mai più”). La storia di Lucille detta Mimì, morta tisica a ventiquattro anni nell’Ospedale di Pitiè , che farà piangere il pubblico di intere generazioni, veniva direttamente dalla cronaca del tempo , la Boheme era uno spaccato sociale della vita dell’epoca che Murger conosceva bene , ma Puccini ne fece qualcosa di straordinario, sia dal punto di vista musicale che poetico. Ne fece il simbolo stesso della ricerca della bellezza , balsamo e consolazione ideale delle quotidiane inquietudini. Voleva cadenze accattivanti, ora comiche, ora tragiche e sentimentali, che però non dovevano celare la sostanza amara e disincantata della vita
( “Voglio il riso e il pianto, la delicatezza e la volgarità, la malizia e l’innocenza, l’inquieta e malinconica solitudine che è dell’uomo, voglio carne umana , dramma rovente, sorprendente quasi, razzo finale, anche se è tristezza, malattia e morte”)
La musica di Puccini punta al cuore dei personaggi , facendo delle loro passioni l’autentica molla teatrale, la sua Boheme non è la cronaca di un ambiente , come quella di Murger, ma un’operazione idealizzante della memoria. “ Mimì deve morire , non in forza di un processo drammatico,ma solo in quanto allegoria d’una giovinezza che non può evolversi se non nella memoria. La fioraia Mimì, dalla bellezza esangue, rappresenta la trasfigurazione delle passioni indelebili dell’animo umano, la
fugacità della giovinezza , delle illusioni e degli amori senza tempo. Mimì è il ricovero emozionale , poesia autentica delle piccole umili cose e dei giganteschi sentimenti che non hanno età...E subito dopo Mimì, semplice , affettuosa , la naturalezza fatta musica , ecco la Tosca , che sparge le sue
fragranze e i suoi profumi nella Roma barocca della fine settecento del Papa Re , a Castel Sant’Angelo; profumi così intensi da far infoiare lo scellerato sbirro, Scarpia, che la vuole a tutti i costi. La Tosca di Puccini non somigliava molto a quella del dramma di Sardou , né alla Sarah Bernhardt che l’aveva portata sulle scene di tutti i teatri d’Europa .In Floria Tosca Puccini cerca
quelle assonanze e quelle sintonia con la propria sensibilità , ne rievoca le proprie origini contadine e popolane , la propria orfanezza (anche Tosca è un’orfanella convertita al canto) e ne fa un personaggio tutta fragilità sentimentale e sessualità , un simbolo d’amore e di libertà che si fonde con il mirabile paesaggio descrittivo dell’alba su Roma ( “E lucevan le stelle”) , la densità della scrittura armonica, la pasta inquieta dei timbri strumentali e il finale con una delle marce funebri più disperate e crudeli di tutta la storia del teatro musicale.
E dopo Tosca, con cui aveva inaugurato il ventesimo secolo, proprio a Roma, ecco la Butterflay , tragica vicenda della giapponesina sedotta e abbandonata dall’ufficiale di marina americano ( quando vide la prima volta il dramma di David Belasco al Duke of York’s Theatre di Londra , Puccini ne fu talmente entusiasta che chiese subito il permesso dell’autore per trasformare Madame Butterfly in un’opera lirica) , che mise in scena il 17 febbraio 1904 alla Scala di Milano con un
insuccesso pilotato (boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate) Dirà Puccini: “Come sono stati crudeli questi “buoni” milanesi e quei cani di giornalisti, con quale livore si sono scagliati . Mai io credo sia accaduto , con tanta rabbiosa e biliosa veemenza” . Le critiche furono velenose, si parlò di operetta , musica frammentata senza originalità di idee, drammetto kitsch, puro estetismo, sostanziale friabilità, opera indecente, o scaltro rimaneggiamento di materiali musicali preesistenti, ma Puccini fu difeso nientedimeno che da Giovanni Pascoli, presente alla prima, che fu facile
profeta: “Caro nostro e grande maestro, la farfallina volerà; /ha l’ali sparse di polvere/ con qualche goccia qua e là,/gocce di sangue, gocce di pianto./Ma volerà, volerà…. E , infatti, solo tre mesi dopo a Brescia, l’opera ottenne un grande successo.
Secondo la Pampanini, che fu una straordinaria Butterfly, l’emozione musicale , in quest’opera, sembra nascere da lontananze misteriose, è come se Puccini fosse stato realmente in Giappone, con quei profumi notturni orientali, quelle indefinibili angosce e quel senso di poesia che approda a vere e proprie modificazioni interne del linguaggio sonoro pucciniano, certamente un’opera innovativa, d’avanguardia, una delle realizzazioni più perfette del teatro operistico del novecento.

Quella veglia notturna di Butterfly, il senso della solitudine che l’avvolge, il sonno del bambino, il celeberrimo coro a bocca chiusa , sono questi segni di modernità che è già sottile inquietudine di sé stessa, e forse dello stesso autore, che presagisce la propria decadenza d’uomo arrivato, d’uomo
accasato ( Puccini ha compiuto 46 anni e si è sposato con Elvira, a seguito del decesso del marito di quest’ultima), apatico e circonfuso di luce , che non ha più niente da dire, come aveva scritto Illica il 25 aprile 1904, ma i tormenti di Puccini uomo moderno cominciano proprio allora. Comincia a viaggiare, si guarda intorno , avverte che è già vecchio per i critici e i musicisti più giovani, Debussy, Strauss, è umorale, provinciale , si fa mandare le camice e i colletti da Londra, descrive come un ragazzo il lusso delle cabine che gli vengono riservate sui piroscafi, si reca Buones Aires e poi a New York dove è stata allestita una stagione pucciniana. Scrive alla sorella Ramelde: “ Ah,
se sapessi il porco inglese ! Come mi secca a non saperlo. Quante donne ! E quante mi cercano e mi vogliono. Anche vecchietto si trova volendo e come!...Basterebbe alzassi un dito …E che forme le donne di qui , che culi sporgenti e che personali, che capelli! Roba da far drizzare il campanile di Pisa!”Ed ecco che dalle bellezze americane nasce un’altra donna, la Minnie della Fanciulla del West, opera che andò in scena al Metropolitan la sera del 10 dicembre 1910 con un successo di pubblico solo apparente. In realtà qualcosa si è modificato, si sono ribaltate le posizioni:fino alla Butterfly era stato Puccini a portare avanti i suoi personaggi e a muoverli con un attaccamento che poteva apparire perfino sadismo, questa volta sono i personaggi a mostrarsi da soli, quasi non volessero lasciar spazio al Puccini, geniale inventore di melodie, e a costringerlo, invece, parola per
parola, ad interessarsi dei loro sentimenti, insomma qualcosa di pirandelliano. In questo caso l’impeto tragico diviene enfasi fuor d’ogni misura . Siamo in presenza di un sostanziale senso di distacco fra l’opera d’arte in sé ed i sentimenti del suo creatore. Che poi sono alcuni caratteri distintivi non soltanto della musica novecentesca, ma di gran parte della produzione artistica del nostro tempo. Anche Mosco Carter , che aveva esaltato le sue eroine che s’inquadravano negli schemi freudiani, tutte sconfitte e “condannate”, tranne appunto Minnie, liquida sommariamente l’opera definendola un disfacimento del melodramma e definirà la successiva e incompiuta Turandot , un sarcofago del melodramma, la fine di un modo di concepire il teatro musicale.
E’ il rovesciamento delle posizioni tra i personaggi e il suo autore, tra Puccini e le sue donne. Puccini è ormai avviato al tramonto e quest’opera è la testimonianza di una crisi , siamo lungo un crinale fra le inquietudini linguistiche ed espressive che separano l’Ottocento dal Novecento.
Puccini era un artista celebre e un uomo ricco. Ormai si poteva concedere tutto, il motoscafo che lo veniva a prendere a Torre del Lago per andare a Viareggio, fucili, motori, automobili, orologi, vestiva con eleganza, era un gran signore alla mano, ma a nessuno sfuggiva la sua indomabile malinconia, la sua accentuata tristezza , che egli stesso riconosceva essere senza ragione. La sua amante ,la baronessa Josephine von Stangel , una giovane signora di Monaco di Baviera divisa dal marito, che Puccini aveva conosciuto sulla spiaggia di Viareggio verso la fine del 1917 , gli propone di abbandonare la moglie Elvira e di farsi un nido altrove, ma Giacomo, per quanto lo desideri, non ha il coraggio di un gesto che avrebbe suscitato uno scandalo troppo grande e preferisce continuare la strada dei piccoli sotterfugi e degli incontri segreti. Ciò gli provocava ansia e malumore, ma la
vera angoscia era quella di non trovare un libretto adatto alla sua ispirazione, cercare altri personaggi femminili. Gli propongono una collaborazione con Dannunzio, ma lui rifiuta: Il poeta porta male al teatro lirico , scrive nel novembre del 1918 , in lui manca sempre il vero e spoglio e semplice senso umano. Tutto sempre è parossismo, corda tirata, espressione ultra eccessiva.
Accetta di mettere in musica il famoso Trittico , in cui troviamo “Il tabarro”, un grand guignol, un’opera mancata con zone geniali, e poi “Gianni Schicchi” , un personaggio umoristico tratto dalla Divina Commedia, capolavoro d’equlibrio e di saggezza ridente, e infine “Suor Angelica”, con al centro un altro personaggio femminile, un’armonia di femminee delicatezze , con una musica di una mollezza quasi pascoliana, ma anche un dolce sogno virginale solcato da un momento di strazio.

Siamo alla fine della prima guerra mondiale e Puccini ha un assillo sempre più crescente: “rinnovarsi o morire? L’armonia d’oggi e l’orchestra non sono più le stesse.”Avverte l’esigenza di cambiare, ma non sa ancora esattamente come, in quale direzione. Ha scarti di malumore e di nostalgia uniti ad un’insaziabile e mal dissimulata curiosità nei confronti del nuovo. Vuole stupire il mondo con una nuova opera , qualcosa che gli dia nuovo entusiasmo, nuova linfa, nuova vitalità e quando l’amico Renato Simoni , alla stazione di Milano , gli propone di pensare alla messa in scena della fiaba gozzaniana “Turandot” , la storia della bella e crudele principessa misantropa, la cosa lo
affascina , gli sembra adatta per realizzare le sue nuove idee. Conosce la fiaba perché è stata già messa in musica da Ferruccio Busoni e rappresentata a Zurigo nel 1917, ma lui intende farne qualcosa di fantasmagorico. Un’amica gli parla del lavoro teatrale messo in scena anni addietro in Germania da Max Rehinardt , gli promette che gli farà avere delle fotografie. Puccini s’entusiasma,
chiede a Simoni di esemplificare il testo , di renderlo snello ed efficace , di esaltare la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio. Pensa ad un personaggio da realizzare “ attraverso il cervello moderno”, ma passano due anni e il lavoro non va avanti , perdura il suo malumore, quel senso di annichilamento . Gli sembra di lavorare per le ombre, gli sembrano sforzi inani , tutto inutile. “Ormai il pubblico – scrive all’amico Simoni – non ha più il palato e il gusto per la musica ; ama, subisce musiche illogiche , senza buon senso. La melodia non si fa più, o se si fa, è volgare. Si crede che il sinfonismo debba
regnare , invece io credo che è la fine dell’opera di teatro. In Italia si contava, ora non più.”
I dubbi e le inquietudini dell’artista , il timore di perdere contatto con la realtà circostante, con le nuove correnti musicali , ora non avevano più - sullo sfondo- le nevrosi erotiche d’un tempo, che erano quasi del tutto tramontate , ma diventavano più intime e logoranti nell’incubo della vecchiaia. Pensò addirittura di sottoporsi ad un trapianto ghiandolare di ringiovanimento di cui si erano avuti esperimenti in cliniche di Parigi e Berlino. Era ricco e famoso , ma niente più gli dava la gioia, la soddisfazione, l’orgoglio di un tempo , né l’enorme gettito dei diritti d’autore, le proprietà che aveva sparse un po’ ovunque, gli amici , la caccia, i viaggi , le sue automobili. S’immerge nel lavoro della Turandot con i soliti momenti d’euforia e abbattimento, incertezze , contraddizioni, ripensamenti, e , come sempre , Puccini scarica tutte le colpe sui suoi librettisti, che erano invece intelligenti, colti e devoti a lui. Ci vogliono altri due anni, dal marzo 1922 al febbraio 1924 , per finire la strumentazione dei primi due atti, ma quello che lo angustia è il terzo atto , di cui non riesce ancora a vedere il logico sbocco drammatico.Accusa , come al solito , i “poeti” di trascurarlo, ma in realtà avverte inconsciamente che si è avviato lungo una strada senza uscita , fatta di esperienze composite che devono essere ricondotte ad un’unità . Capisce che deve dare un taglio netto e definitivo al passato , con le vecchie regole del melodramma. Era partito dalla passione amorosa di Turandot, ma i sentimenti di questa donna sembravano emergere soprattutto come la componente di un misterioso ed affascinante rituale scenografico; l’unico personaggio che richiamava le sue eroine , deboli e destinate ad amare e a morire d’amore, è quello che non c’era nella fiaba drammatica del Gozzi, Liù, che conserva intatta la felicità musicale e la delicatezza delle intuizioni liriche delle sue donne , per il resto naviga in un mare di incertezze. L’ultima delle sue donne non è Turandot, ma Liù, “che va sacrificata –dice - perché questa morte può avere una forza per lo sgelamento della principessa”. Intuisce che non ce la farà a finire l’opera. “”Io ci ho messo in quest’opera tutta l’anima mia , ma non so se potrò finirla in tempo” , anche se scaramanticamente ne fissa l’esecuzione alla Scala per l’aprile 1925. Ma già nell’aprile del 1924 giunge l’evento irreparabile del suo “mal di gola” che lo affligge da diverso tempo: si tratta di un tumore maligno. Continua a sperare, o fingere di sperare ( sa che la madre e la sorella suora erano morte dello stesso male) , in agosto scrive agli amici di stare benone , soffre solo di una fastidiosa faringite e tonsillte , parla di caccia e in Ottobre si reca a Torre del Lago, per l’ultima volta. Il 3 novembre scrive a Clausetti , per la Turandot: “Occorre una donna eccezionale e un tenore che non scherzi. Non averla finita quest’opera mi addolora. Guarirò per finirla in tempo?”
La sera del 4 novembre Puccini parte per Bruxelles , accompagnato dal figlio Tonio: all’Institut de la Couronne , diretto dal dottor Leodux , dove sarebbe stata tentata la cura del radio , unica possibilità di salvezza, gli avevano detto a Firenze. Puccini farà un po’ da cavia e sarà la prima vittima illustre delle pionieristiche terapie anticancro. Operato il 24 novembre , - tre ore e quaranta minuti di sala operatoria , dolori atroci, impossibilitato a parlare , - Puccini scrive su un taccuino:
“Caro Magrini , la Maremma è ancora bella?, si va a caccia?”. Per qualche giorno l’atroce supplizio sembra avviato a risultati positivi ( “Puccini en sortirà”, dice Ledoux) , ma alle nove di sera del 28 novembre una sopraggiunta crisi cardiaca ne segna l’inevitabile fine. “Ho l’inferno in gola, mi sento svanire”, scrive Puccini sul taccuino. Sono le sue ultime parole. Ormai non c’è più niente da fare. Arriva l’ambasciatore italiano , poi il Nunzio Apostolico che si intrattiene qualche minuto da solo e gli impartisce i sacramenti. L’agonia dura quasi tre ore. Alle undici e mezzo di sabato 29 novembre 1924, il cuore di Puccini cessa di battere.. Un attimo prima di morire forse rivede in un flash tutta la sua vita: pianista e organista adolescente a Lucca, studente e autore di pezzi orchestrali a Milano , cacciatore sul Lago di Massaciuccoli, i primi successi, il benessere, la fama, i grandi viaggi ,gli amici, le donne e il fumo , la nomina a senatore del Regno d’Italia . Rivede la galleria dei suoi personaggi femminili, le sue “grandi” donne, figure indimenticabili, fragili come onde di mare ,ma non arrendevoli, eroine struggenti che conquistano il cuore della gente, riascolta la sua musica di straordinaria forza narrativa e di miracolosa precisione teatrale , la sua musica che ci fa ancora sognare e commuovere , e si firma , con malinconica autoironia , come usava fare negli ultimi mesi della sua vita: il vostro “ sonatore del regno”.

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