04 luglio 2006

"L'onda del porto" di Emanuele Trevi

di Lagi

Alzò un’onda immane Poseidone Enosictono,
un’onda inarcata, travolgente, terribile, e in pieno lo colse.
Odissea, V 366-7

“Oggi, 10 gennaio, 41 anni. Bilancio della vita pessimo su tutti i fronti:
amore,
lavoro,
interesse generale per la vita,
fiducia nel futuro,
quella che le riviste femminili definiscono autostima”.


Il protagonista di “L’onda del porto” si presenta così ai suoi lettori: è un uomo insoddisfatto della vita che conduce, di professione scrittore, ma con una capacità di immaginazione atrofizzata fin dall’infanzia. E che a dicembre, nel freddo del proprio appartamento romano, con un guasto alla caldaia che sembra impossibile da riparare, decide di partire per il sud dell’India, subito dopo le drammatiche sequenze dello tsunami: “quelle centinaia e centinaia di km di coste devastate che si vedevano nei telegiornali erano, a tutti gli effetti porzioni di mondo aggredite, e irrimediabilmente deturpate, dalla pura e spietata violenza dell’informe. Il tipo particolare di ostilità che questa immensa forza scaturita dagli abissi marini sembrava esprimere, poteva in effetti far pensare all’azione di una colossale gomma per cancellare decisa ad aggredire, una volta per tutte, le condizioni elementari della visibilità del mondo: colori, superfici, spigoli, prospettive, ritmi di pieno e di vuoto”.

La notte prima di prendere l’aereo per l’india, il protagonista si ritrova con in tasca una foto trovata su un giornale di quei giorni. “Proveniva da un parco naturale in Kenya. Si vedeva un cucciolo di ippopotamo, scampato al maremoto che aveva raggiunto in qualche ora anche le coste dell’Africa, ma rimasto orfano, accovacciato a fianco di un’enorme tartaruga centenaria. Owen, questo il nome del piccolo, si era talmente affezionato alla vecchia tartaruga, in seguito al disastro e alla perdita della sua famiglia, da non potersene più separare.” Un brandello di verità molto oscuro e inesprimibile: nessuna luce può attraversare i legami tra gli esseri viventi, nessuna sonda può arrivare a toccarne il fondo. La pura felicità dell’affetto dell’ippopotamo contro la saggia e quasi regale compostezza della testuggine. E così, con quell’immagine nella mente, con l’insoddisfazione e il disagio del writer bloccato, a corto di qualsiasi ispirazione, il protagonista si ritrova, senza rendersene conto, a Mullur, un posto come tanti, in India, che doveva rappresentare solo la prima tappa di un viaggio, e che invece si trasforma in una forza inspiegabile che lo trattiene in questo buco nel mondo. Ma un viaggio che si ferma alla prima tappa è ancora un viaggio?

Sarà l’occasione per fare amicizia con due piccoli amici, di 12 e 11 anni, Vijesh e Vinosh, felici e ilari, che amano cantare a squarciagola la sigla di Guerre Stellari. E di conoscere l’India più cruda, quella dell’aria irrespirabile e del caldo intollerabile, quella di cumuli immensi di spazzatura, abitati da legioni di topi e di corvi, con i negozi e le bancarelle che espongono le merci coperte da uno strato di polvere eterno, i vecchi accasciati sulle soglie per dormire, i bambini che corrono verso i veicoli lanciati in corsa e strombazzanti. E di visitare la scuola di Neema, una volontaria che si dedica ai bambini poveri, desiderosi di imparare, che piroettano e interpretano a modo loro una danza cinematografica, con tanto di musica e canottiere di paillettes azzurre.

Un viaggio dopo la tragedia, che porta il protagonista a visitare i villaggi devastati dalla furia dello tsunami, con i sopravvissuti che hanno pianto tutte le lacrime che potevano piangere. Dopo l’onda anomala, il paesaggio si mostrerà impietosamente senza veli, con i villaggi distrutti, le baracche d’emergenza costruite dall’esercito, enormi cisterne nere dell’Unicef per l’acqua potabile, le fosse comuni, il numero dei morti tracciato con dei rametti o direttamente con un dito, sulla sabbia, dai bambini scampati alla tragedia.

“Come un’acqua – scrive Bouvier – il mondo filtra e scorre attraverso di noi, prestandoci i suoi colori. Poi, però, si ritira, lasciandoci davanti al nostro vuoto, alla nostra insufficienza centrale dell’anima. Come sabbia tra le dita, il contenuto del viaggio sfugge e ci riporta a mani vuote sulla via di casa. Eppure, proprio quell’insufficienza che torniamo a contemplare alla fine di tutti i nostri viaggi, quando i colori del mondo fuggono via, è anche il più sicuro dei nostri motori”.

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