05 giugno 2017

“IL FIGLIO DELLA FORTUNA” DI CAPODIFERRO EGIDIO a cura di Vincenzo Capodiferro


IL FIGLIO DELLA FORTUNA” DI CAPODIFERRO EGIDIO
Una raccolta di venticinque racconti che rispecchiano il disagio dell’uomo contemporaneo con tocchi di ironia

«Il figlio della fortuna si rivolge a tutti indistintamente, ognuno di noi può immedesimarsi con almeno uno dei personaggi che si muovono all’interno dei venticinque racconti che compongono questa raccolta. Con toni che vanno dall’ironico e umoristico all’enigmatico e riflessivo, Egidio Capodiferro descrive, con lo sguardo che solo i semplici sanno usare, episodi di vita quotidiana: la difficoltà di un titolare di una gioielleria nell’assumere una nuova commessa, l’equivoco che viene a crearsi intorno al furto di un anello, la rivincita di uno scultore incompreso, il salvataggio di una bambina che avrà come epilogo i festeggiamenti di un matrimonio. Quattro amici in viaggio in macchina». Il figlio della fortuna è un’opera di Capodiferro Egidio, pubblicata da Italic Pequod, Ancona 2017. Egidio Capodiferro abita in un piccolo paese dell’entroterra lucano ed insegna nella scuola dell’infanzia. Nel tempo libero coltiva la passione per la scrittura. Trai suoi lavori segnaliamo: “Acquerelli”, Puntoacapo 2016; “Incastri lirici”, Limina mentis 2016; “Fedra-Ocna”, Ibiskos 2016; “Soliloquio di un folle”, Cicorivolta 2017. L’autore ci racconta fatti di vita quotidiani, in cui i protagonisti riflettono le contraddizioni e le peripezie della vita, in uno stile ironico – che caratterizza la narrativa del Capodiferro – e riflessivo. Così vi troviamo Lucio Legume, l’artista incompreso, il signor Cinque che riceve un mazzo di rose strano, il vecchio Alessio Gemini che si lascia morire dopo la dipartita della consorte: «Alessio Gemini era un vecchio con almeno ottantacinque anni sulle spalle. Ormai da un po’ di tempo a questa parte, e precisamente dopo la morte della moglie, gradualmente aveva cominciato a rifiutare il mangiare. Dai cibi solidi era passato a quelli liquidi, e dopo sei mesi beveva soltanto qualche succo di frutta, così si rese necessario chiamare il dottore, il quale dopo averlo accuratamente visitato ordinò che si procedesse al nutrimento del malato con flebo». Sono tanti racconti verosimili, in cui tutti possiamo riconoscerci, perché la letteratura, in questo caso si fa portatrice del vero universalmente, come afferma Aristotele nella Poetica, proprio in quanto verosimile e non vero. In ciò l’arte differisce dalla storia, che è scienza del particolare. I racconti del Capodiferro sono semplici, autentici, realistici – diremmo anche veristici -, colgono l’essenziale con note di ironia mescolate a fantasia. L’uomo in quanto ha voglia di uscire sempre dallo stato dell’aurea mediocritas, si trova invece a fare i conti con la disillusione, con la noia e l’abbandono, con la dura realtà della vita. I venticinque racconti sono piccoli quadretti, idilli, a volte drammatici. L’angoscia, questo dolore esistenziale atipico – quel male di vivere montaliano – fa da sottofondo e sfocia nell’ironia, nel riso dissacratore. Di fronte al dramma della vita non possiamo fuggire, ma possiamo piangere o ridere. Un po’ questi atteggiamenti venivano raffigurati ne “La Scuola di Atene” come Eraclito e Democrito. Però il filo conduttore che lega questi quadretti è proprio la fortuna: l’uomo, machiavellicamente, in parte è faber fortunae suae. Può decidere di se stesso fino ad un certo punto. Noi tutti siamo figli di questa fortuna, che regge la storia, il tempo e lo spazio. Solo nel contesto di questo svolgimento cosmico possiamo in qualche modo autoregolarci. Si respira in quest’opera naturalmente un’aria di checovismo inaudita. La letteratura si fa portavoce delle ansie e dei sospiri umani, diventa lo specchio dell’anima, un’anima a volte triste, a volte allegra. La visione della vita riflette quell’ironia quasi pirandelliana. Questo lavoro del Capodiferro si iscrive bene nel panorama narrativo che poi esplode nel suo capolavoro: il “Soliloquio di un folle”.


Vincenzo Capodiferro

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