16 gennaio 2017

I CATETI DEL TEMPO SULLA CITTÀ Il testamento spirituale di Antonio Motta. Ricordo di un uomo e di un intellettuale lucano a cura di Vincenzo Capodiferro

I CATETI DEL TEMPO SULLA CITTÀ
Il testamento spirituale di Antonio Motta. Ricordo di un uomo e di un intellettuale lucano a cura di Vincenzo Capodiferro

È stato presentato sabato 14 gennaio, alle ore 18.00, presso il Museo provinciale di Potenza, il libro “I cateti del tempo sulla città. Autobiografia e testamento” di Antonio Motta, edito da Paolo Laurita, a Potenza, nella collana “I quaderni di bacheca” , n. 4. Hanno preso parte tra le autorità il Sindaco Dario De Luca, il presidente della provincia Nicola Valluzzi e gli storici Antonio Lerra e Giampaolo d’Andrea. Era l’ultimo libro di Antonio Motta. Lo aveva scritto prima di morire, come suo testamento spirituale. Non aveva fatto in tempo a correggerne le bozze ed era rimasto lì. Poi Paolo Laurita ha preso a cuore l’ultimo lavoro dell’ingegnere filosofo e ne ha curato l’edizione, che è uscita postuma. Con questo si chiude anche la collana dei quaderni di bacheca. Antonio Motta era un grande e nobile uomo, sempre accogliente, sensibile ed attento. Lo ricordo ancora con la sua manina tesa, che ti dava per affetto e subito ritraeva, perché soffriva di forti dolori ai tendini. E poi col suo sguardo chiaro ti ammaestrava per ore. Andare da lui era come andare da un vate. Se entravi nella sua casa a Potenza, a ridosso di Via Pretoria, tutto l’appartamento era un biblioteca immensa: vi trovavi di tutto! Ma egli stesso era una biblioteca vivente, arricchita dall’esperienza. Era nato a Laurenzana, una cittadella nel cuore della Lucania. Viveva a Potenza, dove si era trasferito dall’immediato dopoguerra, per il lavoro e dove è morto nel 2006. Per molti anni è stato ingegnere capo dell’ufficio tecnico dell’amministrazione provinciale. Era lui che ha curato in pratica la realizzazione di gran parte del settore viario della regione Basilicata. Questa esperienza poi la si ritrova nei suoi scritti. È stato storico e studioso che ha saputo conciliare gli interessi del lavoro con quelli della cultura. Alla cultura storica si dedicò totalmente dall’età della pensione. Raccontava infatti, che esausto della corruzione che andava sempre di più dilagando nella vita pubblica, incidendo fortemente anche nella realizzazione dei lavori pubblici, ad un certo punto potendo andare in pensione molto tempo prima, perdendo anche parte del guadagno, prese il cappotto e lasciò la poltrona. E ripeteva sovente: non sono le poltrone che fanno le persone, ma le persone che fanno le poltrone! È stato membro di varie associazioni culturali, tra cui quelle più note: il circolo Silvio Spaventa Filippi - di cui era socio onorario e trai fondatori del premio Basilicata - e la Deputazione di Storia Patria della Lucania. Si è fatto conoscere dagli studiosi di storia fin dal 1981 con il “Memorandum del centro storico di Potenza”. Nel 1989 al suo volume “Carlo Afan De Rivera. Burocrate ed intellettuale borbonico. Il sistema viario preunitario” fu assegnato dalla giuria, presieduta da Tommaso Pedio, il premio Basilicata per la saggistica. Carlo Afan De Rivera era stato un grande riformatore illuminato del governo borbonico ed aveva curato, in particolare, tutto il settore viario. Tra le opera che aveva seguito con peculiare interesse vi era la regia strada delle Calabrie, che poi è diventata la statale n. 19, un’importante via di collegamento che da Salerno, attraversando la Lucania, scendeva giù per la Calabria. I suoi capolavori sono stati “Oltre Eboli” (1998) e “ Giovanni Andrea Serrao Vescovo” (1999), costituenti i primi due quaderni di bacheca di Paolo Laurita. In quest’ultimo in particolare raccontava la storia drammatica di questo prelato potentino, protagonista della rivoluzione del 1799 lucano. Questo vescovo fu sacrificato sull’altare della rendita fondiaria, infatti venne massacrato dalla borghesia potentina, per essersi opposto ai suoi interessi terreni. E compare qui la figura di un martire, che non è stato mai valorizzato, proprio perché era andato contro le logiche dei potenti. Antonio Motta ha girato la Basilicata palmo palmo, paese per paese. Da ingegnere del Genio Civile, aveva seguito la costruzione di diverse strade provinciali. Ancora al mio paese se lo ricordano, quando veniva per tracciare il corso delle strade e seguirne i lavori. E come si turbava, perché nella costruzione delle strade doveva tener conto di tutte le lamentele dei proprietari terrieri, i quali spesso non volevano cedere parte dei loro fondi per la pubblica utilità. Venivano sacrificati allora i piccoli possedimenti dei cafoni e salvati invece i latifondi dei galantuomini. «I baroni mangiavano la polenta coi passerotti!», che cuore avevano, per massacrare dei poveri passeri e poi metterli a cuocere interi con la polenta! Avveniva anche che questi galantuomini facevano deviare il corso delle strade per far valorizzare i loro fondi. Ed era sempre una guerra, in ogni paese! Al mio, ad esempio, la strada provincia veniva dirottata in un territorio franoso. Ancora se lo ricordavano Sandra ed il compianto Eugenio Montesano, il medico del paese, i quali lo ospitavano a casa loro e si prendevano cura di lui. Conosceva alla perfezione tutto il sistema viario nella sua evoluzione storica dall’età antica fino al dopoguerra. Aveva studiato tutti i tracciati delle vie romane: dell’Appia, della Popilia, dell’Erculea, con tutte le “stationes” annesse. Aveva ripercorso tutti i tratturi regi, le vie della transumanza, che riprendevano quegli antichissimi sentieri, che risalgono alle origini della storia, al Neolitico. Basta rileggere i suoi studi: “Per le montagne di Basilicata, per tutti quei paesi, più o meno alpestri” e “L’abbiamo a piedi percorso erborizzando”, apparsi sul Bollettino Storico della Basilicata. La sua cultura storica veniva arricchita dall’esperienza diretta, che aveva avuta da ingegnere, su tutto il territorio. Non a caso mi aveva indirizzato a studiare un altro filosofo ingegnere illuminista francese: Nicolas Antoine Boulanger. Anche lui era costruttore di strade e di ponti. Ed io, ascoltando la voce del maestro, mi ero accinto ad approfondire il pensiero di costui e vi avevo pubblicato un lavoro “La dittatura di Dio”, dedicato, non a caso ad Antonio Motta. Prima di morire mi aveva affidato la traduzione dell’Epistola di Giacomo Castelli, del Settecento. Giacomo Castelli, di Carbone, era un intellettuale che aveva girato tutto il Regno di Napoli e aveva descritto tutti i popoli, le usanze. Bella, ad esempio, è la descrizione del bosco fluviale di Policoro, un gioiello incontaminato del Regno di Napoli. Veniva visitato da tutto il mondo e conservava specie mai viste di flora e di fauna, prima che venisse raso al suolo con la riforma agraria degli anni Cinquanta. L’ultimo Barone, il Berlangieri, proprietario di tutto il tenimento di Policoro, lo aveva tenuto ancora intatto. Questo itinerario del Regno di Napoli era stato ritrovato da Motta dopo tante ricerche in una biblioteca di Venezia. Io avevo fatto la traduzione e stavo per riconsegnargliela, ma poi Antonio è morto, lasciandoci un vuoto incolmabile, culturale ed umano. Questo prezioso documento storico è stato poi accolto nella rivista letteraria “Nugae” di Battipaglia. Ringrazio ancora Michele Nigro che allora prese a cuore questo prezioso lavoro e lo pubblicò. Antonio Motta ha scritto anche belle raccolte di versi, come “Frammenti dall’esilio” (1999) e “Versi di Babele e Babele di versi” (2003). Quest’ultima raccoglie i componimenti del decennio 1956-1966, «dalla morte di nonno Antonio al matrimonio con Emilia, scritti tra Bari, Potenza e Laurenzana». Da giovane Antonio aveva studiato ingegneria all’università di Bari. Faceva per guadagnarsi qualcosa il correttore di bozze per conto dell’editore Laterza. Aveva corretto tutte le opere di Croce. Come mi raccontava, aveva così supplito alle carenze della cultura classica. Gli mancava molto, ad esempio, la conoscenza del latino. Aveva aderito alle idee marxiste ed all’ideologia comunista. Ma dopo la rivolta anticomunista di Budapest nel 1956, come molti intellettuali di sinistra, ebbe una certa disillusione. Da allora si avvicinò al cristianesimo. E questa tematica, molto forte, la ritroviamo proprio in questa sua ultima opera: i cateti del tempo sulla città. Egli si confronta con la “Città di Dio” di Agostino. E si confronta soprattutto sul tema del tempo, su cui il Vescovo di Ippona aveva dato un nuovo orientamento. Il tempo degli ingegneri è un tempo spazializzato, come direbbe Bergson, matematizzato. Il tempo di Agostino, invece, è il tempo dell’anima. Era venuto anche al paese, insieme a Paolo Laurita a presentare il mio libro “Una Domenica di sangue”. Mi aveva infatti seguito con accortezza ed amore nella stesura e nelle ricerche storiche. Il suo primo titolo, non a caso, era “Storia di una rivoluzione d’ottobre”. Il titolo non era casuale, perché proprio nell’ottobre del 1860, in occasione del plebiscito per l’Unità d’Italia, tutto il Lagonegrese, tutta la Lucania, tutto il Sud insorse contro la conquista piemontese. Vi erano due Lucanie: quella di Corleto e di Potenza, favorevole ai Savoia, e quella dei cafoni e dei nobili, fedeli ancora al Borbone. Motta si era reso conto che il teorema marxista – nobiltà teista, borghesia deista, proletariato ateista – non poteva essere applicato nelle regioni del Sud. Qui l’aristocrazia e i contadini erano rimasti fedeli al Borbone ed erano ancora sanfedisti, mentre la borghesia e la massoneria potentina si erano vendute al Piemonte per conservare i loro privilegi e divenire la nuova classe dominante, soppiantando quella antica. Anche un altro grande storico lucano, anche egli socialista e “potenzese”, Tommaso Pedio, sosteneva la stessa tesi. Quando lo andai a trovare insieme a Giuseppe Cracas, prima di morire, mi fece questa domanda: tu lo sai che nel febbraio del 1860 al tuo paese, nove giovani, tutti figli di contadini, furono fucilati con l’accusa di renitenza alla leva? Nessuno lo sapeva! Per uno stupido errore burocratico, perché era stato rinviato l’avviso di presentazione alle armi, ma l’esercito ancora non ne era stato messo al corrente, tanti giovani furono fucilati perché non si erano presentati alle armi senza saperlo! Facemmo anche mettere una lapide in ricordo di questi nove giovani. Oggi non si trova più nella piazza. È forse troppo scomoda! Così cominciò la grande stagione del brigantaggio: la rivoluzione mancata. Tutte le rivoluzioni borghesi sono riuscite: quella francese, quella americana. Le rivoluzioni proletarie sono riuscite, come quella Russa del 1917. Le rivoluzioni dei contadini sono tutte fallite. Chissà perché? Da quelle di Lutero, che si vendette ai poteri forti dei principi e li fece massacrare fino al brigantaggio sono tutte fallite. Munzer ed Huss furono arsi sul rogo, perché avevano difeso i contadini. Lutero e Calvino, invece, alleati della borghesia divennero teocrati. I Borboni erano re socialisti, amati dal popolo, ma vennero fatti fuori col beneplacito internazionale dell’Inghilterra. Questa è un’altra storia: la questione meridionale. Antonio Motta, insieme a Tommaso Pedio, è stata una delle ultime voci dei meridionalisti lucani. Abbiamo dedicato questo breve ricordo ad un uomo che ci ha voluto bene, ci ha seguito nei nostri studi, ci ha indirizzato nella ricerca, e ci ha dato sempre una mano tesa, anche se dolorante. Quest’ultima opera, pubblicata postuma da Paolo Laurita è veramente un grande riconoscimento all’opera ed alla figura di quest’uomo che ha dedicato la sua vita alla Lucania ed alla sua Città, su cui vertono i cateti temporali. E su questi cateti domina Pitagora: la somma dei quadrati costruiti sui cateti del tempo corrisponde al quadrato costruito sull’ipotenusa. Il tempo è un triangolo perfetto, un triangolo rettangolo. Questo triangolo è un simbolo che ci rimanda alla Trinità, cioè all’eternità. Il tempo corrisponde in qualche modo all’eterno, è inquadrato, o meglio triangolato sull’eternità. La triangolarità ci riporta alla tridimensionalità: la relatività einsteniana. Ma il tempo matematico è solo il sottofondo, su di questo si dispiega la storia. La storia è la misura del tempo secondo l’anima. Quest’anima però non è solo individuale – la mia storia personale – ma è anche collettiva: la storia della Città! La città terrena, cioè Potenza, si proietta verso la città eterna. Ogni tempo ed ogni storia tendono all’eternità.


Vincenzo Capodiferro

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