19 maggio 2016

L’ORIZZONTE A QUADRETTI Esperienze dal carcere

L’ORIZZONTE A QUADRETTI
Esperienze dal carcere

«La differenza tra noi e voi consiste solo in questo: noi vediamo il vostro stesso orizzonte, ma a quadretti,» mi risponde un detenuto. Vi devo raccontare un’esperienza personale che ho avuto modo di vivere e che è stata decisiva per il proseguo dei miei studi universitari. Si è, infatti, aperto quel cassetto ove ho riposto e custodito gelosamente il mio sogno: stare a contatto con coloro i quali, avendo commesso dei gravi sbagli, sono detenuti, condividendone la realtà quotidiana, le emozioni, le aspirazioni, la voglia di riscatto, la riabilitazione. Ho avuto modo di aggiudicarmi una piccola borsa di studio, offerta dall’Università “Insubria” di Como, il cui contenuto prevedeva un soggiorno di quattro giorni intensi per introdurre la facoltà di Giurisprudenza, la mia futura facoltà … e quindi, quale migliore occasione mi si presentò? Iniziarono così quei momenti di confronto, di condivisioni, di testimonianze dirette, ma soprattutto due giornate vissute a stretto contatto con la realtà carceraria, quella vera, quella dura, quella a volte crudele … ma talvolta capace di trarre il meglio delle persone, di vincere i loro primordiali istinti aggressivi, la loro malvagità, capace quasi di “trasformare”. Forte è in tutti noi la curiosità di sapere, di conoscere, di giudicare … ma altrettanto forte deve essere il desiderio di muovere le nostre competenze, la summa di conoscenze e capacità, per essere utili a chi ha bisogno di aiuto per correggere il cammino della propria esistenza. «Cara Persona detenuta, ero curiosa di sapere che cosa avessi combinato e avevo paura di te, ma oggi mi interessa solo la persona che vuoi diventare»: è stato questo il pensiero conclusivo di quella avventura, è questo il pensiero che da allora mi accompagna. Per questo il mio ringraziamento va in primo luogo all‘Università per la folgorante esperienza e a quelle persone, i carcerati di Bollate e Opera, che hanno avuto il desiderio, l’umiltà di aprirci il loro animo, un gesto che per loro rappresenta un contatto con l’esterno e per me tutto quello che ormai sapete, tanto che, il mio secondo “grazie” lo rivolgo a me stessa per l’impegno, la responsabilità e la dedizione che metterò in campo per dare il mio piccolo contributo, affinché questa società possa essere composta non da individui perfetti ma migliori. Delinquenti non si nasce, si può rischiare di diventarlo, ma ognuno ha diritto di intraprendere un percorso di riabilitazione se accompagnato da una voglia autentica di riscatto e di consapevolezza, dove ognuno di noi può giocare la sua parte. Steve Jobs diceva: «Investire in comunicazione e in formazione in tempo di crisi - (anche esistenziale) -, significa costruirsi le ali mentre gli altri precipitano» … non so se un detenuto alla fine imparerà a volare, di sicuro avrà almeno fabbricato le sue ali per provarci. “Vigilando redimere”: può essere sintetizzata in questi due verbi la funzione civile e morale che la società attribuisce al regime di detenzione. Lasciare per anni in carcere chi compie un reato, una violenza, un crimine, non è garanzia in sé sufficiente di presa di consapevolezza di quello che ha compiuto, di pentimento per il dolore che ha provocato e di impegno e buoni propositi da attuare una volta fuori. “Non è colpa mia!”: la reazione prima che scaturisce quando si viene accusati, non perché non ci si renda conto di mentire anche a sé stessi, ma perché la mancata accettazione di una realtà dolorosa costituisce uno dei meccanismi di difesa più antichi che la nostra mente utilizza per sopravvivere. E se questo è vero nelle nostre piccole cose quotidiane, che impatto può assumere nel modo di pensare, ragionare e vedere la realtà di chi invece compie un’azione illegale e criminale? Oltre a sottovalutare la gravità e le conseguenze delle azioni, non curante dei pericoli a cui espone sé stesso e gli altri con il suo comportamento, l’autore di tali gesti, entrando in un circolo vizioso, si convince della sua onnipotenza, di poter calcolare e prevedere ogni mossa , di vivere senza rispettare le regole e le leggi; ma nel momento in cui queste certezze crollano, il contatto con la realtà è difficile da reggere: non essendo mai stati disposti ad accettare la presenza di norme prestabilite e non riconoscendo che il giudicare il proprio comportamento è una funzione svolta anche da persone esterne a sé, il confronto con il potere giudicante è visto come un ente senza valore che attribuisce una pena a chi non la merita. In un’ottica differente da questo ruolo, la detenzione non farebbe altro che avvalorare l’oppressione che vive il detenuto : il carcere da solo non previene né scoraggia il detenuto a ricompiere nuovamente il reato una volta fuori. Il passare tutto il giorno chiuso in una cella, fatta eccezione per “l’ora d’aria”, senza avere contatto con l’esterno, il fatto che non si è più liberi di decidere come impiegare il proprio tempo, ma essere soggetti, anche per le cose più elementari, a dover chiedere il permesso, produce di fatto un ulteriore inasprimento del sentimento di rivalsa e vendetta nei confronti della società che l’ha costretto ad essere dipendente dalle decisioni altrui. Ecco perché la funzione del carcere deve essere un’altra: l’obiettivo ultimo deve essere il recupero sociale dell’individuo in modo tale che una volta scarcerato non ritorni a delinquere, ma diventi conscio degli effetti che le sue scelte sortiscono su di sé e sugli altri. Proprio per offrire un’opportunità di vita diversa rispetto al passato, in alcune realtà di detenzione italiana vengono organizzati corsi in cui si insegna un mestiere, da svolgere “dopo” anche come fine psicologico di orientare la mente del detenuto al futuro, al di fuori delle sbarre, perché possa pensare in termini propositivi e concentrarsi su uno scopo che può raggiungere, perché si convincano che da “carnefici” possono anche loro diventare uomini migliori. Notizie che apprendiamo dai quotidiani, dai telegiornali, dalle inchieste ci confermano che la situazione pratica nella quale sono costretti a vivere i nostri detenuti sia molto differente da quella, quasi idilliaca, descritta nella teoria. La parola “sovraffollamento” è sulla bocca e nelle orecchie di tutti, o almeno dovrebbe essere così. Dopo la Serbia siamo noi italiani a registrare il più alto tasso di sovraffollamento. Della popolazione carceraria, secondo dati ISTAT, il 60% in Italia sono stranieri, che pur commettendo reati minori (a volte delinquono per mantenersi non trovando lavoro, perché sprovvisti di documenti e considerati perciò nessuno dalla società) degli italiani restano in carcere senza concedersi gli arresti domiciliari non avendo reti famigliari, domicili o documenti. Tutto ciò non si placa neanche di fronte alla salute. Si legge in un articolo del Corriere della Sera scritto da un ex carcerato: “se stai male occorrono 10 giorni per una visita medica e spesso non riceviamo neanche le cure adeguate. I detenuti di Poggioreale chiamano il famoso Buscopan “la pillola di Padre Pio”, perché quella ti danno e con quella ti devono passare tutti i dolori”. La nostra “Carta dei diritti e doveri dei detenuti o internati” sancisce che “il detenuto ha il diritto a non subire mezzi di coercizione fisica a fini disciplinari”, eppure molto spesso apprendiamo notizie riguardanti “morti in circostanze sospetti” ma con le denunce portate avanti durante le innumerevoli inchieste, ben si sa come tali decessi avvengono: il programma “Le Iene” ha riportato anche la testimonianza di un secondino che ha partecipato a raid punitivi ai danni di alcuni detenuti “per futili motivi”: forse avevano risposto male ad una guardia o non si erano alzati in tempo. Quindi se Voltaire diceva “il grado di civiltà di una nazione si misura sullo stato delle sue carceri” potremmo rispondere con le stesse parole dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano “da noi rappresentano solo vergogna per il Paese”: i nostri detenuti sognano un volo in una gabbia dentro una gabbia. L’unico potere rigenerante all’interno delle carceri consiste nell’istruzione e nel lavoro. “L’ignoranza è l’origine di tutti i mali” ci insegna Socrate, e le persone ignoranti sono più predisposti a commettere reati, ma la legge non ammette l’ignoranza ed è giusto che chi sbaglia paghi, ma nel programma rieducativo lo Stato deve assicurare tale aspetto. La “Carta dei diritti e doveri dei detenuti o internati “prevede che “negli istituti penitenziari si svolgano corsi scolastici a livello di scuola d’obbligo e di scuola secondaria superiore. (…) ed è consentito svolgere la preparazione da privatista per il conseguimento del diploma e della laurea.” Il carcere di Bollate rimane comunque un modello, dove la cella serve solo per dormire, dove si frequentano scuole, dove si lavora in cooperativa, si fa teatro, tornei sportivi … Certo all’ingresso avviene la selezione dei detenuti da ammettere al piano riabilitativo che consente di proporre loro un tipo di pena che lasci libertà di movimento e di organizzazione della propria giornata: per tale motivo viene definito “carcere premio” in cui il detenuto diventa coprotagonista affiancato dagli operatori. L’obiettivo è quello della decarcerazione. Perché: “la pena non può essere il fine della giustizia. L’obiettivo deve essere la restituzione del detenuto alla Società. Come può un Paese abolire la pena di morte, se poi annovera l’ergastolo e il carcere a vita?” Un romanzo che si domanda come si possa conciliare la sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato è “fine pena: ora!”, una storia vera, un’opera che scuote e commuove, nella quale il giudice Elvio Fassone, autore e protagonista, intrattiene uno scambio epistolare per 26 lunghi anni con Salvatore che lui stesso ha condannato all’ergastolo durante il maxi processo alla mafia catanese tenuto nel 1985 a Torino. Dopo la sentenza il giudice spedisce a Salvatore una lettera ed un libro: non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel colloquio continuo con un condannato. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. L’ergastolano tenterà più volte il suicidio per porre fine alla sua condanna: da qui nasce il titolo dell’opera. Per i condannati all’ergastolo si scrive  “fine pena: mai” oppure “fine pena: anno 9999”, Salvatore con il suicidio decide che la sua “fine pena” deve essere “ora”. Ognuno di noi gode della grande libertà di vivere, ed ognuno di noi ha maggiori o minori possibilità di godere dei benefici di questa esistenza, ma tutti, proprio tutti, abbiamo il diritto di scegliere … ed ognuno in questa possibilità di scelta può commettere errore, ma in ogni caso tutti abbiamo il diritto e il dovere di porvi rimedio e di offrire aiuto nel farlo. Ognuno di noi quale parte integrante e attiva, quale membro appartenente ad una società evoluta e democratica, quale uomo, può esercitare la propria parte, non solo ha il compito di “prendere in mano la propria vita per fare un capolavoro”, ma contribuire a rendere tale anche quella degli altri, benché ben diversa dalla nostra. Concludo con una frase che l’ergastolano scrive al suo giudice: «le condanne non insegno nulla anzi incattiviscono, ma lei, le sue lettere insegnano tanto, sono come un libro che insegna la vita». Riporto dei versi toccanti scritti da alcuni detenuti, per il laboratorio di scrittura creativa, rispettando la loro privacy: «M’illumino di male/ in luce nera,/ non mi confido con nessuno al mondo/ combatto solitario/ il mio tormento». Ed un altro grida: «A voi ragazzi e ragazze/ che siete la linfa vitale di questa terra così bella/ possa il nostro augurio accompagnarvi/ nel cammino che per noi si è interrotto./ Possiate voi ricostruire col vostro impegno e entusiasmo/ tutto quello che gli illusi hanno sgretolato».
Santi Greta

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