09 giugno 2014

IL PROBLEMA DELLA PREDESTINAZIONE NELLA GETTATEZZA HEIDEGGERIANA di Vincenzo Capodiferro


IL PROBLEMA DELLA PREDESTINAZIONE NELLA GETTATEZZA HEIDEGGERIANA

Necessità dell’evento e provvidenza intramondana


Discepolo di Husserl, Martin Heidegger è pervenuto ad un rovesciamento radicale della fenomenologia ed ad un incontro con la filosofia dell’esistenza di Sören Kierkegaard. Husserl cercava il senso dell’essere nelle essenze eterne, Heidegger nelle esistenze temporali. L’essere si rivela, pertanto trascende il semplice suo essere in esistendo. Esistere significa uscire da. Già Schelling scriveva: «Ogni nascita è nascita dall’oscurità alla luce: il seme deve essere sprofondato nella terra e morire nell’oscurità, affinché la bella forma luminosa s’innalzi e si spieghi ai raggi del sole. Dal buio dell’irrazionale germogliano i luminosi pensieri» (Ricerche, p.456).  La metafisica esistenzialista indica l’esistenza contingente e finita come inserzione dell’essere nel nulla, come caduta nel mondo, in una situazione, come deiezione dell’essere. Proprio in quanto l’esistente subisce la situazione passivamente, genericamente e in maniera impersonale, nel timor mortis, l’esistenza è banale. Ma l’esistente può raccogliersi e ritirarsi dall’esistenza banale: questo è l’unico atto di libertà che ha l’Esserci rispetto al mondo. Schelling riprende la parabola del seme per esprimere il significato delle esistenze: le esistenze si colgono solo nella storia, cioè nell’esserci storico, mentre le essenze nella filosofia. La filosofia si rivolge alle essenze, al quid sit (Was), ma non può raggiungere il quod sit (Das donde Dasein). Il Wasein si contrappone al Dasein. Essenza, Esistenza, Realtà: la logica hegeliana troverebbe una soluzione al problema dell’esistenza, ma l’esistenzialismo non l’ammette, resta nel dramma dell’inconciliazione, della lacerazione. Le essenze sono date dalle idee divine, o platonicamente iperuraniche, quelle stesse che raggiunse Husserl, le esistenze sono date dal distacco dall’Assoluto. Ma quale è, allora, la differenza tra idealismo ed esistenzialismo? Per il primo nulla esiste al di fuori del pensiero, o delle idee, per il secondo, invece, nulla esiste al di fuori dell’esistenza, tutto è esistenza e pertanto gettatezza. Ogni preteso trascendimento è immanere nell’esistenza. La catarsi non trova la via dell’Assoluto, il passaggio dal banale all’autentico è sempre immanente all’esistenza e si alimenta continuamente del sentimento purificatore dell’angoscia. «L’angoscia,» afferma Heidegger «è la situazione emotiva capace di mantenere aperta la continua e radicale minaccia che sale dall’essere più proprio e isolato dell’uomo». Superare la banalità altro non è che accettazione del proprio destino, l’amor fati di Nietzsche, è fedeltà alla morte, mentre Nietzsche riecheggia con la fedeltà alla terra, è l’essere per la morte, è l’apparecchio alla morte, tanto per citare Sant’Alfonso. L’uomo inautentico si dimentica della morte. La morte diviene un tabù, come oggi. La considera come un fatto pubblico, cioè degli altri, o come un fatto futuro a sé. Ma la voce della coscienza richiama all’esistenza autentica, all’essere per la morte, zum tode sein. Di fronte all’angoscia della morte l’uomo vero può compiere il supremo atto di libertà: accettare la morte. Così non si può affermare più ex nihilo nihil, ma ex nihilo omne ens qua ens fit. Questo esserci nel nulla apre la strada alla gettatezza, ovvero al fondo, al giaciglio dove l’ente si pone. Questo rifugio è nominato. Il linguaggio come dimora entis pone il mondo intramondano. L’ente è nel mondo. L’esserci vive lo struggimento dell’essere gettato nella necessità dell’Evento. Anche il progettarsi, come presupposto della libertà dell’esserci presuppone sempre una gettatezza. È inconfondibile in Heidegger questo tema della predestinazione, ereditato dall’etica protestante e soprattutto calvinista. La libertà dell’esserci è fortemente limitata dall’orizzonte esistenziale. È vincolata al processo degli eventi, all’oscurità dell’accadimento, al presentimento dell’ultimo (escatologia), che è dato dalla mors entis. La mors entis è la pietra fondante poi dell’amor entis: la cura heideggeriana. È vincolata all’oscurità dell’accadimento: noi conosciamo in parte il sinus syncronicus della temporalità, ma non possiamo mai conoscere il sinus diacronicus. Non possiamo conoscere tutto ciò che accade nell’universo intero in un dato istante x. L’intreccio del tempo, la trama e l’ordito ci restano ignoti. L’esperienza fenomenologica, se non metafisica, nel senso esistenzialistico, è una continua trascendenza dell’esserci nel tempo. Essere, Esserci e Tempo sono le tre dimensioni dell’Assoluto nell’esistenza. La libertà, se si può parlare di questa categoria, è espressione del sì o del no rispetto al Destino dell’ente. Gellio afferma: «Si fato vivimus, quid agunt merita? Si pensamur meritis, quae vis fati?». Se c’è la libertà non opera il fato, e se opera il fato, dove sono i nostri meriti o demeriti, se siamo liberi? La questione irrisolta dello Stoicismo resta. Gli Stoici ammettono le due posizioni: che l’eimarmène è sempre fatale e che l’uomo è libero. Vi sono due soluzioni: si distinguano le cause necessarie da quelle non compellenti. In tal caso è attenuata la forza dell’eimarmène. Oppure si afferma che l’eimarmène è sempre operante e quindi l’uomo è costretto a seguirla, ma può farlo volontariamente o recalcitrando. In ciò consiste il merito o il demerito. Come esclama Seneca: volentem fata ducunt, nolentem trahunt! L’atteggiamento dello Stoico rispetto al comune mortale è l’accettazione del destino, l’amor fati, direbbe Nietzsche. Le categorie del linguaggio blindano l’essere nella sostanza e nelle sue qualità essenziali. L’Esserci non sceglie di esserci, ma vi è destinato. Non si ha alcuna scelta. La scelta avviene dopo, nell’ambito di un piano, di un contesto, di un orizzonte. Orizein significa guardare. Non si può scegliere cosa guardare aprendo gli occhi: ci viene dato necessariamente un orizzonte. Perciò i sensisti confermano che la sensazione è passiva: anche la conoscenza vive il dramma della gettatezza. Ogni sensazione, ogni pensiero è gettato nella mente. La necessità, l’Ananche, irrompe anche nel tempo. L’Esserci è libertà come trascendenza, eppure questa libertà è accordo ineluttabile alla gettatezza. Diodoro Crono sostiene che solo il reale è possibile, perché anche se ciò che non è fosse possibile, il possibile rispetto al passato sarebbe possibile ed impossibile nello stesso tempo. Il che è assurdo. Quindi è assurdo anche il divenire, il quale dovrebbe originarsi dal possibile. Così perveniamo all’Eleatismo. L’eleatismo è dato dalle essenze, l’esistenzialismo dall’esistenze. Il ponte tra questi due mondi è la predestinazione, la gettatezza. La scelta, la possibilità, lo scacco pascaliano-kierkegaardiano avvengono nel tempo. Tutto avviene nella temporalità. Come dice Platone: tutto vede il Tempo. Agostino risponde: chiedetemi che ora è, ma non chiedetemi cosa è il tempo, cioè «Se nessuno me lo domanda io lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, lo ignoro. Tuttavia affermo con sicurezza che so che se niente passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se niente sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se niente fosse non vi sarebbe il tempo presente» (Confessioni XI,14). Le tre estasi del tempo: passato, presente e futuro sono tempo. E queste tre istanze corrispondono alla gettatezza, l’evento, o agettatezza, la pro-gettatezza. Anzi, come arguiva lo storico don Tommaso Pedio: tutto è presente! Il presente è tutto. Conferma Agostino: «Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione, il presente del futuro è l’aspettazione». L’esserci è necessariamente gettato in mezzo agli enti, in mezzo agli altri esserci, coi quali spesso sorge una lotta, come nel caso delle autocoscienze fichtiane ed hegeliane, ed in mezzo ad un orizzonte storico tra l’incombere e il mistero della temporalità. Tutto accade secondo la necessità assoluta dell’accadimento. Spinoza dedurrebbe: «Le cose particolari altro non sono che affezioni degli attributi di Dio, ossia modi per mezzo dei quali vengono espressi in una certa e determinata maniera gli attributi di Dio» (Etica, I, corollario proposizione XXV). L’uomo è gettato, è scelto e sceglie poco. Non può scegliere dove nascere. Non può scegliere il suo punctum mortis. Esce piangendo da un grembo materno. La sua vita è per lo più, non per fare un torto a Schopenhauer, o a Leopardi, dolore e noia. È un essere per la morte. Il suo esserci si rapporta continuamente al non-esserci, al nulla. L’esserci è racchiuso tra due non-esserci, quello ante nascitam e quello post mortem, oltre a quello del passato, il non esserci più e quello del futuro, il non esserci ancora. Non possiamo scegliere ad esempio di parlare una lingua diversa da quella che apprendiamo. È stato dimostrato che un uomo che si trovasse ad essere gettato in una foresta ed a crescere là, parlerebbe il linguaggio degli animali, come Tarzan. La situazione è lo spazio-tempo, che, come sosteneva Kant è l’intuizione originaria trascendentale. Il mondo heideggeriano è rivelazione, manifestazione di un ente, cioè di un qualcosa e di un esserci, o un qualcuno nel nulla. È aletheia, cioè verità, uscire fuori dal nascondiglio della terra. L’uomo è continuamente condizionato dal suo orizzonte mondano, per non parlare dalla televisione, da internet. Pasolini scriveva: «Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza» (Scritti corsari, p. 23). Il Centro è peggio del Fascismo. L’uomo non sceglie le opinioni. Non sceglie di essere gettato in questa o quella situazione. Non sceglie di essere Napoleone, o Hitler, o l’ultimo soldato della trincea del 1918. Napoleone o Hitler appaiono gli uomini del destino, quegli individui cosmici di Hegel, inviati della Provvidenza. Chi è che muove le fila del destino, cioè della gettatezza, se non è l’uomo, la coscienza dell’Esserci? È l’astuzia della Ragione, la List? O tutto è caso? E il caso, la fortuna non è forse il lato oscuro quoad nos di quello stesso Fatus? Qui sorge il problema più spinoso della gettatezza heideggeriana. Heidegger stesso non aderì al nazismo per amor fati? Sartre conferma che ogni uomo è frutto di ciò che tutti gli altri hanno fatto di lui. La verità è qualcosa di inesprimibile. È il senso profondo dell’esserci, che si rapporta all’Evento. Accade così. Perché? Perché così deve accadere. L’uomo crea il progetto, ma il progettarsi deve fare i conti necessariamente colla gettatezza. Anche la Cura (Sorge) ha una sfera nell’essere gettato. Nulla sfugge alla passività assoluta dell’essere gettato, che è superiore al gettarsi. Il problema della gettatezza richiede una spiegazione. Leibniz ci illumina: «Vi sono due specie di verità, quelle di ragione e quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessarie e il loro contrario è impossibile, quelle di fatto sono contingenti e il loro contrario è possibile» (Monadologia, 33). Questi due tipi di verità sottostanno a due grandi principi diversi: quello di non contraddizione e quello di ragion sufficiente. In virtù del primo giudichiamo falso ciò che implica contraddizione, cioè non possiamo affermare che una cosa è e non è nello spesso tempo, in virtù del secondo affermiamo che nessun fatto può accadere senza una ragion sufficiente. Nihil est sine ratione, cur potius sit quam non sit. Nessuna cosa esiste senza una ragione, perché qualcosa c’è anziché non c’è. Alcun fatto potrebbe essere esistente se non vi fosse una ragion sufficiente e di conseguenza alcuna proposizione potrebbe essere vera se non vi fosse una ragion sufficiente. Il principio di non contraddizione domina il mondo del Wasein, o delle essenze husserliane, quello di ragione domina il mondo del Dasein, o delle esistenze heideggeriane. La gettatezza implica una ragione. L’ente non si può nominare. L’uomo, come dice Heidegger, deve essere pastor entis et non dominus entis. L’uomo, in pratica, non è il padrone dell’essere. E chi è? Il Tempo. Ma chi regola la temporalità? È questo il grande mistero della gettatezza. Le parole sono finite, limitate. Tutto accade paradossalmente per mera necessità assoluta. Ciò che a noi pare esistenza, libertà, scelta, opinione, è Aletheia, continua epifania dell’essere nascosto dell’Ente. L’ente è nascosto nella Terra. La Terra caccia tutti gli enti e gli esserci. Ma anche questa Terra è sottoposta alla stessa legge dell’esistenzialismo dell’esserci, perché è contingente. Il Mondo è la manifestazione della Terra. Ma anche ciò che si manifesta è gettatezza. Tutto accade così senza sapere né quando, né come. “Lo Spirito soffia dove vuole e quando vuole”. Questo è il mistero del tempo. Dietro la gettatezza, dietro la temporalità c’è lo Spirito. Il contesto è fuori di ogni discussione, non è oggetto di scelta. L’erlebins è inesprimibile. La tragicità dell’esistenza è come andare in guerra, perché l’esistenza stessa è una continua guerra: polemos basilea panteon. Eraclito proferiva: la guerra è la regina di tutte le cose. Chi non va in guerra è disertore del Fato, come il Don Giovanni di Kierkegaard, o come Schopenhauer - secondo Nietzsche - con la sua ascetica Nolontà.  Il problema è allora ascoltare l’essere, srotolare l’enigma dell’esistenza. La temporalità da Heidegger è rappresentata non a caso come da due rotoli: uno si srotola, ed è quello del futuro, l’altro si arrotola ed è quello del passato, in mezzo allo rotolamento ci sta il presente. La gettatezza heideggeriana va ricollegata all’eterno ritorno ed al fato di Nietzsche, ma anche alla Volontà cieca di Schopenhauer e se vogliamo al determinismo psichico dell’inconscio di Freud. L’uomo si trova ad essere vissuto, è come una vittima destinata da sempre al sacrificio della Morte, è un eterno ritorno alla Terra, donde proviene. L’evento accade nell’essere, non altrove. Anche Dio si getta nella gettatezza colla nascita di Betlemme e si getta sulla croce. Ma nel suo caso l’essere gettato e il progettarsi coincidono. Dio è l’Esserci per eccellenza. Questa lezione di Heidegger l’aveva capita una delle sue più brillanti discepole: Stein. Il movimento proposizionale, il Discorso, il Logos riflette lo stesso scorrere degli eventi: il pan-reismo eracliteo. L’essere è stato incatenato nel tempo, non può esistere senza tempo. I raggi della ruota del tempo scorrono sempre, ma il fulcro è immobile da sempre: il motore immobile di Aristotele. In qualsiasi dimensione della temporalità, anche in quella relativistica einsteniana, è libero solo chi è fuori del tempo, e questo non può essere altro che il fulcro, l’Assoluto. La pro-gettatezza è un tentativo di superare la prigione delle pagine del tempo. Ma questo progettarsi avviene nell’essere gettato. L’Essere è incatenato al Ci. Il prigioniero del tempo deve liberarsi. In Heidegger questa liberazione avviene nel nulla, attraverso il passaggio della morte autenticatrice dell’esistenza. Ma il nulla è già trascendenza, uscita fuori dal campo dell’esistenza verso non si sa cosa, forse verso l’eternità. La liberazione dalla gettatezza costituisce il vero atto di libertà dell’esserci stesso. L’accettazione della gettatezza è l’aderenza al progetto generale dell’Esserci. L’essere gettato è progetto della Provvidenza intramondana. Il vero ed autentico progettarsi deve essere aderenza al progetto universale dell’Esserci. Non aderire alla gettatezza universale significa vivere il dramma della spezzatura e dell’angoscia, della banalità, della nausea sartriana, della disperazione e della dispersione. L’accettazione della gettatezza significa liberazione, consolazione. È la croce dell’esistenza. Kierkegaard la chiama peccato. L’esistenza è peccato. La colpa di esistere richiede una pena. Il malum culpae richiede il malum poenae. L’esistenza è la pena della colpa di esistere. La morte è l’espiazione del peccato originario di esistere. Il nulla è la tomba dell’esserci. Stipendium peccati mors: la morte è lo stipendio del peccato. L’essere per la morte è l’essere destinato al sacrificio della vita. Tutti gi esserci sono destinati a questo supremo sacrificio. La gettatezza è l’altare del sacrificio. Il progettarsi è il volersi liberare. Ma non è la morte in sé a raggiungere questo scopo. L’esserci sarebbe l’apparire dell’essere nel nulla. Ma come è possibile cio? Ex nihilo nihil. Dal nulla nulla procede. Ma Heidegger risponde: ex nihilo omne ens qua ens fit: «L’anticiparsi nella possibilità dell’essere per la morte svela all’esistente la sua dispersione nel “si” e, togliendogli l’appoggio originario dell’aver cura delle cose e degli altri, gli offre la possibilità di essere se stesso in quanto libertà per la morte, sciolta da tutte le illusioni del vivere mondano, effettiva, certa a se stessa e angosciantesi». Così l’ultima parola sarebbe: l’essere è niente. Eppure solo un atto di creazione originaria dal nulla potrebbe permettere ciò, cioè l’apparizione di un essere nel non-essere. C’è solo un Esserci capace di creare dal nulla e questi è l’Assoluto. L’Assoluto è il primo Esserci, è il primo che si è auto-creato. Come dicono Cartesio e Spinoza, è Causa sui, Causa di sé stesso. Gli altri esserci non sono autocausali, ecco perché vivono il dramma della gettatezza. Se fosse il nulla il fondamento dell’esserci potremmo obiettare: donde proviene la gettatezza, cioè il letto del fiume dove scorre il tempo? Ma come dicevamo: nihil est sine ratione cur potius sit quam non sit. L’Esserci è l’apparire dell’Assoluto nel Nulla.

Vincenzo Capodiferro

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