Prigionieri di guerra a cura di Giovanni Gatto
PRIGIONIERI DI GUERRA
Nell’agosto
del 1284, al largo dello scoglio della Meloria, di fronte a Livorno,
Genovesi e Pisani, da tempo in lotta per il dominio sul Tirreno
Settentrionale, si affrontarono in una sanguinosa battaglia
navale.
Le cronache dicono che “il mare si tinse di rosso” per
il sangue dei pisani che vi morirono, ma in modo meno epico e
tragico, si può che di certo quella fu una terribile sconfitta per
Pisa, che segnò l’inizio del suo declino come potenza
marittima.
Ambedue le flotte contavano una ottantina di galee, ma
quelle genovesi erano meglio armate e forse anche meglio comandate, e
poi i genovesi avevano una grande scuola di tiratori di balestra, che
potevano colpire a grande distanza a differenza degli arcieri pisani,
i quali inoltre usavano ancora pesanti corazze che rendevano i
movimenti, al momento dell’arrembaggio, lenti e faticosi.
La
battaglia durò tutto un pomeriggio e si concluse con un bilancio
terribile per Pisa: 30 galee affondate, 33 catturate, circa 4.000
morti ma soprattutto 9.372 tra soldati e comandanti che caddero nelle
mani dei genovesi.
“9.372?”, direte voi, “Ma dai, Giovanni,
perché non dici circa 9.000, che va bene lo stesso? Non ci
racconterai mica che qualcuno fece la conta dei prigionieri…”
E
invece sì, il Comune di Genova fece proprio la conta esatta, perché
doveva predisporre gli spazi, i (pochi) viveri per mantenerli, e
soprattutto doveva fare i conti con quello che ci avrebbe lucrato con
i riscatti.
Insomma: proprio 9.372.
Alla fine, come previsto
dagli astuti pirati-mercanti genovesi, quello fu un buon
affare.
Molte famiglie pisane pagarono ingenti riscatti per i loro
congiunti, che furono quindi trattati con tutti gli onori e ben
presto liberati dopo un solenne giuramento di mai più prender l’armi
contro il Grifone.
E gli altri? Che ne fu degli altri, di quelli
che non potevano pagare?
Ci sono leggende che parlano di mille e
più fantasmi di pisani morti di stenti in un vero e proprio “lager”
allestito nei pressi di Campopisano, ai piedi della collina di
Sarzano…
Ma sono leggende: con i morti il comune non ci faceva
niente!
I pisani che non potevano pagare furono messi a lavorare
e trattati anche abbastanza bene, tant’è che a Campopissano si
costruirono un piccolo quartiere e pian piano si integrarono nella
vita di Genova.
Quelli che sapevano leggere e scrivere furono
messi a lavorare in uno “Scriptorium”, ovvero in un luogo
tranquillo in cui copiavano testi antichi che poi venivano venduti in
tutta Europa. Uno “Scriptorium” potreste averlo visto nel film
“Il Nome della Rosa”, ma quello era gestito da monaci benedettini
e ricopiava testi sacri: quello genovese era invece dedicato a testi
“laici”, romanzi, poesie e libri di storia.
Altri prigionieri
si dedicarono invece alla tessitura (arte fiorente in Pisa sin dal
mille) o alla ceramica, portando sempre buoni introiti alle casse del
Comune.
Di un prigioniero in particolare, vale la pena di
raccontare la curiosa storia: si chiamava Rustichello e sapeva
leggere e scrivere, e anzi aveva già scritto un paio di romanzi
cavallereschi.
Siccome sembrava sprecato per metterlo a copiare
libri di altri, gli fu assegnato il compito di tener compagnia a un
importante (e ricco) prigioniero: tal Marco Polo, veneziano,
catturato dai naviganti – pardon: pirati – genovesi in una
scorreria nell’Adriatico.
Rustichello e Marco, però, non si
capivano se non parlando in francese e fu così che “IL MILIONE”,
ovvero i racconti dei viaggi in Catai, fu scritto originariamente in
quella lingua, non si sa con quante aggiunte fantasiose da parte di
Rustichello.
© Giovanni Gatto
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