I DAZI DI TRUMP E LA GLOBALIZZAZIONE di Antonio Laurenzano


I DAZI DI TRUMP E LA GLOBALIZZAZIONE

di Antonio Laurenzano

Dazi americani, l’illusione del protezionismo nell’economia globale. Dall’ Osservatorio sui conti pubblici italiani (OCPI) della Università Cattolica di Milano, direttore Carlo Cottarelli, sono arrivati i primi dati, le prime riflessioni sulla “guerra commerciale più stupida della storia” di Donald Trump. A luglio 2025, per effetto del balzo dei dazi medi reali dal 2,2 al 18,3 per cento, il Dipartimento del Tesoro americano ha incassato 27,6 miliardi di dollari dai dazi sulle importazioni. Considerando che a luglio 2024 la stessa voce (”Custom duties”) segnava 7,1 miliardi, i nuovi dazi imposti al mondo intero dal tycoon dovrebbero tradursi, su base annuale, in maggiori entrate fiscali pari a 300 miliardi, comprensivi anche dei nuovi dazi verso l’Unione europea e altri Stati entrati in vigore nella seconda parte dell’anno. Una cifra significativa, pari a circa l’1% del Pil statunitense, in linea con le importazioni di merci che sono circa il 10% del Pil americano. L’impatto sui conti pubblici rimarrebbe però limitato in quanto il deficit pubblico nel 2024 è stato di oltre 1.915 miliardi di dollari, pari al 7% circa del Pil.

Il discorso dell’Amministrazione americana sui dazi si fonda sull’idea che questi possano migliorare la bilancia commerciale degli Stati Uniti (un disavanzo verso l’Europa di circa 150 miliardi di euro all’anno) e che possano rilanciare il settore manifatturiero, che nel 2024 comprendeva l’8% degli occupati. Nella misura in cui i dazi riducono la domanda di beni importati e inducono una riorganizzazione delle catene produttive potrà essere stimolata l’occupazione dei singoli settori protetti dalla concorrenza estera. Benefici che, oggettivamente, tendono a essere sovrastati dalle perdite di occupati nel resto del tessuto produttivo. L’ambizione trumpiana di invertire le tendenze di lungo periodo dell’economia statunitense, rimpatriando l’attività industriale che da oltre mezzo secolo fugge all’estero in cerca di minori costi di produzione e favorendo quindi maggiori livelli occupazionali, resta un disegno difficilmente perseguibile per le tante variabili geopolitiche in campo.

Una strategia, quella dei dazi all’importazione, incoerente e dannosa anche per gli Stari Uniti con obiettivi di effetto politico e mediatico, di dubbia realizzazione: la correzione del deficit pubblico americano, il rallentamento conseguente della bilancia commerciale, la reindustrializzazione degli Stati Uniti. Nuovi maggiori dazi aumentano le entrate fiscali, ma hanno effetti negativi sull’economia, perché -è stato fatto rilevare- deprimono la domanda e possono avere effetti distorsivi sull’efficienza economica. Le maggiori entrate fiscali derivanti dai dazi imposti su un’ampia gamma di prodotti importati, e applicati a un ampio numero di paesi, nell’incidere negativamente sui consumi interni e quindi sul fatturato delle imprese importatrici, potrebbero solo parzialmente compensare le minori imposte sui redditi delle imprese. A subirne le conseguenze sono le imprese e i consumatori sui quali, in definitiva, graverà il maggior costo dell’importazione con l’aumento dei prezzi. Effetto domino di questa strategia è il rischio inflazionistico generalizzato dovuto al fatto che le imprese cercano di recuperare i maggiori costi aumentando i prezzi e i consumatori di recuperare la perdita di potere d’acquisto chiedendo maggiori salari. Ma frenare l’inflazione, attraverso una politica monetaria restrittiva della Federal Reserve, potrebbe causare un rafforzamento del dollaro, che non aiuta le esportazioni americane e peggiora la bilancia commerciale, anche se compensa in parte l’effetto dei dazi sui prezzi interni. Allo stesso tempo il dollaro forte continuerebbe ad attirare dall’estero i capitali necessari a finanziare l’aumento del debito e il persistente deficit commerciale.

Su scala mondiale, come risposta ai dazi americani, l’applicazione del “principio di reciprocità” sulle importazioni dagli Usa sarebbe disastroso, amplierebbe le tensioni commerciali, anziché alleviarle. In una economia globale, i dazi generalizzati possono generare effetti a catena. Avremmo, di fatto, un aumento globale di tasse distorsive che causerebbe un rallentamento della domanda globale e, soprattutto, una perdita di efficienza globale. Dazi contrapposti non si elidono e non si compensano. Allora cosa fare? Al protezionismo americano, secondo gli economisti, si risponde con il “rilancio della globalizzazione, rendendola più regolata, resiliente e sostenibile”. Mantenere un sistema commerciale aperto e basato su regole sarà fondamentale per sostenere la crescita a lungo termine. Per assorbire le ricadute negative dei dazi puntare cioè su una strategia incentrata sulla diversificazione degli sbocchi commerciali e sugli incentivi all’innovazione, accompagnata da una flessibilità della politica monetaria nell’Ue, perché “non è con i dazi che si incide sulla bilancia dei commerci internazionali, non saranno i dazi di Trump a fermare la globalizzazione” (Daniel Gros, direttore dell’Institute for European Policymaking dell’Università Bocconi di Milano). Al netto di ogni altra considerazione, i dazi sono uno strumento troppo rozzo per prestarsi a raggiungere obiettivi di tipo economico, industriale e politico di carattere epocale. Con una guerra dei dazi non ci sono vinti e vincitori, perché perdono tutti.

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