Marco Carnevale – La réclame dell’apocalisse a cura di Marcello Sgarbi


 
Marco Carnevale La réclame dell’apocalisse – (Prospero Editore)

Collana: Bill – comunicazione e società contemporanea 

Formato: Tascabile

Copertina: Flessibile

Pagine: 240

ISBN: 979-12-81091-30-6

Io mi sono sempre sentito distante dalla tecnologia quanto un marziano dal pianeta Terra. Faccio parte della cosiddetta generazione dei boomer, sono uno dei tanti che negli anni Sessanta è cresciuto a pane e Carosello. C’è però chi, al contrario di me, pur essendo più o meno mio coetaneo, ha più dimestichezza con le evoluzioni tecnologiche e più in particolare con quelle che coinvolgono la comunicazione.

Parlo di Marco Carnevale, uno dei più noti copywriter e direttori creativi italiani. Vanta un palmares di oltre 160 premi e riconoscimenti nazionali e internazionali e un trascorso in celebri agenzie quali FCB e Ted Bates nonché - per la maggior parte del tempo speso a esercitare il suo mestiere – nella sede romana di McCann Erickson, alla cui guida creativa è stato per quindici anni occupandosi di clienti di grande caratura fra cui Coop, Bayer, Goodyear, Johnson&Johnson, Unilever, Edison, Finmeccanica, De Agostini, Q8, Telecom e TIM.

E buon ultima - ma non per ordine di importanza - la Rai, di cui forse alcuni di voi ricorderanno la campagna firmata da lui che recitava: “La Rai. Di tutto. Di più”. Forte di questo retroterra, Carnevale è oggi partner creativo indipendente dell’agenzia laziale Yes I am e nello stesso tempo attivissimo sui social network. Più nello specifico su Facebook, che arricchisce di frequente di contenuti legati al mondo pubblicitario. Ed è proprio dalla raccolta di contenuti più o meno quotidiani che il famoso copy e direttore creativo ha ricavato quello che lui stesso definisce “un velenoso pamphlet”, nel quale lancia un allerta sui pericoli generati dall’intelligenza artificiale e sui danni provocati dalla pubblicità digitale, spacciata per rivoluzione della comunicazione. Secondo l’autore di La réclame dell’apocalisse l’autentica rivoluzione creativa si deve a uno dei giganti della pubblicità di tutti i tempi: Bill Bernbach, a cui non a caso è intitolata la collana della quale fa parte anche questo libro di Marco Carnevale. Il nomignolo Bill, attribuito al caposcuola americano, ha dato anche vita a quello che dal mio punto di vista è stato – dopo gli antesignani Pubblicità Domani, Strategia e Pubblico Today - uno dei migliori e più informati periodici di settore dedicati alla comunicazione pubblicitaria.

I veri passi significativi verso la pubblicità moderna, secondo Carnevale, sono stati compiuti da Bernbach e da altri capisaldi quali Rosser Reeves, che dopo le ricerche motivazionali aveva basato il suo lavoro sulla unique selling proposition. Tradotta in italiano, cioè, una sola grande promessa del prodotto pubblicizzato. Un approccio peraltro derivato dai principi della pubblicità scientifica, teorizzata già nei primi anni Venti del Novecento da Claude Hopkins.

Nel solco di pionieri quali Bernbach e Reeves l’elaborazione dell’idea creativa era il presupposto fondamentale a campagne rimaste negli annali dell’advertising come esempi indimenticabili. Quelle caratterizzate, per intenderci, da quello che nel linguaggio degli addetti ai lavori viene definito insight.

Ossia un sentimento diffuso nella società a prescindere dall’azione della comunicazione e quanto più rilevante possibile per il suo pubblico, nel rendere in special modo impattante, memorabile e risonante il messaggio della marca diretto al target di riferimento.

Così come sottolinea Marco Carnevale nel capitolo introduttivo del suo libro, a questo presupposto si aggiungevano il tono di voce – il più possibile incisivo, originale e coinvolgente – e il trattamento di volta in volta grafico, fotografico, illustrativo che contribuivano ad accentuare la visibilità, il ricordo e l’attribuzione del messaggio al prodotto dall’interno di uno scenario sempre più affollato e competitivo.

La creatività pubblicitaria, nata come ancella e prolungamento del marketing”, continua Carnevale nel suo velenoso pamphlet, “era diventata una forma d’arte prodotta con modalità industriali: un mestiere diverso da tutti gli altri, che richiedeva l’armonizzazione di talenti, tecniche e saperi molto diversi fra loro e molto delicati da maneggiare”.

Per contro, l’autore si scaglia contro l’idea di pubblicità promossa dall’advertising digitale, generata non dall’intuizione e dal talento individuale di menti pensanti, ma da automatismi e sistemi complessi gestiti da macchine. Con una conseguente omologazione del prodotto, asservito alla serialità e privato della sua distintività.

L’assunto di Carnevale è che la pubblicità digitale sia sempre più costituita da connessioni tecnologiche e non da connessioni culturali. Fatta di impulsi elettrici, non di stimoli emotivi. Di azzeramento dell’imprevisto senza più immaginazione, senza la ricerca dell’imprevedibile. Ma soprattutto”, scrive ancora l’autore di La réclame dell’apocalisse, “… di numeri, numeri, numeri”.

Ed è la logica che sottende poi al dilagare dei follower sui principali social network come Facebook o Instagram. E alla nascita di figure come gli influencer – vedi Chiara Ferragni o altri suoi omologhi - nipoti di quelli che nell’era della pubblicità “analogica” erano gli opinion leader. Persone che, magari, andavano al cinema e mentre ti raccontavano del film visto ti dicevano di avere provato un certo prodotto pubblicizzato sul grande schermo, creando così opinione diffusa verso un pubblico più ampio.

Volete un esempio ancora più pratico e comprensibile di questo concetto? La campagna del detersivo Perlana, contrassegnata dallo storico claim “Passaparola”. Con l’andare del tempo l’adtech – o pubblicità digitale – va sempre più appiattendo la comunicazione fino a raggiungere la sciatteria paludata di banalità di titoli sul web del tenore di “Cinque regole d’oro” o “Sette consigli per…”. Frasi che stanno a dimostrare quanto per i guru delle Big Tech non ci sia più niente da imparare o da approfondire, come scrive Marco Carnevale, e neanche troppe domande da porsi. È una specie di jukebox tecnologico dove basta inserire una simbolica moneta e il risultato desiderato si materializza da sé.

L’autore conclude l’introduzione al suo libro affermando che nella generale disattenzione ci stiamo avvicinando bendati a una piccola – si fa per dire – apocalisse, da cui il titolo del pamphlet. “Anche questa volta”, scrive Carnevale, “senza che nessuna voce si sia levata dai pulpiti delle associazioni di categoria, dai media e tanto meno dalle sfere degli investitori pubblicitari che hanno – loro malgrado – alimentato il crash prossimo venturo.

Preparandoci a sgombrare le macerie, resta solo da capire se e come sarà possibile riemergere da questo cul de sac costato la dilapidazione di centinaia di miliardi e la distruzione a tappeto nelle agenzie di ogni competenza immune da parte degli stessi virus responsabili della degenerazione della bolla”.

L’aspetto che secondo me rende lo scenario ancora più preoccupante è che questa apocalisse colpisca altri aspetti della vita sociale e di relazione. Nella medicina, per esempio, o anche soltanto nei rapporti personali, degradando in primo luogo il linguaggio collettivo con la perdita del senso e del significato delle parole e giustificando atteggiamenti come il turpiloquio sdoganato quotidianamente in tivù.

E per terminare questa recensione voglio utilizzare ancora una volta le parole dello stesso Marco Carnevale. La sottocultura digitale”, scrive, “– che è diventata l’incontrastata neolingua dell’Impero, quella che esprime la più pervasiva e la più insidiosa delle egemonie – è riuscita a stravolgere completamente un numero impressionante di veri e propri fondamenti della civiltà moderna e postmoderna: i concetti di legalità, responsabilità, legittimità, reciprocità, bene comune sono stati golosamente fagocitati, disgregati dai venefici succhi gastrici dell’ideologia ultraliberista e della retorica dei nuovi conquistadores e quindi restituiti ai comuni mortali nelle forme irriconoscibili di neoverità che si autogiustificano, si autoassolvono e si autocelebrano”.


© Marcello Sgarbi

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