05 aprile 2024

PREMIERATO, LAVORI IN CORSO di Antonio Laurenzano


PREMIERATO, LAVORI IN CORSO

di Antonio Laurenzano

Premierato, è arrivato dalla Commissione Affari costituzionali del Senato il primo sì alla riforma che introduce l’elezione “a suffragio universale e diretto” del premier che potrà essere eletto per non più di due mandati consecutivi e potrà proporre al Capo dello Stato la nomina e la revoca dei ministri. Fra luci e ombre, una importante accelerazione del complesso iter della riforma costituzionale voluta dalla maggioranza per “consegnare la sovranità nelle mani del popolo”, liberando gli elettori dal giogo delle scelte di palazzo. Stabilità, credibilità, visione del futuro sono i principi ispiratori del “cuore della riforma” per disegnare orizzonti istituzionali diversi e garantire la governabilità.

E’ storica l’instabilità politica in Italia. Governi brevi, alcuni brevissimi, altri di minoranza, monocolore, deboli sin dalla nascita. In 77 anni di storia repubblicana si sono susseguiti a Palazzo Chigi ben 68 esecutivi. In media, i governi italiani rimangono in carica per 414 giorni, meno di un anno e due mesi, e governano effettivamente per 380 giorni. Per oltre dieci anni, ovvero da Mario Monti fino Giorgia Meloni, nessun governo ha mai avuto un Presidente del Consiglio espressione di una indicazione elettorale da parte dei cittadini. Addirittura da Matteo Renzi in poi, il Presidente del Consiglio non è stato nemmeno eletto come membro del Parlamento. Questo sistema ha consentito il formarsi di più governi nella stessa legislatura, a volte con maggioranze politiche diverse (come nel caso dei governi Conte 1 e 2), favorendo una crescente disaffezione elettorale, perché i cittadini non sono stati messi in condizione di conoscere da chi sarebbero stati governati. Un record negativo in Europa. Molte le cause di questa “fragilità” istituzionale, fra le quali la possibilità per i parlamentari eletti, senza vincolo di mandato, di cambiare casacca durante la legislatura che favorisce ogni forma di rimpasto durante la vita di un esecutivo. Sono circa quarant’anni che si parla di voler modificare la forma di governo: dalla Commissione bicamerale del 1997 istituita dal governo di Massimo D’Alema alla proposta di riforma del 2006 del governo di centrodestra di Silvio Berlusconi, a quella del 2020 dell’ex premier Matteo Renzi, ma ogni progetto si è presto arenato nelle sabbie mobili delle polemiche fra i partiti.

Le modifiche degli articoli 88, 92 e 94 della Carta costituzionale contenute nel ddl Meloni-Casellati dovrebbero tendere proprio a formare esecutivi stabili e duraturi. Oltre alla elezione diretta popolare del Presidente del Consiglio, in carica per 5 anni, la riforma del premierato prevede la “costituzionalizzazione” di un premio di maggioranza su base nazionale tale da garantire in ambedue le Camere una maggioranza dei seggi alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività. Alla futura legge elettorale restano demandate le modalità di elezione del premier nonché quelle relative all’assegnazione del premio. In caso di dimissioni volontarie del premier, incarico a un altro parlamentare della stessa maggioranza per attuare i medesimi impegni programmatici e indirizzo politico o scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubblica su richiesta del premier. In caso invece di revoca della fiducia al Presidente del Consiglio eletto, mediante mozione motivata, il Capo dello Stato procederà motu proprio allo scioglimento del Parlamento. Stop quindi alla stagione dei ribaltoni e dei Governi tecnici con premier e ministri di nomina extraparlamentare. Prevista inoltre l’abolizione dei Senatori a vita, ad eccezione degli ex Presidenti della Repubblica e di quelli in carica all’atto dell’entrata in vigore della riforma.

La nuova forma di governo dovrebbe gravitare intorno al Presidente del Consiglio che, con poteri rafforzati (proposta di nomina e di revoca dei ministri, facoltà di scioglimento delle Camere), non sarebbe più un primus inter pares. La riforma del premierato comporterebbe una evoluzione del sistema parlamentare, di cui conserva il rapporto fiduciario, correggendo lo strabismo istituzionale collegato ai governi decentrati, regioni e comuni, per i quali c’è l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo, Governatore e Sindaco.

A questo tipo di premierato sono state già mosse diverse critiche: la prima e più rilevante è quella di ridurre il Presidente della Repubblica a un ruolo di semplice “cerimoniere e passacarte” con funzioni notarili, con meno margini di intervento in caso di crisi. Le sue prerogative sarebbero mantenute solo formalmente, mentre di fatto verrebbe svuotato il suo ruolo più importante, quello di “arbitro” delle crisi di governo. Dall’altro lato, il Presidente del Consiglio, eletto direttamente dal popolo, diventerebbe il vero dominus del sistema, potendo causare lo scioglimento automatico delle Camere con le proprie dimissioni.

Si tratta quindi di riequilibrare il “cuore della riforma” per preservare i poteri del Presidente della Repubblica che resta e deve restare figura chiave dell’unità nazionale. Il percorso non sarà breve, né facile. La riforma dovrà essere approvata da entrambi i rami del Parlamento in doppia lettura, a distanza di almeno tre mesi l’una dall’altra, a maggioranza dei due terzi dei componenti delle due Camere, in mancanza della quale scatterebbe il referendum popolare. Tempi lunghi per rendere costituzionale il premierato del governo e consegnare al Paese stabilità politica superando l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze e il “transfughismo” parlamentare. Non è consentito sbagliare.


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