BYE BYE LONDRA di Antonio Laurenzano
Oltre Manica, all’ombra di Buckingham Palace, regna  sovrana 
… la confusione! Al Regno Unito non sono bastati oltre mille giorni  
per dare una risposta istituzionale al referendum del giugno 2016 quando 
il 51,9% dei sudditi di Sua Maestà votò per il “leave Ue”. Fra 
convulse votazioni a Westminster per scongiurare il no-deal, minacce 
di dimissioni della premier Theresa May e petizione popolare per un 
nuovo referendum continua il lungo day after di Brexit. Per evitare 
una separazione traumatica dai risvolti economici imprevedibili, anche 
per la stessa Unione, il Consiglio europeo ha concesso una nuova proroga: 
il divorzio “consensuale” slitta al 31 ottobre. Sarà così? 
Sei mesi di tempo per lasciare l’Europa, mantenendo al Regno Unito 
la qualifica di membro a pieno titolo dell’Ue, con tutti i diritti 
e doveri, ivi compresa la partecipazione alle prossime elezioni europee. 
La farsa continua, una vera desolazione! Si paga con gli interessi l’illusione 
populista, l’emotività di un voto, il suo uso strumentale voluto 
dall’ex  premier Cameron per rispondere agli attacchi alla sua leadership 
in forte calo di consensi. Il paradosso è che Brexit, con le sue conseguenze 
negative sull’economia reale, finirà per impoverire ancora di più 
quegli stessi soggetti che nel voto contro l’Unione europea hanno 
riposto le speranze  di un riscatto sociale ed economico. Un voto 
espressione sì di profondo disagio, ma soprattutto di una carica emotiva 
alimentata dalla demagogia e dalla miopia storico-politica di governanti 
allo sbaraglio! 
A distanza di oltre settant’anni dal discorso di Winston Churchill 
all’Università di Zurigo in cui l’ex Primo ministro inglese auspicava 
la nascita degli “Stati Uniti d’Europa”, i suoi “nipotini” 
vorrebbero fermare l’orologio della storia del Vecchio Continente, 
minando la costruzione della comune casa europea ritenuta una gabbia 
di regole e di tasse. Ma il nodo centrale della Brexit è politico per 
la dura lotta di potere in atto a Londra fra laburisti e conservatori. 
E Big Ben ha detto stop! 
Si chiude così la lunga stagione delle ambiguità iniziata nel 1973 
con l’ingresso nell’Unione della Gran Bretagna, una storia tormentata, 
una convivenza difficile. Con un Pil  alla fine degli Anni Cinquanta 
fra i più bassi d’Europa e il tasso di disoccupazione tra i più 
alti, Londra puntò sull’Europa e indirizzò la domanda di adesione 
all’allora Cee che venne rifiutata in due occasioni prima di essere 
accolta. Un matrimonio d’interessi spesso in crisi: una prima volta 
nel 1984 quando la Lady di ferro, Margaret Thatcher, pretese dalla Comunità 
europea il riconoscimento della clausola  “our money back”, la restituzione  
dei contributi versati per la politica agricola comune (Pac). Ancora 
più clamorosa la presa di posizione britannica nel 1988 contro la “federalizzazione” 
dell’Europa.
 Una presenza ingombrante nell’Ue quella del Regno Unito, da 
sempre “con i piedi in Europa ma con la testa oltre Oceano”. Un 
partner critico, arrogante nelle sue incessanti rivendicazioni sovrane, 
geloso del crescente potere politico ed economico della Germania, uno 
dei sei Paesi fondatori dell’Unione. Una partecipazione comunitaria 
del tutto singolare, una posizione di grande privilegio  consolidatasi 
nel tempo con negoziati condotti spesso sul filo del compromesso istituzionale. 
Il Regno di Sua maestà, per sua scelta, è fuori dall’Unione monetaria 
e dai suoi parametri, è fuori dal sistema Schengen, beneficia di un 
trattamento di favore sul contributo che ogni Stato membro versa al 
bilancio Ue rapportato al suo Pil, può non applicare la Carta dei diritti 
fondamentali dell’Ue, fruisce di significative deroghe in materia 
comunitaria di giustizia e affari interni. Un mix di benefit che nel 
tempo hanno alleggerito sempre più i vincoli comunitari del Regno Unito 
il cui peso decisionale è rimasto però inalterato! La Gran Bretagna 
ha scelto di liberarsi dei lacci e laccioli comunitari, l’Unione europea  
si libera di un Paese che colpevolmente ha dimenticato la lezione della 
storia. Un divorzio nel segno di un anacronistico nazional-populismo. 
Ma alla fine della telenovela (e del caos) c’è da chiedersi: per 
la Gran Bretagna, nel mondo globale, sarà ancora  “splendido 
isolamento”?       

 
 
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