“L’EMPATIA DEL CRITICO” a cura di Vincenzo Capodiferro
“L’EMPATIA
DEL CRITICO”
Una
densa raccolta di recensioni e scritti per ricordare la bellissima
figura di Vincenzo D’Alessio.
“L’empatia
del critico. Recensioni e altri scritti” è un volume dedicato alla
figura di Vincenzo D’Alessio, edito da Fara, Rimini 2020. Come
scrive Stefano Martello nella Prefazione: «Vincenzo D’Alessio è,
è stato, sarà
uno degli Autori più rappresentativi di Fara editore, avendo
contribuito alla crescita ed alla identità non solo (consentitemelo,
non
tanto)
con una corposa produzione letteraria, quanto, piuttosto, con un
metodo di scrittura e di analisi - che pur mai sbandierato - non è
passato inosservato…». Quello che dice Stefano non è valido solo
per l’editore Fara, con tutta la stima e il rispetto che nutriamo
per Alessandro, ma per tutti noi! Vincenzo ha lasciato un vuoto
incolmabile tra di noi: ci manca il suo sorriso umano, la sua forza
d’animo, la sua tempra, i suoi scuotimenti che hanno raddrizzato i
nostri passi in questi anni. Egli per noi è stato, nel vero senso
della parola, un padre, un vate. E questa figura del poeta vate -
credeteci! - non è tramontata con D’Annunzio! Almeno noi piccoli
intellettuali, noi che nel nostro piccolo abbiamo cercato di capire,
nei nostri limiti, senza pretesa alcuna, possiamo riconoscere
pienamente questo ruolo a Vincenzo. Egli ha rappresentato per noi ciò
che il Professor Keating – impersonato brillantemente da Robin
Williams nel film “L’attimo fuggente” del 1989 – è stato per
il circolo dei suoi poeti. Vincenzo è stato il “capitano” non
solo del circolo dei poeti irpini, ma di tutti noi! Vincenzo
D’Alessio è nato a Solofra nel 1950, viveva a Montoro (AV). Si era
laureato in Lettera all’Università di Salerno. Ha ideato il premio
“Città di Solofra”, ha fondato il gruppo culturale “Francesco
Guarini” e l’omonima casa editrice. Ricordiamo le opere più
importanti che segnano il suo percorso culturale: “La valigia del
meridionale ed altri viaggi”, più volte ristampata, e tra le più
recenti “Immagine convessa” (2017); “Dopo l’inverno”
(2017); “Racconti di provincia” (2018); “Nuove anime” (2019):
«Poeta, critico, saggista, esperto di archeologia, tradizioni
popolari (in particolare del culto micaelico) e storia, fa vibrare le
parole e ce le rende sorelle». Vincenzo si è spento il 2 aprile di
quest’anno. È stato un colpo durissimo per noi. Come se ci venisse
a mancare un vincastro, cui appoggiarsi nel difficile cammino
dell’esistenza. La testimonianza che ci ha lasciato è notevole. Ci
soffermiamo solo su alcuni punti, del resto l’ottimo testo
“L’empatia del critico” raccoglie un decennio di contributi di
lui per l’editore Fara. Spesso, parlando di Vincenzo ci veniva in
mente il nostro Rocco Scotellaro, il poeta dei contadini, degli
ultimi della scala sociale. Vincenzo si è fatto – come abbiamo
sottolineato nel testo a lui dedicato – la poetica Vox
clamantis in deserto.
È stato uno degli ultimi profeti della Questione Meridionale, che
oramai pare che sia sparita dalle nostre elucubrazioni, ma che,
invece, si ripresenta imponente e severa più che mai col discorso
dei migranti, del Mediterraneo. La Questione Meridionale si estende a
tutto il Mediterraneo, a tutto il Sud del Sud. Questo Vincenzo lo
sapeva benissimo e lo ha più volte ravvisato nei suoi scritti. Un
esempio di questa poetica popolare, che richiama alla civiltà
contadina, è “Versi di lotta e di passione” (2006). La lotta
sociale al Sud non è quella tra proletari ed industriali, ma
l’atavica lotta tra cafoni e galantuomini. Il brigantaggio
rappresenta l’ultima rivoluzione mancata, una rivoluzione
socialista di questo Sud oltraggiato, malvisto, reietto. Di fronte a
questo profondo complesso di impotenza del mondo contadino, della
civiltà contadina, l’uomo meridionale spesso ha risposto con la
fuga dell’emigrazione, nella speranza di un riscatto sociale
altrove. Di qui si erge solcato il pianto del poeta, tra la nostalgia
di un primitivismo, quasi mitico, “illuministico”, e lo stridente
contrasto di questo primitivismo non solo, e non tanto, con una
civiltà industriale, che ha visto il suo maggiore splendore nel
triangolo famoso del boom economico (Milano-Genova-Torino), quanto
più con una civiltà post-industriale, post-moderna, cioè
“posterioristica” in tutti i sensi. Questo “posteriorismo”
spesso sfocia in “deteriorismo”. Di qui il profondo dissenso
interiore che si erge nella poetica dalessiana. Questo – a nostro
avviso – è il senso profondo che scaturisce dalla sua riflessione
culturale. A fronte di una società, che già nella previsione
baumaniana si va sempre liquefacendo in un calderone ove spesso
vengono amalgamati fino all’annientamento tutte le identità, tutte
le posteriorità ideologiche, tutti i riferimenti politici,
religiosi, socio-economici, l’intellettuale si trova smarrito. Di
qui “la voce clamante nel deserto”. Il deserto non solo
rappresenta un Meridione dove il processo continuo di
desertificazione, cioè di de-popolamento aumenta, quanto rappresenta
spiritualmente un tableau nichilistico, “vuotistico”,
a-temporalizzante, dove l’uomo oggi si proietta. La voce risuona
col suo tintinnio “logicante”, ma pare inascoltata, vana,
inutilizzata, s-fruita. Ciò provoca un forte senso di smarrimento,
di vuoto, di caduta ineluttabile. Si è cercato un rimedio nella
“liquidità”, ma la liquidità non risolve il problema, non c’è
più l’equilibrio tra gli elementi: ciò che è terra è terra,
cioè la stabilità dell’appartenenza, il senso della stirpe, del
popolo, delle tradizioni e delle culture che l’accomunano. Non si
può gettare tutto a mare: con tutto che il mare è crocevia di
culture diverse. Però il mare ha senso se rapportato alle terre: il
Mediterraneo è il “mare nostrum”, cioè rappresenta appunto il
senso di appartenenza, è ciò che collegava le terre, anche le più
diverse. Per questo noi siamo rimasti spesso contrariati dalla teoria
di Henri Pirenne che poneva una profonda frattura tra mondo arabo e
mondo latino. In verità la tradizione della continuità, nel senso
di non-fratturazione, c’è stata sempre col mondo arabo, di cui la
nostra cultura è pregna. Non a caso gli antichi contrapponevano il
“mare nostrum” al “monstrum” che è l’Oceano senza fine, da
cui non torna nessuno. Dobbiamo aspettare al rivoluzionario Colombo
per superare il complesso delle “Colonne d’Ercole”. La civiltà
odierna non esprime un rapporto fecondo tra ciò che è terra e ciò
che è mare, ma si perde in un Oceano sconfinato, come se fosse
passato un Diluvio Universale novello e senza termine che è quello
dell’infinita, diluente post-posterità. Ciò che è fuoco, cioè
lo spirituale, non c’è più, è svanito dalla scena umana. Ciò
che è aria, cioè la voce logica, è divenuto un non-senso, un
assurdo. Neppure c’è la possibilità o la speranza di una
dimostrazione, seppure quia
absurdum
della realtà stessa. Il “nido” pascoliano va allargato
all’Italia, la “grande proletaria”, cioè la grande madre dei
figli, che è rimasta “senza padre”, perché il padre, qual
rondine riedente al nido, è stato trafitto. Questo è il dramma
profondo che in D’Alessio riemerge. Ricordiamo che Vincenzo
D’Alessio vive il dramma pascoliano al contrario: cioè la morte
del figlio. E qui ci sovvien il Carducci: L’albero
a cui tendevi…
l’albero rappresenta appunto le radici, la famiglia, la schiatta,
l’appartenenza. La morte del figlio rimanda speranzosa alla
passione e morte del Figlio, al dramma del Padre, alla speme della
risurrezione, che Vincenzo spesso attende dal risorgimento del popolo
meridionale. Il redentorismo delle masse, di matrice
cristiano-sociale accarezza spesso i versi del Nostro. E poi il Sud è
stato sempre un mondo “aperto”: vuoi per necessità geo-storica,
vuoi perché si trova nella sua condizione purtroppo di “stare
sotto” in tutti i sensi, è dovuto aprirsi alle varie dominazioni,
alle varie culture dominanti. Forse Gramsci quando parlava della
rivoluzione della classe dominante guardava a Sud: quei contadini, i
figli dei contadini, si sono messi a studiare, hanno fatto strada,
hanno fatto progresso ed al Nord (e non solo) si sono affermati in
tutti i campi. Però dopo, la rivoluzione … a parte quello
spiraglio epocale del 1968-1977, si è fermata come processo storico.
Vincenzo appartiene a quella generazione che nel Sessantotto viveva
il fiore dell’esistenza: si aspettava appunto, come tanti
intellettuali, come Pier Paolo Pasolini, una rigenerazione
universale. Questa pure, ad un certo punto, è venuta a mancare: di
qui pure la nostalgia del poeta. Anche Vincenzo, come tutti noi, è
il figlio di questa terra operosa, ma oppressa, dimenticata
veristicamente nel senso più verghiano del termine. Noi vogliamo
ricordare sempre con affetto questa figura maestosa, questo padre,
amico, maestro, guida. E vogliamo con questo piccolo gesto,
ringraziarlo per tutto quello che ha fatto per noi. Ha visitato più
volte i nostri paesi, ha girato paese per paese, la Campania, la
Lucania. Come possiamo dimenticare? Ci ha sempre sostenuto nel nostro
cammino. È venuto spesso a trovare le nostre amiche, intellettuali,
poetesse e cultrici, Teresa Armenti e Ida Iannella a Castelsaraceno.
Quanto lavoro, quante ricerche, queste donne rivoluzionarie, seguite
dalla sua nobile mano, hanno fatto per la nostra terra! Ricordiamo
commossi le parole con cui egli stesso ci ha ricordato, quando è
venuto al paese, in un suo scritto, riportato nel testo: «Incontro
Vincenzo Capodiferro, lucano… alunno di Teresa Armenti che si
trattiene per poco prima di riprendere il viaggio verso Varese dove
insegna. Ci stringiamo la mano, un caffè ci accompagna, ha il volto
sereno, gli occhi puntati al Raparo, il giro veloce di un falco
attraversa il nostro sguardo…». Questo nel 2015, ed ancora nel
2015, quando veniva a presentarci il “Golgota”: «Il sogno di
Teresa Armenti di vedere innalzata sulla cima della montagna una
croce luminosa è oggi divenuto l’invito rivolto dallo scrittore
all’intera comunità d’origine, affinché venga tradotto
finalmente in realtà. La spinta non è solo devozionale, quanto
fortemente attuale contro le violenze, le persecuzioni e l’egoismo
sociale imperante agli inizi di questo nuovo secolo». Così scriveva
Vincenzo e quanto sono vere, profetiche, le sue parole! Gli
illuministi, parlando del Medioevo, lo descrissero come un’epoca di
oscurantismo e di barbarie, ma se gli illuministi avessero potuto
scorgere il Novecento, con due guerre mondiali, i totalitarismi di
massa – che in confronto agli assolutismi seicenteschi sono come un
elefante di fronte ad un topolino – gli stermini di massa, le bombe
atomiche, che cosa avrebbero detto? Teresa aveva presentato il
progetto di voler apporre una croce sul monte Castelveglio nel 2004,
in occasione del suo pensionamento. Ricordiamo che il Castelveglio è
un monte che divide la necropoli cimiteriale dal paese e guarda di
fronte al monte Raparo. È tra la città dei vivi e la città dei
morti: le due città sono accomunate da questo “Golgota”: di qui
il richiamo che avevevamo fatto nella dedicazione dell’opera. E per
di più il progetto prevedeva la valorizzazione di un percorso
naturalistico sormontato dalle stazioni della Via Crucis. Il monte
Raparo, poi, è immenso ed ha la forma appunto di una grande croce.
Alle sue pendici, sul Raparello apparve Maria ad un pastore ed ancor
oggi v’è una cappella. Purtroppo il progetto di Teresa ha trovato
una forte opposizione. La croce non è mai accetta. È stata sempre
segno di scandalo e noi l’abbiamo calpestata, l’abbiamo
rinnegata. Noi abbiamo fatto un’apostasia silenziosa come nel film
“Silence” di Martin Scorsese. Dalla visione di Leone XIII, nel
1884, Satana ha dominato sulla terra. E quanto Satana ha avversato
l’opera della croce di Teresa! Ci uniamo anche noi all’accorato
cordoglio di Emilia Dente: «Maestro, padre, amico… compagno di
avventura, sui sentieri sassosi della vita, Vincenzo per me c’è
stato sempre. Dal lontano 1990, ormai trent’anni fa».
Vincenzo
Capodiferro
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