HO SCRITTO QUESTO SALTO Una rapsodia ermetico-esistenzialista di versi di Marco Colonna a cura di Vincenzo Capodiferro
HO
SCRITTO QUESTO SALTO
Una
rapsodia ermetico-esistenzialista di versi di Marco Colonna
“Ho
scritto questo salto” è un’opera poetica di Marco Colonna, edita
da Fara, Rimini 2019. Marco Colonna è nato a Palermo nel 1964, vive
a Forlì. Dal 1999 dirige il portale web sestopotere.com.
Cura il canale You-Tube Lotta
alle mafie.
Ha scritto articoli per vari periodici. Ha collaborato con
televisioni e radio. Ha avuto diversi riconoscimenti. Inserito in
diverse antologie, con Fara ha pubblicato anche Ani+ma
(2016) e Siamo-sono
(2017). Marco Colonna è un giovane molto attivo, come si evince
dalla sua breve biografia riportata, eppure si presenta, nella sua
immagine, come un “solo e pensoso”. Nella sua poesia si respira
un’aura di pessimismo, eppure nella vita questo giovane si dà da
fare, vive quel nietzschiano nihilismo attivo. Le sue poesie
riprendono a grandi linee lo stile degli analogisti ermetici della
poetica essenzialista. Questo atteggiamento lo possiamo già trovare
nel distico: Disboscare
le parole/ tornare al deserto delle lettere.
Questo ermetismo, però a differenza di quello classico, è dettato
da esigenze pratiche, non teoriche: non c’è più tempo per
leggere, per meditare. Il cellulare prende ore ed ore della nostra
vita. Il linguaggio cellularesco è neo-futurista. Bisogna correre,
anche nella lettura. C’è un forte richiamo al deserto: il deserto
ci rimanda ai Padri del deserto. Anche essi usavano un linguaggio
essenziale. Certo i vecchi ermetici non avevano carta, dovevano anche
essi essenzializzare, ma oggi non è questo il problema, il problema
principale è la mancanza di tempo: il tempo fuggitivo che ci avvolge
nei suoi turbinosi ritorni.
Come
scrive Pietro Caruso nella Prefazione: «La poesia di Marco Colonna è
cosmogonica come orizzonte e molecolare come struttura. Per cercare
di penetrare la sua poesia bisogna provare le emozioni del funambolo.
Mai guardare in basso, procedere a testa alta, asciugarsi le mani con
il gesso della razionalità senza grossolanità dell’esistenza
greve […]. Una trasposizione orientale che viene dai versi haiku si
è fusa con la modernità di Bataille e lo psichismo di Lacan». In
ciò lo stile del Nostro somiglia a quello di Alessandro Lamberti.
Nella
sezione “Della realtà”, il Nostro prende spunto sempre da morti
tragiche, come la caduta del ponte Morandi:
Arresi
alla caduta,
saremo
urla umane
nel
boato di cemento.
Ci
offre spunti di poesia esistenzialista che si concentra
sull’”assurdo”, sul “tragico” e sull’heideggeriano
“essere per la morte”. La morte è un fatto, che pur nella sua
assurdità, dà il senso profondo all’esistenza:
La
terra ci mangia in fretta…
noi
significanti eternamente
in
cerca di significato.
Come
mai un giovane si interessa così tanto della morte? Oggi la morte è
diventata un tabù, come la malattia, io direi: il tabù della croce.
L’Europa era cristiana, oggi ci si vergogna di ostentare la croce.
L’heideggeriano “essere per la morte”, se non per la differenza
non ontologica, ma teologica, si avvicina molto all’”Apparecchio
alla morte” di Sant’Alfonso. Per evitare la croce è più facile
l’eutanasia. Eutanasia che tronca le esistenze anche a tredici
anni! Ma in che mondo siamo arrivati? Ha trionfato Thanatos su Eros!
Se il Signore avesse ragionato così, si sarebbe suicidato prima di
Giuda per evitare la croce! La croce, il complesso del dolore
richiede il complesso di salvazione. La morte non è più la vedova
nera, ma è, come al chiamava Francesco, la nostra sorella più cara.
Il problema vero della morte non è la morte prima, o fisica, ma la
morte seconda, o metafisica, le “anima morte”. Ci sono così dei
viventi che vivono come se già fossero morti e dei morenti, invece,
che vivono come se fossero vivi. Così l’ammalato vive la vita
nella sua pienezza, quel fil di vita che il dono dell’universo ha
ricamato. Se siamo morti dentro siamo come gli zombie parmenidei.
Questo è il senso profondo del concetto centrale del “Disessere”
in “Mise en abyme”.
Non
realtà
non
teatro
non
mondo
non
poesia
non
io.
Disessere.
L’essere
è chiamata, è vocazione. Se non c’è risposta c’è il
Disessere,
non l’Esserci, cioè c’è l’esistenza inautentica di Heidegger,
cioè l’inesistenza.
E
quando il mondo
ci
precipita dintorno
sempre
ci ritrovi e ci consoli
nel
ricordarci cosa siamo: terra e
vita
che si regge al mondo.
Ci
ricorda un frammento eracliteo: «Per le anime è morte divenir
acqua, per l’acqua è morte divenir terra, ma dalla terra si genera
l’acqua e dall’acqua l’anima» (fr.
36).
La
poesia di Colonna è puramente esistenziale, non ci sono spunti
metafisici. E questa è anche un’altra differenza con l’antico
ermetismo, come quello, ad esempio, di un Ungaretti. È un pessimismo
puro, che non contempla vie di liberazione, come in Schopenhauer, o
come nella Ginestra leopardiana: il socialismo, che troviamo poetato
anche nella pascoliana Italia proletaria. La pura contemplazione del
dolore avviene, però col puro occhio estetico. Come diceva
Aristotele, la tragedia purifica l’anima, è catartica. Esserci è
più importante che Disessere: anche il Disessere è un essere
mancato, un essere mancante, forse anche dei cari estinti. Non ci
sono le speranze dei vati dannunziani, dei superuomini, degli
oltre-uomini nietzschiani. Lì ancora c’era la metafisica della
speranza, qui non c’è niente, c’è la pura espressione del
foscoliano “nulla eterno”. Quella molecolarità di cui parlava il
Caruso, si iscrive, in effetti, nella ventata postmodernista, che ha
avvolto anche la poeticità.
Vincenzo
Capodiferro
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