RACCONTI DI PROVINCIA DI VINCENZO D’ALESSIO a cura di Vincenzo Capodiferro


RACCONTI DI PROVINCIA DI VINCENZO D’ALESSIO
Vicende antiche e recenti che narrano la straordinaria quotidianità di personaggi tipici e senza tempo”

Racconti di provincia”, è una raccolta narrativa di Vincenzo D’Alessio, edita da Fara, Rende 2018. Conosciamo bene Vincenzo D’Alessio, più volte recensito in questo sito, di Solofra, fondatore, tra l’altro, del Premio Città di Solofra, nonché del gruppo culturale e casa editrice “Francesco Guarini”. Vincenzo è un intellettuale non solo meridionale e meridionalista, ma universale, in quanto ha toccato diversi e profondi temi culturali, ed è stato sempre impegnato su vari fronti nella guerra della cultura, dall’archeologia alla storia, dalla poesia alla narrativa. Tra le ultime sue raccolte poetiche, recensite anche in questo sito, ricordiamo. “Immagine convessa” (Fara 2017) e “Dopo l’inverno” (Fara 2017). Anche quest’ultima opera - Racconti di provincia - esce votata al concorso Narrapoetando. Vincenzo soprattutto per noi è un padre ed un amico sincero, una guida che ci ha scortato nel comune sentiero dei paesi del sud, del cuore del sud: l’Irpino-Lucania. Scrive il giurato Angelo Leva: «I racconti sono storie brevi, gustose che danno il piacere della lettura per la storia stessa e anche per quella certa impressione di essere davanti a fatti veri, tanto sono credibili le sequenze, tanto è appropriato il linguaggio». Sono “fatti” che si dimenano tra cronaca e storia, tanto più che c’è un incipit, che richiama un esperimento letterario echiano da pseudobiblio, perché questi fatti risultano tratti da un ancestrale fascicolo di Amalfi, ove venivano raccolti in carte, le storie avvenute nel XVIII secolo a Solofra, «trasmesse in dialetto locale». Le “storie provinciali” di D’Alessio sono un unicum che si dimena tra realtà e leggenda, tra storia e fantastoria, tra passato prossimo e passato remoto. Così si alternano lupi mannari e sirene, curati e fidanzati … Mettiamo in evidenza solo alcuni aspetti della già nota poetica dalessiana: innanzitutto il sentito e forte meridionalismo, che si perde in un profondo senso di nostalgia per la civiltà contadina. Di quella ancestrale civiltà scomparente tutti si sono innamorati, basti citare al proposito il Levi, col suo “Cristo si è fermato ad Eboli” e siamo già nella Campania inoltrata, nella terra di Vincenzo e Levi è una voce del nord che è giunta al sud, al contrario di Vincenzo: una voce del sud che sussulta a nord. Eboli rappresenta una linea longitudinaria invalicabile: ci ricorda l’”Oltre Eboli” del compianto Antonio Motta. «Chi nasce al Sud di questa stretta penisola, tuffata nel cobalto Mare Mediterraneo, non sempre riesce a fuggire alla fatale attrazione delle sirene che da quasi duemilacinquecento anni infestano le sue acque». Oggi la Questione meridionale non riguarda solo il Mezzogiorno d’Italia, ma ingloba in sé tutto il Mediterraneo e l’Africa, con parte dell’Asia. Qui si gioca tutto il nuovo “triangolo commerciale” neo-schiavista dei migranti, gestito dalle novelle “Compagnie”. Vincenzo sa benissimo che la Questione Meridionale va riscritta in questo senso, perciò mette in evidenza il profondo contrasto tra mare e monti: chi abita al mare e chi abita sui monti. Ma questo contrasto è antichissimo. Vincenzo sa perfettamente coniugare il fatto storico con il fatto narrativo. La storia in fin dei conti, nella sua intima origine è “racconto”, come la definiva Jacques Le Goff. Così il ricordo del terremoto del 1980 viene coniugato al fatto del parroco che viveva sotto il tiglio: «Il terribile sisma del 23 novembre 1980 alle ore 19.35 segna, nella mappa delle tragedie sismiche che hanno colpito l’Irpinia nel corso dei secoli, l’evento più doloroso per la quantità di vite umane distrutte … Sono trascorsi trentasei anni da allora … Nel villaggio prossimo del centro urbano viveva nell’antica canonica …». E così continua con la vita di questo parroco. I terremoti hanno sempre segnato dolorosamente la storia «di chi nasce sulla dorsale degli Appennini meridionali, dove il terremoto stermina quando vuole vite e sogni …». Ancora si ricorda negli annali e nei luoghi reconditi dell’inconscio collettivo junghiano il “tremuoto del 1857”, alla vigilia dell’unità d’Italia. Ma l’Unità non ha cancellato queste profonde ferite. Il terremoto del 1980 viene paragonato ai bombardamenti aerei del 1943. Alla guerra della natura si aggiunge quella degli uomini e si delinea l’impotenza totale dei verghiani vinti del sud contro queste potenze, nonostante la “fiumana del progresso”, che ha devastato tutto come le recenti alluvioni. Non basta neppure la leopardiana “social catena” della “Ginestra” contro questo demone antichissimo “sterminator Vesevo” del “tremuoto”. Il socialismo leopardiano contro la Natura non vi è stato. ma pure il socialismo contro lo strapotere dei forti, il socialismo agrario del sud è fallito. Tutto è fallito. La gente ha risposto con la fuga dell’emigrazione. Anche i migranti fuggono dai luoghi della fuga. Questo è il profondo dramma storico che viene raccontato nella nostalgia del passato. Di solito l’uomo in crisi si rivolge o al futuro con l’utopia, o al passato, con la baumaniana “retrotopia”, cioè utopia al passato. Ma passato e futuro coincidono, convergono sempre in quella “immagine convessa” che ricorda sempre il D’Alessio: l’eterno si è fermato lì, su quella invalicabile linea Gustav di Eboli. Concludiamo con una bella immagine del Natale di Vincenzo: «Il Natale è la festività più calda dell’anno: fuori c’è freddo e nelle case un tepore di festa che illumina le famiglie e i luoghi dove vivono gli esseri umani … La furia degli uomini si ferma dinanzi a questo evento, facendo memoria della Nascita di un Bambino e il ricordo della loro stessa nascita da una madre. Quanto accadde nel Natale del 1943 è ancora memoria viva …». E qui comincia la storia di Don Raimondo, il giovane prete .... Ciò valga anche come augurio: la furia degli uomini si fermi dinanzi al Natale …

Vincenzo Capodiferro

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