DOPO L’INVERNO Una raccolta di tre sillogi di Vincenzo D’Alessio: 40 anni di vita e di ricordi (1976-2017) a cura di Vincenzo Capodiferro


DOPO L’INVERNO
Una raccolta di tre sillogi di Vincenzo D’Alessio: 40 anni di vita e di ricordi (1976-2017)

Vincenzo D’Alessio, nato a Solofra negli anni Cinquanta è stato trai fondatori del premio Città di Solofra, nonché dell’associazione culturale ed anonima casa editrice “Francesco Guarini”. È un intellettuale impegnato su vari fronti: dall’archeologia alla storia, dalla critica letteraria alla poesia; ha scritto moltissimo, ricordiamo solo, trai suoi ultimi scritti: “La valigia del meridionale” (2016 ristampa) e “Immagine convessa” (2017). Anche l’immagine di copertina, che ritrae “Vincenzo D’Alessio” di Eliana Petrizzi intercetta questo sguardo ambiguo, doppio, che permea tutta l'opera che andiamo ad analizzare e che richiama anche un’altra silloge, che abbiamo a suo tempo commentato, “Immagine convessa”. “Dopo l’inverno”, edito da Fara, Rimini 2017, raccoglie tre sillogi: “Dopo l’inverno”, appunto e due ristampe di “Un caso del Sud” (Avellino 1976) e di “Costa di Amalfi” (1995). Ci sono 40 anni di vita e di ricordi: dal 1976 al 2017. Ma cosa c’è che lega queste tre sillogi? “Dopo l’inverno” è come uno scrigno che raccoglie una vita, difficile da decifrarsi; in questo scrigno ci sono diamanti, ma anche carboni. Non per sottolineare il paragone: ma è proprio il carbonio l’elemento comune che lega il diamante al carbone. L’altro poeta canta: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori! C’è un dissidio, una dicotomia, una vista bistorta. Un occhio guarda da un lato, l’altro dall’altro. Lo sottolinea anche Teresa Armenti, nella sua breve nota critica: «Uno sguardo silenzioso, disgustato e pieno di rabbia alla terra … Uno sguardo fiducioso rivolto al cielo, per spiccare voli ardimentosi …». Si percepisce una dissonanza cognitiva che già era presente in “Immagine convessa”, emerge il tema dello sguardo impervio, bieco. La raccolta di una vita di un poeta è fatta di amarezze e di sospiri, ma anche di gioie, di aspirazioni. Sospiro e aspirazione hanno una radice comune. Questa è la vita. Come capire un padre che perde il proprio figlio? Un padre del Sud che perde la sua terra, la vede morire giorno per giorno, come in “Paese mio”: «L’uomo, una casa. Cerca: non sente/ sotto le macerie»? Il riferimento va certamente alla tragedia del terremoto dell’Ottanta, ma non solo, c’è una trasfigurazione della maceria, come in Ungaretti, in “San Martino del Carso”. La metafora simboleggia la distruzione della società umana, la disgregazione della famiglia. Già dalla sua giovinezza (quando aveva 26 anni), Vincenzo, come sottolinea Nunzio Menna, «divide con i contadini la tragedia esistenziale di un mondo minacciato dal cancro speculativo politico-edilizio». Il canto si perde tra gli scogli di Sant’Elena: «La rabbia resta nell’attesa/ delle parole antiche». Qui la trasfigurazione rimanda impercettibilmente al “Cinque Maggio”, all’”Ei fu”, alla celebrazione del vincitore vinto. Così nelle pagine sgualcite del D’Alessio si respira l’alito di quell’epopea dei Vinti, ma il suo ciclo è più vicino al verismo di un Verga, che a quello manzoniano, corroborato dalla fede e dalla fiducia nella Provvidenza. Come in Verga, in D’Alessio c’è il naufragio della “Provvidenza”, come ne’ “I Malavoglia”. Ma ecco l’eroe vinto di Sant’Elena che si converte, diventa eroe della fede, da eroe della terra diviene eroe del cielo. L’uomo è vittima del destino implacabile: «Pulire gli argini/ del maldestro destino/ fu opera dell’uomo/ del suo nemico». Oltre al destino c’è l’altro mostro che risucchia l’altra emigrazione, quella che dal Sud del Sud soffia come vento impetuoso sulle nostre coste “di Amalfi”, un Moloch che divora i suoi figli, il Mediterraneo e l’orgioso Mammona: «Sono sacrifici umani/ alla calma incessante/ del Dio Denaro». Questa nuova emigrazione che passa attraverso i paesi dell’emigrazione potrebbe colmare i vuoti dei nostri paesi ammalati di vecchia, pronti alla morte, al loro ultimo sospiro, ma non lo fa. Vincenzo, insieme al circolo dei poeti irpino-lucani, di cui fa parte anche la nostra beneamata Teresa Armenti, si fa il cantore di questa terra persa, terra nel passato conquistata, terra che ha visto il succedersi di dominazioni: Normanni, Angioini, Aragonesi … fino ai Piemontesi. “Dopo l’inverno” a che cosa si riferisce? «Venticinque aprile/ … in questo tempo di pace/ il ricordo dell’inverno/ appena passato per la Libertà». Dopo l’inverno si riferisce al dopo il 25 aprile, alla Liberazione, al dopoguerra. Ci si aspetta una rinascita, una primavera, un neo-rinascimento, come lo definirebbe Gaber. E di fatto c’è stato. Insieme all’emigrazione sfrenata verso le fabbriche del nord ad avvitare bulloni vi è stata anche una crescita nei paesi del sud, una speculazione edilizia feroce ed implacabile. Ma qui si è vissuto lo stridore dell’antinomia tra epoche diverse, tra la civiltà contadina morente e la civiltà moderna, la “fiumana del progresso” di Verga, che è stato solo un palliativo dell’agonia dei paesi morenti. Dopo l’inverno ci si aspetta la primavera, dopo la notte l’alba, dopo il gelo il disgelo. Ma cosa ci è stato? Questo è il crepuscolarismo del Sud, la sua magia, come “Sud e magia” di De Martino. C’è il rimpianto delle antiche città e civiltà che mai torneranno. Chi tornerà a conquistare questa terra desolata? Almeno prima venivano i Normanni, gli Angioini. Torneranno i Saraceni? Il nuovo flusso migratorio, guidato da Mammona, come ha ben evidenziato Vincenzo, potrà riempire il vuoto dei nostri millenari paesi? La maggior parte erano nati nel millenarismo, ma ci sarà mai una nuova rinascita dell’anno 1000? Nel secondo millennio tutto è cambiato. E nel terzo? Chi lo sa? Tutti sono andati via, o sono morti. E chi va via non torna. Chi torna? Quando i figli se ne sono andati non tornano. E se se ne sono andati i padri, i loro figli torneranno? Forse un po’ alla prima generazione. ma alla seconda? Alla terza? Non torneranno più! E chi rimane qui? Da “Un caso del Sud”: «Ogni stagione/ ritornano i giovani/ sempre stranieri». E chi rimane qui? Voce di uno che grida nel deserto. Ecco il poeta! Si fa voce chiara dei reduci dell’inverno, della guerra, dei figli senza padri: morti in guerra, che diventano padri senza figli: partiti per sempre verso lidi lontani in un viaggio-odissea, come Ulisse: «E volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino». 
Vincenzo Capodiferro

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