Don Fabrizio Centofanti, un poeta di Cristo nei sobborghi di Roma

di Augusto da San Buono

1. Sta a mezza strada tra don Tonino e Teilhard de Chardin
Fabrizio Centofanti, anzi “don “ Fabrizio, è un prete che sta a mezza strada tra don Tonino Bello, il fratello vescovo, l’uomo che propugnò la chiesa del grembiule e la convivialità delle differenze, il poeta dell’ “ala di riserva”, e Pierre Teilhard de Chardin, il Gesuita Proibito ridotto al silenzio dalla chiesa, l’uomo che non rinunciò alla propria verità, l’uomo che tutto tentò, osò, e rischiò, perfino la propria (possibile) santità . Come lui, don Fabrizio è uno capace di trasformare il passato in avvenire, di cooperare per una marcia in avanti, - e questa accelerazione lo rende assai gradito e amato dai giovani -, che gli fanno corona, gli fanno ressa e un po’ lo soffocano, ma è anche uno che sa ascoltare il sospiro dei poveri, uno che sente, annusa, fiuta le verità di tutti i giorni, che vengono gettate nei cassonetti dell’immondizia , ma anche nelle sacrestie e nei confessionali, e poi queste verità le annuncia sull’ambone, la domenica alle ore 11,30, nella brutta chiesa-trincea di San Carlo da Sezze che è stretta tra il parco della Madonnetta e il popoloso quartiere-sobborgo di Acilia, in Roma, e dove ci stanno gli eroi, i martiri della fede come don Mario, bruciato vivo dalla mafia e ridotto a vivere in carrozzella, ma ancora indomito, esempio vivente di resistenza al male.
E questo suo dire, scandire, le verità, rende don Fabrizio assai gradito agli ultimi, ai diseredati , ai deboli, ai sofferenti, ai “drop out”, ma anche ai ricercatori di pace, agli assetati di giustizia, a chi crede nel riscatto dell’uomo. Insomma, è uno che dice il male esiste, fratelli, eccome! (lo tocca con mano tutti i giorni ), ma non bisogna farne un’ossessione, perché la ruota del male prima o poi si deve arrestare, il male si può interrompere, il male si può e si deve eliminare, anzi è un dovere e un diritto di ogni cristiano tentare di farlo.

2. Un predicatore pieno di giocosa ironia e malinconica tenerezza
Ma don Fabrizio ha qualcosa di suo, che appartiene solo a lui, di inconfondibile, di unico, un suo fuoco, una sua energia, un suo orizzonte da palpebre socchiuse, un suo impegno forte di memoria, di transito, di fretta di vivere di più, di vivere a lungo, con amore, con passione, con dedizione, il gusto della vita, l’ebbrezza della libertà, il senso d’avventura e dell’infinito, con un certo panismo che sa incanalare poi nella sua religiosità; insomma è uno che non ti dirà mai “vieni qui , facciamo una poesia /che non sappia di nulla/ e dica tutto lo stesso/ e sia come un rigagnolo di suoni /stentati/ che si perde tra le sabbie”. No, al contrario, è un predicatore che sa trascinare le folle, un Masaniello di Casalpalocco col Vangelo e la croce, la spada e la spina nella carne, uno che fa musica azzurra anche quando è triste da morire, uno che sa dire le cose con un candore quasi fanciullesco, che apre distese, pianure, attese di silenzi e pantomime. Uno che ci mette ironia e umorismo nelle cose che dice, ma lo fa con finezza di costume e di mentalità tutta antica romana (il popolo che non conosce l’ironia è un popolo barbaro) , uno che ti fa un cocktail di neuroni e mescola sapientemente l’ironia e l’umorismo ora con lo sdegno, ora con la speranza, ora con un’ombra di una malinconica e disfatta tenerezza, ora con un grido di silenzio e una catena di amicizia, un arco, un girotondo di mani intrecciate, uno sperimento di comunione fatta lì per lì, con tutti, anche con quelli dalle mani sudate, mani nere o gialle, mani di chi non crede, o ha forti dubbi che esista un Dio, e non sa neppure perché viene in chiesa. Tenta una comunione, che è come un vaso cinese che poi inevitabilmente si rompe e reca dolore, come tutte le cose che si spezzano . E lui ne soffre molto, magari capita che si metta a piangere come un bambino, perché quelle sono le “sue” pecore, la “sua” gente, che chiama per nome ad uno ad uno, ma rimane lì, sul fronte, con intrepidezza morale, con coraggio, con la fede di crede in quel che dice, e in quel che fa, nonostante i sacrifici, i fallimenti e le inevitabili sconfitte di tutti i giorni.

3. Trova sempre il tempo di pregare
Lui è uno che vuole stare in mezzo alle lotte, che si butta nella mischia, nel vivo degli avvenimenti , che ha voluto la bicicletta e pedala, pedala, anche quando il fiato è corto, le gambe molli, le tempie gli scoppiano, è uno che tiene botta, carattere, “cià er pelo su lo stommico”, “tene ‘e ‘ppalle”, è un guerriero dello Spirito, ma è – soprattutto – un uomo di Dio, che trova sempre il tempo per pregare, anche quando gli andrebbe di bestemmiare, uno che riesce a non cedere alla lusinga di una sua presunta onnipotenza , quando vede la “sua” chiesa di San Carlo da Sezze che si riempie come un uovo solo per ascoltare le sue omelie, e vengono da ogni parte – soprattutto i giovani, ma ci sono moltissimi anziani - per vederlo, per sentirlo predicare, per toccarlo quasi fosse un Gesùcristo redivivo, scatenando invidie, gelosie, anatemi e qualche delazione. Ma lui è uno che riesce a vincere se stesso, il suo genio, il suo dinamismo, il proprio delirio di grandezza . E’ uno che quando tutto ciò frigge e rischia di distruggerlo, si tuffa in una vasca gelata di umiltà , ritira padelle di orina e di vomito e s’affida a Lui, che è la Bellezza, la Grandezza, la Salvezza, la Bontà senza limiti. Si affida totalmente, ciecamente, in tutto e per tutto, a Cristo, alla maniera di San Paolo. (Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada ?– Rm, 8,35).

4. Il pilota di Cristo e le sue parole
Anche se, poi, sotto sotto, don Fabrizio, è uno che amerebbe il silenzio, ( le parole, una volta dette, giungono sempre nel regno del silenzio ), la conoscenza, lo studio, la contemplazione, la letteratura, la poesia, la tensione mistica. Insomma, è un po dicotomico, anzi molteplice, come la maggior parte di noi, del resto. E’ un “contempl-attivo”, come direbbe don Tonino , in una delle sue formule scintillanti.
E’ uno che sull’altare si trasforma, con le sue metafore, parabole, calambours, aforismi, con similitudini che vanno da Topolino al Big Ben, da Trinità – Terence Hill a San Tommaso, da don Tonino a Maratona . Riesce a destare sempre viva l’attenzione dei suoi parrocchiani, riesce ogni volta a stupirli, e chissà, magari stupisce anche lui di se stesso, per quella capacità che ha ancora oggi di trasalire, di meravigliarsi, di commuoversi nel toccare mani amiche, incrociare sguardi e sorrisi amici, di dissetare l’anima in quel acquasantiera asciutta, nonostante il deserto, l’aridità, la noia, la polvere, i rifiuti, le cose più immonde in cui siamo costantemente immersi. E tutti questi sentimenti, queste sensazioni, fatti di parole e musica che si muovono, che si sforzano, che si incrinano, che si spezzano sotto il peso della tensione, che non vogliono star ferme, che incalzano, che scavano, che danzano, riesce a trasmetterli all’uditorio, ossia a noi fedeli seduti ai primi banchi e agli ultimi banchi regalandoci venti minuti di navigazione senza pilota automatico, con le turbolenze e i vuoti d’aria . Ma bisogna stare attenti, perché ogni parola di quel pilota di Cristo può essere quella definitiva, quella da Messico e nuvole, che ti apre strade, radure, sentieri, che è magica e ti salva . Sono piccoli momenti di estasi , i suoi e i nostri , momenti all’ombra dei salici, di frescura spirituale, con il desiderio di sentirci migliori, più buoni, fratelli da mani nelle mani, occhi negli occhi, core a core , con il cuore che batte davvero, e le parole di Dio che riempiono davvero l’anima come se fossero nuove, dette per la prima volta.

5. Poeta di Cristo
Ma davvero riesce a trasmette tutto ciò, don Fabrizio Centofanti? Beh, sì, a me è capitato. Anche se non subito, a primo acchito. Ma la colpa (o il merito) è di qualcuno che me ne aveva parlato in modo errato, come di un fenomeno da baraccone, con tanta sapienza, tanta cultura, tanta genialità, così pieno di impegni teologici e filosofici, con un cartellone di incontri e di conferenze da qui all’eternità. Conoscevo quel tipo di prete e ne diffidavo. Insomma alcuni suoi ammiratori l’avevano snaturato. Perché don Fabrizio è un uomo, direi un ragazzo semplice, umile, ricco di umanità , di mitezza, di empatia , che vive la vita da vero poeta di Cristo, in mezzo alle situazioni di disagio, povertà, violenza , sofferenza , e sa che ogni momento della vita, ogni fatto della vita, è di per se stesso poetico, e in qualche modo magico e irripetibile. Sa che fare poesia significa avvicinarsi a Dio. E’ uno che ha un dialogo diretto, intimo, solitario, con Dio, ma anche un dialogo aperto, sociale, fraterno, con l’uomo, perché crede nell’uomo, nei valori dell’uomo, nel riscatto dell’uomo. E mette in evidenza questi segnali umani, queste debolezze umane, lo sdegno, l’ira, insieme ad un’alta tenerezza, ad un’amicizia totale, bene supremo dell’uomo. Ma è anche uno che lotta per la luce, che è lo sviluppo della ragione naturale e che sa perfettamente che la vera forza dell’uomo consiste prima di tutto nell’amore. Ma per amare in modo più completo, bisogna “sapere di più”. E lui è un uomo di profonda e vasta cultura, uno, come abbiamo detto, che le verità le “sente”, le intuisce prima di altri.
E’ vero che ha un grande carisma, ed è altrettanto vero che sembra uscito fresco fresco dalle migliori accademie dell’ars oratoria e conosce tutto, da consumato attore, la pausa, le tonalità di voce, i registri, i timbri, le modulazioni di frequenza, “il respiro”. Sa tutto anche del “suo” pubblico, che chiama per nome e risveglia dal nudo sonno dell’anima, e dallo sbadiglio, che riesce ogni volta a conquistare, affascinare, educare in quello spazio grigio, in quel carcere che è il banco di legno, in quell’aria ora di gelo, ora di palude, che circola nella chiesa, dove i questuanti sono una corte di miracoli e anche gli uccelli fanno liberamente i loro nidi, con quella sua grazia della parola da millefoglie, o millefiori, che presta le ali ai giovani rondinini, quella parola anche dialogica di mare sabbia nera e stelle, ma anche di interiezioni, onomatopee, argot romanesco, un mix ben dosato di ironia giocosa e tenerezza, di forza e di dolcezza, di linguaggio culto e popolaresco. Ma il tutto rimarrebbe lì, in quel momento di magia, in cui si riesce, quasi per miracolo, ad ascoltare qualcuno che ci dice delle cose anche interessanti, non lo nego, se non ci fosse di mezzo Cristo e la preghiera che gli fa tenere le mani sul timone della storia, Cristo e la fede che ti apre finestre, strade e autostrade di speranze, Cristo e la Bellezza, come diceva il vecchio disperato Dostoevskij, Cristo e la Poesia, che “gli raschia la gola”. Per questo, Lui, don Fabrizio, è uno da incontri decisivi, da incontri che salvano, e lo è suo malgrado, proprio quando meno crede di esserlo, proprio quando dimentica se stesso e il suo straordinario talento da predicatore.
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