25 aprile 2008

"La pala di Brera" di Piero della Francesca

di Augusto da San Buono

Il dipinto conosciuto come “La pala di Brera”, o di Montefeltro, è una pittura a olio su tavola di 248 cm x 170 che arrivò a Milano nel 1811, al tempo delle grandi requisizioni napoleoniche . Fu realizzato da Piero Della Francesca quando aveva sessant’anni ed era quasi cieco , tant’è che non riuscì a terminarlo. Gli era stato commissionato , tra il 1472 e il 1474 , da Federico da Montefeltro, celebre capitano di ventura e sovrano tra i più ammirati del suo tempo . L’opera viene ritenuta da Roberto Longhi tra i dieci quadri più famosi nel mondo. Lo stesso celebre critico ritiene che abbia avuto un ruolo straordinariamente importante per la storia dell’arte italiana, perché sintetizza – secondo Wittgens – la civiltà spirituale del Quattrocento (la deificazione dell’uomo è il trionfo dell’umanesimo).
Con questo quadro, - “senza dubbio la più originale e importante conversazione sacra di tutto il Quattrocento” - , inizia il futuro dell’arte, sia per l’eccellenza dello stile e la suprema qualità pittorica , sia per il significato religioso che vi è ben presente, così come quello politico, che vi è sotteso. Solo chi ha visto l’opera di Piero nella libera atmosfera – continua Wittgens - ha l’idea del miracolo che essa rappresenta. Eppure anche il più distratto visitatore del Museo di Brera, a Milano, è in grado di accorgersi che siamo ben al di là del disegno fiorentino, che questi rari volumi di Piero Della Francesca sono ottenuti per condensazione, in piani plastici, dell’arcano etere colorato di cui tutta l’atmosfera è tessuta. E ci commuove – conclude il critico tedesco – la sublimazione del genio di Piero , nutrito della più alta scienza e filosofia del Rinascimento, che intona, alla vigilia della morte , questo puro canto lirico.
La Pala di Brera è un dipinto che riassume tutta l’arte del maestro di Borgo San Sepolcro . Guarda al passato , ma è talmente colmo di futuro che la sua immagine evoca quasi spontaneamente Bramante e Raffaello, per non parlare di Antonello da Messina, Giovanni Bellini e Carpaccio , e la più grande civiltà veneta nel suo insieme. Nella Pala di Brera , c’è il Nord e Sud d’Europa , l’occhio fiammingo e lo spazio italiano, Van Eyck e Masaccio che s’incontrano e vanno a braccetto.
La Pala di Brera è il risultato più alto della sfida fiamminga che faceva apparire contemporaneamente veri l’infinitamente lontano e l’infinitamente vicino, attraverso le risorse virtualmente illimitate della percezione ottica e della definizione luminosa.
Piero intende ridurre a sintesi l’ordine misurabile del mondo e il miracolo del vero continuamente trasmutante per effetto della luce , la ragione prospettica e l’emozione dello sguardo a lunga posa.
L’opera nasce come quadro votivo progettato per l’altare maggiore di una chiesa francescana e questo non va mai dimenticato. Ma guardiamolo sotto l’aspetto della pura gioia degli occhi: è uno specchio di meraviglie . Un’attrazione fatale. La scena è ambientata in un grande tempio marmoreo con le caratteristiche di un monumento romano di età imperiale. Si tratta di una chiesa di ispirazione albertiana , e i personaggi sono disposti a semicerchio nel transetto davanti all’abside, inquadrati ciascuno da un elemento architettonico. Il coro è descritto da una volta a botta con lacunari e si conclude con un’abside semicurva sormontata da una grande conchiglia da cui pende un filo a cui è appeso l’ uovo di struzzo dei mistici medievali , che si riteneva fecondato dai raggi del sole. Ed è per questo che veniva utilizzato come figura dell’Immacolata Concezione di Cristo. “ Se il sole può far schiudere le uova di struzzo – aveva detto Alberto Magno – perché una Vergine non potrebbe generare per opera del sole?” L’uovo di Piero è stato per secoli uno degli oggetti più celebri e misteriosi della letteratura artistica. Quell’esoterico oggetto carico di un fascino addirittura ipnotico per la luce che riceve e diffonde su tutti gli astanti è il centro simbolico e figurativo di tutta la composizione, perché dal suo significato discende il senso di tutta l’opera. Solo perché Dio , che è il Verbo onnipotente ed eterno, ha deciso di farsi carne nel grembo della Vergine Maria, resa madre dallo Spirito Santo , ognuno di noi può sperare di salvarsi, così come può sperare di salvarsi quel signore in armi, Federico di Montefeltro, inginocchiato sulla destra, che ha commissionato l’opera.
Al centro della composizione la Madonna in trono , rappresentata come Regina del paradiso e ciò spiega l’alto splendore, la suprema maestà ed eleganza che distinguono lo sua dimora celeste . La Vergine è seduta su un faldistorio e sulle sue gambe giace il Bambino addormentato. Intorno alla Madonna, disposti a esedra , coi loro simboli ben riconoscibili , gli angeli e i santi . A sinistra sono San Giovanni Battista, patrono di Battista Sforza, moglie di Federico di Montefeltro , ma soprattutto ultimo profeta veterotestamentario . E primo testimone di Cristo. Poi San Bernardino da Siena , grande protagonista di quella corrente riformata del francescanesimo , nota come Osservanza. E San Gerolamo, protettore degli umanisti. A destra San Francesco , che tiene in mano la croce e mostra il costato stigmatizzato , fondatore dell’ordine cui era destinata la grande tela ; San Pietro martire ( in cui è stato riconosciuto Luca Pacioli , il frate della “divina proporzione”) , che forse – dice il Meiss – è un’aggiunta dell’ultimo momento . Infine San Giovanni Evangelista , colui che come aquila volò più in alto di tutti, fissando il suo sguardo nel mistero vertiginoso del Verbo incarnato. A destra , in ginocchio e di profilo , come prescrive l’etichetta dell’omaggio devoto – armato di tutto punto , perché il suo mestiere è quello di soldato professionista – c’è l’immagine del donatore; il signore di Urbino , Federico II di Montefeltro, che sposta l’interesse sul significato anche “politico” della Pala di Brera, che è presente.
Infatti il dipinto aveva una destinazione pubblica. Doveva quindi celebrare l’autorità e la forza del sovrano che infatti si presenta all’omaggio della Vergine armato di tutto punto, vestito di una corazza che doveva apparire ai contemporanei un capolavoro di costosa e avanzatissima tecnologia militare. Il dipinto doveva , inoltre, sottolineare la pietà e la religione di Federico ( e quindi la legittimità di un potere consacrato dalla Vergine e dai Santi) insieme allo splendore e alla magnificenza del suo governo, concetto quest’ultimo efficacemente reso dalle architetture magnifiche e antiche le quali fingono, sì, un abside di chiesa, ma possono anche evocare l’arco di trionfo di un capitano vittorioso, emulo degli eroi romani celebrati da Tito Livio.
Ma lasciamo perdere i significati religiosi e politici del dipinto e entriamo in silenzio in questo quadro, per comprenderne soprattutto la maestà, l’incanto , l’eleganza , la calma, lo splendore e poi affidarsi al piacere di guardare. Lo sguardo deve cercare di identificarsi , in qualche misura, con lo sguardo del pittore , che è uno sguardo a presa totale, uno sguardo lento, distaccato e allo stesso tempo partecipe, infallibile nella percezione del vero e tuttavia capace di emozionarsi di fronte al miracolo, perché di un miracolo si tratta, ( ovvero capace di stupire e commuovere) quel che accade sotto i nostri occhi quando la luce tocca le cose. Accade ad esempio che il blu notte del manto della Vergine abbia nelle pieghe abissi meravigliosi di ombre colorate e che tutti i grigi, gli azzurro cenere e i bruno malva del mondo vivano nei marmi dell’abside. Accadono tante cose, apparizioni subitanee e continuamente mutanti nel trascorrere del tempo. Piero ci insegna che la pittura è la contemplazione delle cose nel tempo sospeso, ha capito che il “miracolo” delle cose visibili è un’apparizione subitanea continuamente mutante con il trascorrere del tempo. L’unico modo di fermare il tempo e consegnarlo all’eternità – come ha fatto lui cinquecentotrentaquattro anni fa lavorando alla Pala di Brera, è fissarlo per sempre, “miracolosamente” , nell’arte.
 

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