23 agosto 2007

Durand De la Penne e i "maiali" dimenticati

II guerra mondiale
I sei uomini d’oro dell’impresa di Alessandria

di Augusto da San Buono
Luigi Durand De la Penne è stato sicuramente uno dei più grandi eroi della Marina Militare durante la seconda guerra mondiale, ma anche un po’ malato di protagonismo, se andiamo a vedere tutti gli incarichi postbellici che ha ricoperto: Presidente della Lega Navale, Presidente della Federazione Nuoto, Presidente degli agenti marittimi, Presidente dei Gruppi Marinai d’Italia della Liguria, deputato nelle file della Democrazia Cristiana, poi dei liberali. Era anche un bell’uomo, brillante, compito, uno sportivo di razza, abile nuotatore, velista di primordine, era uno insomma che suscitava una corrente di empatia immediata, e questo ha favorito il suo percorso di uomo pubblico, si può dire fin dall’inizio, quando, al termine della prigionia in India, nel marzo 1945, presso la base navale di Taranto – alla presenza di Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno, gli fu appuntata sul petto la medaglia d’oro conferitagli per l’impresa di Alessandria proprio dal comandante della Nave che aveva fatto esplodere, l’ammiraglio inglese sir Charles Morgan, lo stesso che aveva fatto rinchiudere nella stiva Durand de La Penne, nella speranza che si decidesse a rivelare dove aveva applicata la carica di esplosivo. Perché Morgan volle premiare lui e non altri eroi che si distinsero nella stessa impresa? Per quella carica di straordinaria empatia e fascino che l’uffciale genovese emanava.
L’impresa di Alessandria fu compiuta da tre “maiali” e sei uomini d’equipaggio, due per “maiale”. Tutti e sei medaglie d’oro, tutti e sei eroi quanto Durand De La Penne. Ma gli altri due maiali e i cinque uomini è come se non fossero mai esistiti. Si ricorda e si parla quasi esclusivamente di lui e del suo maiale, quasi mai di Marceglia e Schergat, due istriani che fecero esplodere la corazzata ammiraglia, la Queen Elizabeth, la nave più importante della Flotta inglese, con a bordo il grande ammiraglio Cunnigham, sbalzato dalla sua poltrona. E Cunnigham non si peritò di sapere chi fosse quell’ufficiale che gli aveva messo la carica sotto il sedere, perché il fatto fu successivo, anche se di pochi minuti, a quello di Durand De La Penne.
Nessun cenno si è mai fatto al duo pugliese, Martellotta e Marino, che, durante quella notte, affondarono una petroliera di 7.500 tonnellate e un cacciatorpediniere di scorta, lo Jarvis, di 1700 tonnellate.
E quasi non viene nominato il capo palombaro Emilio Bianchi, che fu strettissimo collaboratore e compagno di De La Penne nella famosa impresa nel porto di Alessandria, “cavalcando” insieme a lui il “maiale” che inflisse gravissimi danni alla corazzata “Valiant”.

I maiali
Che cosa erano in realtà questi “ maiali”? Dei siluri a lenta corsa, o barchini siluranti , che venivano pilotati da due uomini, lunghi sei metri e settanta , e di 53 centimetri di diametro , dotati di motori elettrici ,e di una carica di esplosivo di 300 Kg contenuta nella testata del siluro , che si poteva staccare e applicare direttamente alla carena della nave, cosa che fece De La Penne nella notte del 19 dicembre 1941 , nel porto di Alessandria, mettendo fuori causa la corazzata Valiant, mentre in contemporanea il Capitano Marceglia e il palombaro Schergat facevano la stessa cosa nei confronti della Queen Elizabeth, e praticamente quelli che erano definiti i “ siluri umani” riuscirono con queste imprese a mettere fuori combattimento tutte e due le corazzate della Marina Britannica, vendicando un po’ il bombardamento inglese nel porto di Taranto.

Gli inventori dei maiali: Teseo Tesei e Elios Toschi.
I “siluri umani” erano stati inventati da due geniali Ufficiali del Genio Navale, Teseo Tesei e Elios Toschi, due accademisti che fin dal 1927 pensavano ad un progetto del genere . Erano partiti dall’idea della “mignatta” di Paolucci a Pola, durante la prima guerra mondiale, ma volevano realizzare un ordigno più sicuro, più agile, capace di raggiungere di nascosto, come un piccolo sommergibile , le unità da colpire. Fu il giovanissimo Tesei che a quel tempo già parlava di siluri umani. Ma usciti dall’Accademia furono costretti ad abbandonare l’idea perché tutti e due impegnatissimi nei loro incarichi, Tesei come Ufficiale e poi Direttore di Macchina dei sommergibili, Toschi , a terra, nell’arsenale di La Spezia. Ma nelle ore libere si incontravano e così, tassello su tassello, completarono il loro progetto, dal quale sarebbe uscito il maiale, un siluro a lenta corsa che avrebbe fatto la fortuna e la gloria dei nostri assaltatori nella seconda guerra mondiale, prima ad Alessandria , poi a Gibilterra.
Ma perché furono chiamati “ maiali”? Il tutto risaliva ad una battuta del suo inventore, Teseo Tesei, che faceva parte del nucleo dei primi assaltatori, unitamente a Birindelli, Durand De La Penne, Bertozzi, Stefanini e il capitano medico Bruno Falcomatà. Tesei , - che si sarebbe immolato a Malta appena cinque mesi prima – aveva detto al suo secondo, durante un esercitazione: “Adesso lega qui quel maiale”, alludendo al siluro biposto sul quale erano giunti davanti a una ostruzione. Se ne riparlò a mensa e l’espressione “maiale” piacque , forse perché il siluro era difficile da condurre e da tenere buono, come un maiale al guinzaglio. Così i SLC ( siluri a lenta corsa)passarono alla storia come maiali.
Emilio Bianchi, eroe di modestia.
Prima di morire , il Capo palombaro Bianchi , anch’egli medaglia d’oro al valor militare quale “ eroico combattente , fedele collaboratore del suo ufficiale , dopo averne condivisi i rischi di un tenace, pericoloso addestramento , lo seguiva nelle più ardite imprese e , animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d’assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie , con un’azione in cui concezione operativa ed operazione pratica si armonizzavano splendidamente , col freddo coraggio e con l’abnegazione degli uomini” , fu intervistato da Andrea Piccinotti, che lo definì un “grande eroe di modestia” , come pochi altri eroi riuscirono ad esserlo. E a proposito di Teseo Tesei, che lui aveva conosciuto bene , disse. “Non era solo un genio e un eroe vero, che sacrificano la propria vita per amore della Patria. Era anche uno che le cose le sapeva vedere alla lunga. Le dico solo questo: il 10 giugno del 1940 appena finito di ascoltare l'annuncio della guerra alla radio , il capitano Tesei aveva detto: "Ora la marina italiana deve subito eliminare Malta, costi quel che costi". Lui aveva capito subito l’importanza di Malta, mentre i nostri grandi ammiragli non sene preoccuparono affatto! Effettivamente Malta ci costò tantissimo, basti pensare a tutte le navi mercantili che affondarono in rotta per la Libia, carichi di materiali, mentre i nostri poveri soldati in Africa non avevamo nemmeno le munizioni. Ad un certo punto l'isola era proprio estenuata e si sarebbe potuto anche prenderla con pochi rischi, ma non siamo mai arrivati a tanto ... eh , che vuole, la cosa si poteva fare abbastanza comodamente , ma non era mica compito nostro!”.
Il suo attaccamento alla Marina , alla bella età di ottantasette anni – dice Picciotti - era ancora puro, immacolato, intatto. Bianchi aveva l’energia mentale e l’entusiasmo di un ragazzo e parlò un po’ di tutto , del suo comandante Durand De La Penne, dell’addestramento durissimo al quale erano sottoposti tutti i giorni, anche in pieno inverno quando si calavano in acqua verso le nove di sera e scendevano fino a quindici metri di profondità , e vi rimanevano per tutta la notte ad effettuare vari esercizi , e immersioni sui maiali. “ Eravamo come ciechi e quindi dovevamo sapere esattamente cosa fare , dovevamo essere molto affiatati con il compagno, dovevamo compiere gli stessi movimenti, gli stessi gesti, gli stessi spostamenti, una fatica fisica e nervosa davvero improba , estenuante, che solo il nostro entusiasmo , l’amore e lo spirito di corpo, ci faceva superare” Inoltre dovevano superare gli sbarramenti , con l’ausilio di martinetti idraulici o delle cesoie pneumatiche. Infine fissare la carica esplosiva alla nave "nemica" . Ma l'esercitazione non finiva lì, perchè, “per motivi di segretezza, dovevamo ritornare indietro e simulare la nostra fuga dalla base. Insomma per un’esercitazione si correvano gli stessi rischi , se non addirittura maggiori , che avevamo corso per una missione reale tipo “Alessandria”.
“Ma il rischio maggiore , - racconta Bianchi , - non fu quello di Alessandria, bensì quello che abbiamo corso a Gibilterra il 29 ottobre 1940, quando avvenne all'improvviso un'esplosione internamente al nostro maiale (dovuta a miscela esplosiva di gas che si era formata nel compartimento batterie) . Mi esplose proprio sotto il sedere , per fortuna , e così potei bloccare il motore e le eliche provocando l'affondamento del mezzo. Invece De La Penne , visto l’impossibilità di governare il mezzo, aveva subito abbandonato il maiale e quando tornai a galla e gli raccontai la cosa, il mio comandante mi disse: “Belin, che culo, Bianchi!”. E mai espressioni fu più azzeccata. Ci vollero 2 ore e mezza di nuoto di notte in acque fredde e infestate da navi nemiche per raggiungere la costa spagnola dove dei nostri agenti ci riportarono poi in Italia.

L’impresa di Alessandria
L’operazione fu denominata G.A.3 e fu compiuta nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941. Il suo obiettivo era di sferrara un colpo mortale alla Mediterranean Fleet inglese , vendicando nel contempo la grave sconfitta di Taranto. Si trattava di far entrare nella grande base egiziana tre apparecchi d’assalto tipo SLC , ossia i famosi “maiali”, per attaccare le corazzate Queen Elizabeth e Valiant . La composizione degli equipaggi era formata da:
1)TV Luigi Durand de La Penne e Capo palombaro Emilio Bianchi;
2) Capitano AN Vincenzo Martellotta e capo palombaro Vincenzo Marino;
3) Capitano GN Antonio Marceglia e palombaro Spartaco Schergat.

I maiali vennero imbarcati a La Spezia sul sommergibile Scirè, comandato dal Capitano di Corvetta Junio Valerio Borghese, il 3 dicemnbre. Giunsero a Lero il 9 dove presero a bordo gli operatori giunti nell’isola in aereo. Ripartirono il 17 e alle ore 20 del 18 dicembre il sommergibile si fermò un paio di chilometri da Alessandria. Alle ore 21 furono calati in acqua i tre maiali e l’operazione prese il via.Quello di De La Penne navigava al centro, fra quelli di Martellotta e Marceglia, rispettivamente sul fianco destro e sinistro. Dopo circa un’ora , venuti in emersione, gli uomini videro il palazzo reale di RAS-EL TIN. Controllati gli orologi s’accorsero di essere in anticipo sulla tabella di marcia e ne approfittarono per mangiare qualcosa. Poi ripresero, passarono tutti e tre facilmente la prima ostruzione per una fortunata circostanza : tre caccia inglesi stavano entrando e la porta dello sbarramento fu aperta.
De La Penne e Bianchi avvistarono la “loro” corazzata verso le ore 2 di notte. Era protetta da un’ostruzione non prevista che la racchiudeva come dentro un recinto. Si trattava dello sbarramento retale contro i siluri degli aerei. Provarono a sollevare la rete sul fondo per passarci sotto, ma non cedeva. Allora emersero e passarono arditamente in superficie. De La Penne era infreddolito anche perché il suo costume gommato lasciava passare gocce d’acqua . Nella susseguente immersione , a causa delle mani intirizzite , egli non riuscì a manovrare i comandi , e il maiale , dopo aver urtato qualcosa , cadde sul fondale . Ormai erano quasi sotto la corazzata non distavano che trenta metri. “Purtroppo un cavo d’acciaio s’era impigliato nell’elica dell’apparecchio e questo – dirà De La Penne nel suo rapporto - , piantato sui fondi argillosi, non si muoveva più. Bianchi, esaurito il respiratore, era stato colto da uno svenimento e aveva dovuto abbandonare il pilota“ (Bianchi, il “secondo uomo” era soggetto a tali guai navigando “appioppato” e quindi sempre in immersione) De La Penne riuscì comunque a trascinare il maiale sotto la chiglia della nave dopo quaranta minuti di sforzi davvero sovrumani. Non importava fissare la nave perché la carena col forte pescaggio della corazzata era di appena cinque metri più alta del fondale. Il pilota regolò la spoletta, riemerse, si dette a nuotare lungo lo scafo.
De La Penne:“Da bordo mi illuminano con i proiettori e mi tirano una scarica di mitragliatore. Vado allora sottobordo e mi dirigo verso la boa di prua della corazzata e lì trovo Bianchi. Gli dico che tutto è a posto e che le spolette sono in moto. Intanto da bordo di prendono in giro, credono che la nostra missione sia fallita”.
Bianchi: “I marinai inglesi che ci videro per primi ci schernirono pensando che avevamo fallito, ma appena gli alti ufficiali capirono la situazione ci fecero spogliare e fummo portati a terra , a Ras-El-Tin , dove vi erano due ufficiali che parlavano l'italiano meglio di noi e fummo interrogati uno alla volta; gli ufficiali inglesi ci minacciarono più volte di farci fucilare perchè secondo loro non eravamo militari e ci facevano notare una pistola che si trovava sul tavolo, ma noi sapevamo che questo era solo un modo per spaventarci e per farci parlare e non aprimmo bocca.

De La Penne: “Sono le tre e mezzo e veniamo portati a bordo, sul quadrato. Viene un ufficiale e mi dice che non abbiamo avuto fortuna. Sono circa le 4 , il comandante della nave mi chiede dove ho messo la carica. Mi rifiuto di rispondere. …Mi fanno scendere con Bianchi e la scorta. Chiedo dove siamo , mi dicono che siamo sotto le torri di prua , ritengo che la carica sia proprio sotto di noi. Gli uomini di scorta sono pallidi e gentili. Mi danno del rum e mi offrono sigarette”.
Bianchi: “Fummo chiusi in una cala della nave sotto la linea di galleggiamento nella speranza che noi rivelassimo dove si trovava la bomba; sapevamo che di li poco la carica sarebbe scoppiata e aspettammo in ansia l'esplosione”.
De La Penne:“Quando mancano dieci minuti all’esplosione chiedo di parlare con il comandante. Gli dico che fra pochi minuti la nave salterà, che non c’è più niente da fare e che se voleva poteva mettere in salvo l’equipaggio. Il Comandante mi chiede ancora dove ho messo la carica e siccome non risponde mi fa accompagnare di nuovo nella mia cala. Sento gli altoparlanti che danno l’ordine di sgomberare la nave. Rinchiuso al buio nella cala dico a Bianchi che è andata male, che per noi è finita, ma che possiamo essere soddisfatti per la missione compiuta. Bianchi però non risponde e mi accorgo d’improvviso che non c’è più”.

Bianchi: “Io veramente ero là e alle 6,15 , quando, puntualissima, la carica esplose. Fu veramente un gran colpo che scosse tutta la nave e la lasciò al buio, col fumo che inondava tutto il compartimento. Vidi De La Penne che tentava di passare da un oblò, ma poi si accorse che il portello della cala si era aperto, scardinato dall’esplosione”.
De La Penne: "Dopo l’esplosione la nave ebbe una fortissima scossa, il locale è invaso dal fumo. Non ho nessuna ferita. La nave sbanda sulla sinistra, salgo la scaletta e, trovato il portello aperto, vado verso poppa. Sono solo. Vedo un orologio che segna le sei e un quarto. Raggiungo la poppa dove sono molti ufficiali e mi metto a guardare la corazzata “Queen Elizabeth” che è a circa cinquecento metri. Passano pochi secondi e anche questa corazzata salta. Si solleva sull’acqua e dal fumaiolo escono pezzi di ferro, altri oggetti e nafta che arriva in coperta da noi e sporca tutti quanti… Dopo un quarto d’ora ritrovo Bianchi. Ci conducono a terra, nel campo di concentramento di Allessandria, dove troviamo alcuni ufficiali italiani che hanno udito le esplosioni. Alcuni infermieri italiani si congratulano e mi offrono un’ottima pastasciutta.

Bianchi: “Poco dopo vennero a prenderci e ci fecero sbarcare, e io notai con mia grande felicità che la nave stava iniziando a sbandare. Vorrei far notare che le due navi da battaglia non furono affondate ma solo messe fuori combattimento per via del basso fondale che c'è nei porti. Dopo l'attacco siamo stati portati in Palestina per 8 mesi in una zona chiamata Latrum, poi quando ci fu l'avanzata di El-alamein nel timore che i tedeschi arrivassero nel canale di Suez i tre ufficiali prigionieri (De La Penne, Marceglia e Martellotta, furono mandati in India, mentre noi , Marino, Schergat ed io, fummo portati in Sud Africa , nel Transwall”.

Marceglia e Schergat
Erano due istriani, Marceglia e Schergat ed erano arrivati verso le tre sul punto dell’operazione decisiva. La Queen Elizabeth era di fronte a loro e giganteggiava sulle acque. Marceglia non conosceva Alessandria, ma aveva studiato bene le cartine e le fotografie della ricognizione aerea, e gli fu facile trovare la rotta giusta. Ma ora si trovava di fronte uno sbarramento retale parasiluri che lo metteva un po’ a disagio. Temeva che a toccare la rete esplodessero bombe e congegni di allarme. Ma riflettendoci con freddezza pensò che doveva ben esserci un varco di entrata per i motoscafi. Lo individuò, infatti, e ci passò, portandosi sulla destra della nave. Ora si trovava proprio a ridosso del bersaglio. Il maiale si immerse, toccò fondo a tredici metri. Il rumore delle centrale elettrica della corazzata aiutò il pilota a portarsi nel punto voluto, sotto la chiglia della nave. Un aletta di rollio fu trovata in breve e lì fu fissato il morsetto con la cima. Più laborioso fu portare la corda all’altra aletta, ma Schergat vi si adoperò e dopo un paio di manovre incerte vi riuscì. Poi accusò un forte malessere per la lunga respirazione in ossigeno. Così Marceglia terminò il lavoro applicando la carica esplosiva. L’orologio segnava le 3.25, il maiale funzionava ancora benissimo e riportò i due uomini in emersione. Ma il ribollire dell’aria scaricata per la manovra richiamò l’attenzione di qualcuno a bordo. Lo specchio d’acqua fu frugato da un riflettore e fu un miracolo che non li vedessero. Si immersero di nuovo, finchè il fascio di luce non si allontanò. Ritornarono a galla quando ormai i sospetti di bordo erano stornati. Navigarono a ritroso sulla rotta di andata e passarono presso la Valiant, dove c’era un gran movimento. “I nostri compagni – disse Marceglia – hanno dei guai”. E sembravano avercela fatta, ormai. Infatti, affondarono il maiale in acque profonde, e raggiunsero agevolmente la spiaggetta a nuoto, si tolsero le tute di gomma sotto una barca tirata a secco, rimboccarono all’interno le maniche e il colletto della divisa da lavoro e tirarono un lungo respiro di sollievo. Erano le 4.30 del 19 dicembre e presto, forse, sarebbero tornati in Italia, col sommergibile Zaffiro, che si trovava a quindici miglia nord dalla foce del Nilo. Presero la strada asfaltata e furono fermati dalla sentinelle sudanesi ed egiziane, ma superarono l’ostacolo dando ad intendere che erano marinai francesi. Riuscirono ad arrivare alla stazione di Alessandria, prendere il treno e arrivare a La Rosetta, la località più prossima all’appuntamento con lo Zafiro.Ma ebbero problemi di cambiavalute , avevano solo sterline in tasca , che non avevano più corso in Egitto. Inoltre non sapevano a chi rivolgersi, non avevano documenti, erano privi di qualsivoglia appoggio o indirizzo e fu per questo difetto di organizzazione che il giorno dopo, il 20 dicembre 1941, finirono nelle mani della polizia.
Martellotta e Marino
Il terzo equipaggio composto da due pugliesi , il Capitano AN Vincenzo Martellotta, e il 2°Capo Palombaro Mario Marino, superò anch’esso le difficoltà e lavorò con maestria adempiendo la missione dell’affonda- mento della petroliera “Sagoma”. Martellotta, un tarantino tutto fuoco, non sapeva darsi pace per non aver avuto un bersaglio più ambizioso. Girò mezzo porto col suo maiale, alla ricerca di una portaerei che non c’era. Le esplosioni avvennero a ritmo serrato, secondo i piani prestabiliti: alle sei in punto fu squarciata la petroliera (7750 tonnellate) e fu colpito insieme il cacciatorpediniere Jarvis (1690 tonn.), che le era affiancato; alle 6.15 la corazzata Valiant (32.000 tonn.), alle 6.20 la nave ammiraglia Queen Elizabeth (32.000 tonn), la più importante anche per la risonanza della qualifica nave dell’alto comando. Uno squarcio di dodici metri per dodici fu il risultato della perfetta applicazione della carica esplosiva alle alette di rollio. L’ammiraglio Cunnigham fu letteralmente sbalzato a mezzaria dall’esplosione, come tutti gli altri che si trovavano a bordo.
Sir Andrew Cunningahm, Comandante in Capo della Flotta Inglese, Primo Lord del Mare e Capo dello Staff Navale, un dublinese ostinato e coraggioso, ma pieno di humor, passò un brutto momento e temette per la sua vita. Alla fine, riavutosi dalla choc, in quadrato Ufficiali, sorseggiando un bourbon, chiese al comandante della Queen Elizabeth quanti erano gli italiani che avevano causato quello sconquasso, due corazzate fuori uso chissà per quanto tempo, un cacciatorpediniere e una petroliera affondate. Gli dissero che erano in sei, e tutti erano stati catturati. Gli ultimi due erano in treno e tentavano di raggiungere “La Rosetta”.
“Sei soltanto?, chiese pieno di stupore e ammirazione “Yes, sir. Six.”
“Ci è andata bene, allora. Pensate che cosa avrebbero fatto dodici uomini?”. Poi aggiunse: “Un soldato non può non ammirare il sangue freddo di questi italiani: ogni cosa è stata progettata, pensata, eseguita con la massima precisione e determinazione”.

E con ciò il Grande Ammiraglio britannico restituiva tutto l’onore, il coraggio e l’eroismo agli italiani, a quei sei uomini, sei medaglie d’oro, che avevano messo fuori combattimento più di settantamila tonnellate di naviglio nemico. Una cosa inaudita. La flotta inglese del Mediterraneo, con la perdita delle due ultime corazzate efficienti, era in una situazione estremamente critica.
Churcill in persona annunciò molti mesi dopo (il 23 aprile 1942) alla Camera dei Comuni il “ disastro di Alessandria” in termini drammatici e gli inglesi ebbero espressioni di ammirazione per la memorabile impresa. Il Sunday Express dopo l’avvento di pace, scrisse: “Nella notte del 19 dicembre 1941, sei uomini cambiarono il volto di una guerra… In quella notte il potere navale del Mediterraneo Orientale era stato invertito in senso sfavorevole agli alleati. Si dubita che nella storia navale del mondo sei soli uomini siano riusciti a compiere una distruzione così decisiva”.
Ma l’Italia (leggi, i nostri capi), more solito, non seppero approfittarne, forse neanche se ne accorse del mutato scenario, per carenza di una adeguato servizio di informazioni, poiché dalle foto della ricognizione aerea sembrava che il danno fosse del tutto trascurabile. Le navi poggiavano sul fondo e sembravano efficienti. In realtà rimasero ferme per svariati mesi ( 9 mesi la Valiant, più di un anno la Queen Elizabeth).
E dei sei uomini che fecero la leggenda man mano ne rimase solo uno, Durand de La Penne.
Poi, con la sua scomparsa, nessuno.
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