17 marzo 2007

La forma
dello sguardo
di A. di Biase

Nell’anno del ventennale, il Museo Cantonale d’Arte di Lugano ha inaugurato in questi giorni la stagione espositiva con una mostra fotografica su quella che viene definita “l’identità dell’immagine”, intitolata “La forma dello sguardo”, del produttore cinematografico e fotografo ticinese Luciano Rigolini.
L’artista di Tesserete si autodefinisce un collezionista di immagini ed è questo forse il tema centrale dell’esposizione. L’immagine – Rigolini lo ha sottolineato con enfasi nella sua presentazione-, non è il soggetto, ragione per cui non esiste l’immagine cruda in sé, ma solo la relazione tra il reale e chi coglie il reale.
Molto interessanti sono a questo proposito i 70 fotogrammi “rubati” raccolti nell’opera “Esercizio di stile”, che di Rigolini ha la composizione, il filo estetico e quello che potrebbe essere definito lo “scatto collettivo”, ma non la mano del fotografo. Non sono immagini sue, ma le ha trovate nella prediletta attività di collezionista e le ha reinterpretate, fatte proprie e costellate in un percorso chiuso. Il catalogo, edito da Mendrisio Academy Press, fa notare come dietro l’apparente banalità di questi fotogrammi, in parte scaricati da Internet e senza alcun valore artistico alla fonte, si celano gli archetipi del linguaggio modernista, come il “reticolo”, che è un tema ricorrente anche negli scatti di gusto pittorico che sono caratteristici della prima esperienza fotografica dell’artista ticinese, negli anni Novanta. Se, in altre parole, per Rigolini la lettura dell’immagine fotografica altro non è se non lo sviluppo di una propria sensibilità attraverso lo sguardo di un altro allora, ed è questa la provocazione, non è necessario che la foto sia propria.
Noi viviamo – insiste il protagonista della mostra che è stata realizzata con il contributo dello stato svizzero –, in un’epoca nella quale i sistemi digitali hanno ampiamente preso il largo per realizzare un prodotto facile, veloce ed economico, ma in questo modo si è completamente persa la percezione della stretta relazione esistente tra lo sguardo e la realtà, che non è mai oggettiva e richiede dunque una continua interpretazione. Non ci sono - ricorda il cineasta Kowalski nel catalogo, film autenticamente “su” un argomento, bensì ogni film, più ancora se muto o in lingua originale potremmo aggiungere noi, è l’autobiografia di chi lo guarda. Il tema, il soggetto, non sono altro che strumenti, utensili al servizio dello sguardo.
Le immagini al piano inferiore del museo sembrano fare come da preludio al passo successivo, ad un ulteriore salto di qualità che ha portato Rigolini all’esplorazione del micro e del macrocosmo. Ai piani alti si trovano infatti le rielaborazioni di immagini di minerali al microscopio, ma anche geometrie tratte da immagini di materiale biologico, lungi dall’essere state realizzate per finalità artistiche. Molto scenica anche la stampa in grande formato del pianeta Urano e dei suoi anelli, rielaborazioni nientemeno che di immagini NASA, in occasione del passaggio nella sonda Voyager 2 nel 1982. Di scientifico, naturalmente, non c’è assolutamente nulla, ma solo l’immagine nuda, che richiede il filtro dello sguardo e dell’esperienza. Suona quasi come una ulteriore provocazione il fatto che proprio queste ultime siano rielaborazioni al digitale, ma Rigolini non batte ciglio perchè, sembra suggerire, non si tratta di una pretesa di soggettivizzare l’immagine, non è un digitale comodo, è semplicemente la tecnica più adatta per quel tipo di arte.
Una sala intera è dedicata a “Scrittura di luce”, una sequenza di fasi lunari stampata con la tecnica dei pigmenti puri di carbone. Curiosi poi gli strumenti didattici messi a disposizione per spiegare la “stereografia” – una sala è dedicata a quest’ultima, ed i meccanismi attraverso i quali l’occhio ed il cervello umano ricostruiscono l’immagine impressa sulle retine.
Più di tutto a proposito del catalogo è piaciuto il saggio di Jean Perret, “Le cinéma du réel”, citato anche dal direttore del museo Marco Franciolli, dove si parla del rapporto dell’uomo con l’immagine e col vero e dove si scrive fra l’altro: “Esiste, nel profondo di ogni adulto, un bambino che dorme, ed è anche a lui che si rivolgono quei film a cui Luciano Rigolini tiene tanto. Questo bambino ha un bisogno vitale di credere che è vero. Vere le soggettività dei cineasti, le scritture, le scelte estetiche e narrative, i visi e i paesaggi che disegnano le immagini, veri anche quei momenti forti e particolari che si celano in ogni film come pietre preziose”.
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