13 novembre 2006

Il socialismo scientifico fra teoria e prassi

di Eros Barone (tratto dalla rubrica "Con rispetto parlando" de "La Prealpina" del 12 novembre 2006)

Se il socialismo scientifico segnò una svolta di portata decisiva nella storia del movimento operaio internazionale, scoprendo l'"algebra della rivoluzione", non v'è dubbio che le tesi del terzo congresso del Partito Comunista d'Italia, tenutosi in condizioni di illegalità a Lione tra il 20 e il 26 gennaio 1926, rappresentino la più avanzata e matura formulazione, attraverso un organico sistema di equazioni, del problema della rivoluzione socialista nella storia del movimento operaio italiano. Laddove vale la pena di precisare che la denominazione di Partito Comunista d'Italia non è affatto equivalente a quella di Partito Comunista Italiano, giacché indica non un partito nazionale, ma una sezione nazionale di un partito mondiale. Sicché, a chiunque domandi quali siano i testi con cui è possibile formarsi un'idea esatta della tradizione comunista, proletaria e internazionalista che si è sviluppata nel nostro paese sarà da consigliare, in primo luogo, la lettura di questo scritto fondamentale, che segnò la vera nascita teorico-politica del PCd'I sia come attiva sezione dell'Internazionale Comunista sia come fattore operante della dinamica nazionale, attraverso la rottura con l'estremismo settario di Amadeo Bordiga, che fu, tra il 1921 e il 1924, il primo segretario del PCd'I.


Di fronte ad errori antitetici, che hanno prodotto - e possono ancora produrre - conseguenze parimenti negative nell'azione del movimento di classe, come l'affermazione unilaterale del primato della teoria rispetto alla pratica o la separazione antidialettica fra l'una e l'altra o, ancora, l'interpretazione strumentalistica di chi teorizza il ruolo ancillare della teoria rispetto alla pratica, degradando la prima a ideologia di legittimazione dello "stato di cose presente", di fronte a questo insieme di deviazioni le Tesi di Lione insegnano a riconoscere il punto archimedico di congiunzione fra la critica rivoluzionaria di quello "stato di cose" e l'"autocritica delle cose stesse" (per usare una pregnante espressione di Antonio Labriola), la connessione fra giudizi di fatto e giudizi di valore, cioè la via della giusta mediazione dialettica fra teoria e pratica.


A ottant'anni di distanza dalla drammatica congiuntura storica in cui furono stese, due sono le osservazioni che è opportuno formulare: la prima riguarda il valore teorico, ideologico e politico del patrimonio di elaborazione condensato nelle Tesi di Lione; la seconda riguarda la permanente validità del metodo marxista che sostiene e guida quella elaborazione.
Il giudizio che ne consegue si articola allora in una "pars construens", che offre una solida base allo sviluppo di una linea leninista capace - come furono capaci, nella loro situazione storica, i comunisti diretti da Antonio Gramsci e dalla Terza Internazionale - di indicare con chiarezza gli scopi della lotta rivoluzionaria e le vie da percorrere per giungere a realizzarli, di precisare il carattere del periodo storico e le prospettive immediate della situazione, di individuare le forze motrici della rivoluzione, sia in generale che nel proprio paese, e capace quindi con altrettanta chiarezza di porre e risolvere le questioni essenziali della strategia rivoluzionaria e i problemi della tattica e della organizzazione del movimento operaio; mentre la "pars destruens", che s'impone come un imperativo vitale per garantire la continuità della tradizione comunista nel nostro paese, consiste nella demistificazione del tentativo, oggi condotto, conformemente ai moduli del revisionismo liberaldemocratico, non più in chiave formalmente "continuista" (come accadde sotto la direzione politico-ideologica di Palmiro Togliatti), bensì in chiave apertamente "discontinuista", di togliere qualsiasi valore attuale alle elaborazioni di quel periodo, per confinarle in una dimensione del tipo "c'era una volta... il PCd'I", e ridurle, nel migliore dei casi, ad un tema di ricerca storica disinteressata, avulsa dai problemi della lotta di classe contemporanea, o, nel caso peggiore, ad un oggetto di "pietas" antiquaria, materiale di archivio per esercitazioni erudite.


Giova, invece, riaffermare, oltre che il valore teorico di questi incunaboli del pensiero comunista italiano, il significato attuale che essi rivestono come preziose armi della critica forgiate nel corso di una lotta aspra e di lunga durata e come prodotto delle esperienze nazionali ed internazionali attraverso cui il nuovo gruppo dirigente del PCd'I pervenne, nel fuoco della lotta contro la dittatura fascista, ad operare la "traduzione del leninismo in lingua italiana" e a superare una linea settaria e schematica. Malgrado insufficienze e limiti derivanti da carenze nell'analisi economica e nell'appropriazione di alcune categorie centrali della dottrina leniniana, le Tesi di Lione sono un testo-chiave della letteratura comunista, in cui acute intuizioni si intrecciano a indagini approfondite sul piano storico, sociale e politico, fornendo la base empirica di corrette previsioni scientifiche (come quella sulla subordinazione dell'Italia all'imperialismo tedesco, che sarà puntualmente confermata nel corso della seconda guerra mondiale).


Esse costituirono pertanto, nella teoria e nella pratica del PCd'I, un autentico salto di qualità, premessa e frutto di quel rigore intellettuale e morale che farà dei comunisti italiani, battuti ma non sconfitti, gli interpreti di un "ethos" affine a quello che ispirò e sostenne l'azione politica e militare di Guglielmo il Taciturno, eroe della guerra degli Ottant'Anni (la guerra per l'indipendenza che, fra il 1568 e il 1648, le Province Unite olandesi condussero contro la Spagna): 'ethos' il cui significato profondo è riassunto con due mirabili antitesi nella massima a lui attribuita: "Non occorre sperare per intraprendere e non occorre avere successo per perseverare".

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