20 settembre 2006

"La Storia" di Elsa Morante

di Augusto da San Buono

Una donna sola, una donna infelice, una donna piena di contraddizioni e di dicotomie.
Parliamo di Elsa Morante, una scrittrice, forse la più grande scrittrice italiana di tutti i tempi, che con “La Storia“, il suo libro più famoso, voleva cambiare il mondo. Non vi è riuscita, ma il romanzo rimane comunque un capolavoro della letteratura italiana. Era generosissima e avara, a seconda degli umori, appassionata e indifferente, dolce e amara, tenera e dura. In lei c'era una dolorosa gioia, e abbiamo esaurito gli ossimori. Quando la conobbi (*), circa trent’anni fa, fu proprio questo suo modo di proporsi che mi colpì: era estremamente schiva, timida e appartata, ma allo stesso tempo desiderosa di essere riconosciuta, ammirata, apprezzata per la sua grandezza di scrittrice.
Elsa Morante iniziò a scrivere “La Storia” a 60 anni, con una disfiorita bellezza che gli aveva fatto distruggere tutti gli specchi e qualsiasi superfice che potesse riflettere il suo volto, un tempo bellissimo. Ed era ormai alcolizzata e, forse, già colpita dal male che pochi anni dopo la portò alla morte. Il romanzo l'aveva pensato già molti anni prima, in una sorta di scommessa anti Mary Shelley. Cioè voleva dimostrare a quanti le rimproveravano di essere troppo favolistica e sognatrice, lieve e irreale, troppo "romantica", - il che negli anni '50-60 (epoca in cui Elsa aveva trionfato al Viareggio e allo Strega con "Menzogna e sortilegio" e "L'Isola d'Arturo") equivaleva ad un insulto, o quasi, per una letterata - di essere in grado di scrivere “anche” un romanzo impegnativo, storico, sociale, concreto, realistico che nulla avesse a che fare con l’etereo, lo sfumato, il sognante, la favola. In realtà “La Storia” non rinnega affatto la sua disposizione al sogno e al favolistico, pur toccando una materia e un ambiente popolari, raccontando la breve storia, (in un linguaggio popolare accessibile a tutti) di Useppe, figlio di una maestrina violentata da un soldato tedesco, e di numerosi altri personaggi, che si muovono sullo sfondo “storico“ e reale della seconda guerra mondiale, in una Roma affamata e sgomenta.
Come abbiamo accennato, prima di questo libro, - da molti considerato il suo capolavoro - Elsa Morante aveva avuto dei notevoli successi letterari, che l’avevano consacrata scrittrice di prima grandezza, a livello di critica letteraria, ma non le avevano dato – come ella sperava per rendersi autonoma economicamente - la ricchezza. Perciò continuò a rimanere all’ombra, tributaria e
"vassalla" del suo ormai ex marito, Moravia, allora numero uno indiscusso della narrativa italiana che la manteneva anche dal punto di vista economico, cosa che la feriva e la umiliava.
Anche per questi motivi, Elsa decise di dedicarsi, per un lungo periodo, quasi esclusivamente alla poesia pubblicando due silloge, “Alibi” e “Il mondo salvato dai ragazzini”, che non suscitarono nessun particolare interesse.
Invece come narratrice i suoi romanzi continuavano a raccogliere consensi anche a livello internazionale e ci fu chi come Lukacs, filosofo marxista e critico letterario ungherese, non esitò a definirla la più grande scrittrice contemporanea italiana. Ma - sempre secondo Luckacs - “bisognava saperla leggere e capire, perchè il suo fascino più sottile si trova in un equilibrio lieve e stupefatto fra il candore magico, evocativo, di una memoria spontaneamente portata a condesarsi in simboli e una sinuosa, febbrile capacità di penetrazione psicologica".
Ma oltre a questo lusinghiero parere, ci furono altre attestazioni di scrittori francesi e tedeschi, che indussero Elsa Morante a cimentarsi in quella che fu la sua opera più ponderosa e importante,
"La Storia", appunto, che le costò quattro anni di dura fatica e ricerche, e suscitò, non appena pubblicato, un'eco vastissima, con pareri non unanimi. Ci furono infatti furori e vampe contro Elsa da parte degli storici, “i puristi”, in particolare, che non le perdonavano il fatto di narrare la storia con un linguaggio popolare. Lei aveva osato "abbassare" la storia al livello più infimo e populista. In effetti la Morante aveva fatto del suo romanzo-fiume il suo messaggio testamentario ideologico e politico, inserendolo in una dimensione storico-realistica, ma usando un plurilinguismo assolutamente nuovo e un quasi "prosimetro" per raccontare modi di dire e detti proverbiali, in uno la breve e favolosa storia di un bambino innocente nato da uno stupro, sullo sfondo della seconda guerra mondiale in una città eterna molto poco fascinosa, affamata, laida e stracciona.
Una sorta di apocalissi minimale.
Io credo che quello che maggiormente colpisca il lettore è lo stile della Morante, che è immediato, discorsivo, vivo, fatto apposta per il dialogo, frutto di un intenso lavoro a tavolino, in cui dispiega tutta la glottologia di cui ella disponeva per l'uso dei vari dialetti che inserisce, con molta sapienza, nel romanzo. "La storia siamo noi", aveva detto Elsa Morante, ben prima di De Gregori. A quel tempo era frustratissima, arrabbiata, ce l'aveva con tutti, perchè era conscia del suo grande valore di scrittrice e di donna. Elsa scrisse la storia perchè era infelice e voleva dimostrare, prima del finire tragico della sua vita (morì poverissima e pazza in una casa di riposo per anziani) che Lei - donna, e donna fino in fondo - non era inferiore al mondo maschilista in cui era vissuta quasi come transfuga. Si scagliò, in un'intervista, contro questo mondo violento e ipocrita, capeggiato dal suo ormai odiatissimo ex marito, Moravia, che era - disse - "un impotente e un coglione". Elsa in fondo fece tesoro di quanto Lukacs Le aveva suggerito in una lettera: “scrivi per il popolo e il popolo ti capirà”.

* Ho avuto il privilegio di conoscere Elsa Morante per motivi che nulla hanno a che fare con la letteratura e allora non avrei mai immaginato di scrivere un saggio su di lei. Fu un incontro breve, ma intenso, risalente agli inizi degli anni ’70. Elsa era ospite del ministro della Marina Mercantile, On. Pieraccini, che amava circondarsi di artisti, attrici e letterati (ricordo tra i molti la Vitti e Antonioni) e mi fu presentata in una domenica romana di fine settembre. Io ero un giovane ufficiale di Marina che aveva poco più di vent’anni, lei sessanta, ma si comportò come una fanciulla di sedici anni. Era emozionata, timidissima e...voleva piacermi. Mi parlò di navi e di mare, io di letteratura. Ma appena accennai all'Isola di Arturo, il suo romanzo allora più famoso, l’unico che conoscessi, interruppe la conversazione contrariata. Fu, ripeto, un' apparizione fugace perchè pochi minuti dopo - tre o cinque? - ridiscesi l'appartamento del Ministro e non la rividi mai più. E tuttavia quell'immagine di una bellezza disfiorita, quelle labbra sottili, quel suo modo nervoso di parlare, o portare la sigaretta alle labbra, come una giovinetta che vuol mascherare l'impaccio, la noia, il fastidio, quella sua infantile e plateale tristezza e scontentezza di tutto, i suoi occhi fondi, soprattutto, mi rimasero nel cuore per sempre, come sempre mi capita quando incontro un vero poeta (a lei non piaceva essere chiamata poetessa, era un altro dei suoi complessi di inferiorità).

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