14 luglio 2006

Il giorno della civetta ed il generale Dalla Chiesa

di Augusto da San Buono

Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa era convinto che il capitano dei carabinieri del Giorno della civetta, a cui si era ispirato Sciascia, fosse lui, e questa identificazione con l’eroe (se pur sconfitto) del romanzo è una dimostrazione - scriverà lo scrittore siciliano sul Corriere della Sera, dopo la morte del generale - di quel che pensava di sé e della mafia. Ovvero che Dalla Chiesa era un ufficiale di vecchio stampo, onesto, leale, coraggioso, con grande dirittura morale e passione per il suo lavoro, ma aveva i suoi limiti e commise molti errori di suggestione “letteraria”, come quello di credere che la mafia non l’avrebbe toccato, per un malinteso senso del rispetto. Un po’ come era accaduto al capitano Bellodi del giorno della civetta. Ma attenzione - avverte La Capria -, i personaggi di Sciascia non sono reali, sono idee inserite in schemi narrativi. Quei personaggi, quegli schemi teorici in giacca e cravatta, in realtà sono l'Italia. Sciascia è giunto a una perfetta rappresentazione della nullità italiana, del non - essere italiano, dello schematismo che ha ridotto lo spessore di una collettività alla consistenza della carta velina. Invece, il superprefetto Dalla Chiesa dimostrò di non aver capito né Sciascia , né la mafia, che nel frattempo era assai cambiata rispetto a quella che aveva conosciuto lui da giovane capitano dei carabinieri?. Insomma, egli fu, in qualche modo, preda delle suggestioni di quel luogo teatrale per eccellenza che è la nostra mente, dove si gioca tutto il dramma tra luce e ombra, una luce così accecante da indurre, secondo un’antica metafora del pensiero greco, a uno “sguardo nel buio”, come quello della civetta. Dalla Chiesa, per rimanere in tema di metafore mutuate dal misterioso titolo del libro, era un vecchio e fiero guerriero che non fu neppure sfiorato dalla tentazione di dire no all’appello del duca di Somerset nell’Enrico VI di Shakespeare, ossia di abbandonare la lotta contro la mafia con la speranza di sconfiggerla, tentazione che ebbe, invece, il capitano Bellodi, una volta ritornato nella sua dolce e tenera nevosa incantata Parma, anche se poi, proprio nel finale del romanzo, dirà a se stesso che sarebbe tornato, a lottare, in Sicilia: “Mi ci romperò la testa”. Ma tutto rimane ipotetico. Mentre il Generale Dalla Chiesa volle, fortissimamente, tornare in Sicilia per rompere le corna alla mafia. Nonostante fosse ormai un pensionato, si sentiva rivitalizzato, rigenerato, ringiovanito, soprattutto dopo il matrimonio con la giovanissima Emanuela Setti Carraro, e non se ne sarebbe certamente tornato a casa, rincantucciato nel proprio letto, al buio, senza mostrarsi alla luce del giorno per essere oggetto di scherno e di meraviglia, come accade alla civetta quando si mostra fuori ora?. Forse fu proprio questo eccesso di sfida, faccia a faccia, alla John Waine, che mescolava estremo coraggio, sprezzo del pericolo, ma anche un pizzico di vanità e presunzione, a perderlo. Fu il banale errore che nessun comune prefetto avrebbe commesso - di non aver stabilito un sistema di vigilanza e protezione intorno alla sua persona, che affrettò il suo “giorno della civetta”, ossia l’ombra, la notte, la tenebra profonda e totale, la morte per agguato mafioso nella sera del 3 settembre 1982, ventiquattro anni fa. Per Dalla Chiesa e la giovanissima moglie Emanuela si sciolse il grande lamento funebre del popolo italiano, era la morte di Ettore, l’ingresso nella mitologia. Ma Sciascia, tirandosi dietro tutte le polemiche, disse che il generale aveva commesso grossolani errori di valutazione e - quasi a smitizzarne (o dissacrarne) il mito, - rivelò che il personaggio a cui si era ispirato nello scrivere il giorno della civetta non era lui ma un altro ufficiale dei carabinieri che aveva conosciuto una sera d’estate del 1956 , in Sicilia, il maggiore Renato Candida, che comandava il Gruppo Carabinieri di Agrigento. E dopo il primo incontro, fra i due ci fu subito una corrente di empatia – “Era un uomo simpatico, aperto, spiritoso”, disse Sciascia - e divennero grandi amici. Il maggiore Candida aveva acquisito una tale coscienza e nozione del problema della mafia che si trovò a scrivere un libro “molto interessante”, Questa mafia, (1956) che Sciascia s’adoperò di far pubblicare dal suo quasi omonimo editore di Caltanissetta, Salvatore Sciascia . E poi lo recensì sulla rivista Tempo Presente. Ma il libro non ebbe nessuna risonanza, nessuna eco. In compenso servì a far trasferire l’ufficiale dalla Sicilia alla Scuola Allievi carabinieri di Torino.
Alla morte del generale Candida, avvenuta l’11 ottobre 1988, un anno prima di quella dello scrittore siciliano, Sciascia disse che era una vergogna che nessuno avesse ricordato quest’uomo, questo eroe, che aveva avuto esatta coscienza, esatto intendimento del ruolo della mafia in un momento in cui le Istituzioni la negavano, o la rimpiangevano; per Sciascia era stato un modello, una fonte costante di ispirazione non solo per il Giorno della Civetta, ma per ogni suo racconto in cui c’è il personaggio di un investigatore (vedi ad es. il Rogas del Contesto, o il Laurana di A ciascuno il suo). La figura e gli intendimenti di Renato Candida, la sua esperienza, il suo agire, più o meno vagamente mi si sono presentati alla memoria, all’immaginazione. Per Sciascia, così permeato di forte coscienza letteraria e di eccezionale tensione civile, ma anche di “sicilianità”, quell’intesa che allora pareva impossibile, l’amicizia con questo “anomalo” carabiniere giocò un ruolo fondamentale per la creazione del suo più celebre romanzo, un bestseller che con più di un milione di copie vendute, gli diede fama ed anche denaro, grazie anche alla trasposizione cinemato grafica e a quella teatrale. Il Capitano Bellodi, figura moderna di ufficiale dei carabinieri settentrionale, simbolo della legge e degli ideali di giustizia e verità civile, ironico, dinamico, onesto, intelligente, ma soprattutto uomo, non ominicchio, quaraquaqua, o piglianculo, uomo che crede nei valori di una società democratica e moderna, contro l'immobilità d'un mondo di vecchi interessi costituiti, era lui, Renato Candida , ma l’interessato non si riconobbe affatto in questo ritratto troppo idealizzato, portatore di valori. Non è un personaggio reale, - disse. Ma in quel personaggio non credibile si riconobbe, invece, Carlo Alberto Dalla Chiesa. E fu questo il suo limite, disse Sciascia. Nobilissimo limite, ma sempre limite, perché dimostra che il generale aveva di sé e dell’avversario immagini letterarie e comunque arretrate.
Questo romanzo da sonno della ragione di richiami goyani, più che shakesperiani, questa scrittura da nero su nero, questo racconto tutto tenebra e luce, in cui come dice il boss Arena - La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità, segna l’ingresso della mafia nella letteratura italiana. Per la prima volta la mafia esce dalle paludi del rimosso e assurge a dignità letteraria, ancor prima di essere degna delle cronache del quarto potere. E’ un momento diviso, aspro, lacerato della narrativa di Sciascia, ma anche un momento di scrittura fortunata che celebra la triade tra la forma (il giallo), il contenuto (la mafia) e il pubblico (il lettore inteso come cittadino), che darà una precisa e specifica connotazione a tutta l’opera sciasciana, che è basata sulla ricerca della verità. A differenza di Pirandello, per Sciascia la verità esiste. Ma il sistema non consente il suo manifestarsi, a livello istituzionale. Manca la sanzione di un riconoscimento pratico. Infatti, Bellodi cerca la verità e la scopre, anzi la scopre fin troppo rapidamente per un detective di giallo classico. Ma la verità non è tanto da trovare, quanto da provare. Pur avendola raggiunta, Bellodi non conclude. Il lettore è convinto, ma non il giudice istruttore, e l’inchiesta dell’ufficiale dei carabinieri si disfa. E’ lo scacco matto del giallo, il lettore si trova spiazzato, si trova di fronte ad un testo ambiguo, che richiede di essere decifrato su altri versanti. Il giorno della civetta, infatti, con il suo titolo misterioso , non allude solo a quella spietata lotta per il potere e a quella corruzione che rendono la Sicilia della mafia molto simile all'Inghilterra dell'Enrico VI, ma anche al contrasto tra la luce della ragione (il "giorno") e l'ombra del delitto e della morte (la "civetta"). In quest'opera la tensione tra fiducia nella ragione e constatazione della sua continua sconfitta si fa più dolente. E tuttavia, non resta altro che credere, - seppur disperatamente, - nella ragione, e nella scrittura, dove avviene secondo Sciascia - una sorta di transustanziazione . I fatti da relativi, - e spesso consegnati alle menzogne del potere, -diventano, grazie alla scrittura, quali veramente sono, e cioè assoluti, nella luce di quella verità, la cui unica forma possibile è quella dell’arte. La letteratura è così chiamata a mettere ordine nel caos dell’esistenza, quel primato di stile che subito distinse Sciascia da tutti gli altri meridionalisti impegnati nella trincea del saggio-denuncia. Che cos’è uno scrittore?, gli chiese Marcella Padovani. Da parte mia ritengo che uno scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia per sé e per gli altri il piacere di vivere, anche quando rappresenta terribili cose. Va precisato, però, che lo scrittore non è un filosofo né uno storico, ma solo qualcuno che coglie intuitivamente la verità?

2 commenti:

  1. Anonimo16:40

    Bisognerebbe far leggere a Rita Dalla Chiesa questo pacatissimo articolo. Si distrarrebe prima della sua fine. Peccato. Taranto 03.09.2012.

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  2. Ho pubblicato il suo commento, anche se sempre mi spiace vedere che chi lascia critiche non abbia anche il coraggio di mettere il proprio nome. Non bisogna avere paura delle proprie idee, solo il coraggio di difenderle.
    La persona che ha scritto questo pezzo non collabora più con noi, per questo motivo non potrà risponderle.
    la redazione

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