04 luglio 2006

Le ali vigorose del Petrarca

di A. di Biase
Petrarca era doppio o forse mezzo, che è poi lo stesso; era un lato ed era anche l’altro, incompleto, gli mancava qualcosa: forse per questo la sua vita e la sua opera furono un filo sottile, un confine, una nuova stratificazione nella cultura europea.
Prese i voti per opportunità più che per vera vocazione, nella Avignone dei papi che lo aveva visto fanciullo e studente di grammatica, dopo aver seguito il padre, il notaio Pietro di ser Parenzo, guelfo bianco esiliato da Firenze assieme all’Alighieri, e dopo averlo perso, nel 1326.
Nel ‘27 conobbe Laura de Sade, la donna che fu sua musa, ma che non ispirò solo poesia, come da lui stesso confessato a S. Agostino nell’ideale dialogo che costituisce il “Secretum”.
La doppiezza in Petrarca è una costante, eternamente diviso tra 'otium' e 'negotium': la vita ritirata dei letterati antichi da una parte, dall’altra l’esistenza frenetica del politico, del diplomatico, dell’uomo mondano, proprio quella vita che aveva ben conosciuto alla corte papale e non solo; quella che disprezzava con tutto se stesso, e che amava indissolubilmente. Voleva volare Petrarca, ma ricadeva miseramente, ogni volta, sulla nuda terra. Voleva salire, e lo faceva come poteva: fu celebre in vita, vanitoso, si considerava di bell’aspetto oltre che bravo e si adoperò per la concessione dell’alloro poetico a sé medesimo. Nelle epistole poi si fustigava, disprezzava la vanità, cercava disperatamente una sintesi per il suo pensiero, per la sua esistenza, per la sua salvezza. Se vi fosse riuscito, sarebbe forse nato con lui un nuovo sistema filosofico, ma Petrarca era doppio, mezzo, non un filosofo, non un teologo: era un poeta.
Il contrasto si acuì ancor più in età matura, sfociando in crisi spirituale negli anni Quaranta, quando perse prima Gherardo, il fratello ritiratosi in convento, poi Laura, morta di peste. Fu un trauma: Gherardo, il suo fratello minore, aveva infine trovato l’unità. Lui no, Francesco si sentiva doppio. Incompleto.
Alcune delle pagine più intense riguardo a questa dualità, si trovano nel “De vita solitaria”, un componimento latino nel quale viene esaltata la vita degli eremiti, ma che sembra più un tentativo malriuscito di sintesi, di chiusura in lettere di un qualcosa di aperto e di incompiuto nella sua esistenza.
Si veda ad esempio – dal “De vita” appunto – l’accorata e minuta, ma intensissima, illustrazione delle differenze tra la vita dell’uomo mondano e quella dell’uomo solitario:
“Il giorno è arrivato con differenti speranze atteso. Quegli ha l’abitazione invasa da amici nemici, viene salutato, chiamato, trascinato, sospinto, biasimato, diffamato. Questi ha sgombro l’ingresso, e, s’intende, ha libertà di rimanersene in casa o di andare dove vuole. Quegli si avvia triste al Foro, pieno di noie e di affanni, e trae dagli uccelli gli auspici per l’inizio del giorno imminente. Questi se ne va di buon passo nel boschetto vicino, tutto calmo e tranquillo, e inizia con gioia e con buoni auspici una giornata serena. Quegli, appena giunto ai palazzi grandiosi dei potenti o ai temuti scanni dei giudici, il vero mescolando col falso, calpesta i giusti diritti di un innocente, o alimenta l’audacia di un colpevole, o macchina senz’altro qualcosa che torna di disonore a lui o di danno agli altri; e intanto il rimorso lo assale, spesso la paura gli tronca a mezzo il discorso; spesso, riportando seco cose vere in cambio di false, sferzate in cambio di parole, pieno di rossore o di pallore, si rimprovera di non aver anteposto la fame della solitudine alla fama dell’eloquenza, di non aver preferito di essere, anziché oratore, aratore; torna a casa in fretta senza aver concluso i suoi affari e, rifugiandosi in turpi nascondigli, si sottrae alla vista dei suoi clienti non meno che dei nemici. Questi, non appena ha trovato un sedile di fiori e un’altura amena, si ferma – il sole è ormai sorto in tutto il suo splendore -; e prorompendo lieto, in atteggiamento devoto, nelle quotidiane lodi di Dio (tanto più soavi se ai devoti sospiri si accompagna un dolce mormorio di acqua corrente o i canti armoniosi degli uccelli), implora anzi tutto innocenza, freno alla lingua che non conosca contese, riparo per gli occhi contro le vanità, purezza di cuore, assenza di ogni malvagio pensiero, astinenza che vinca la carne. Dopo un po’ di tempo, recitando per la terza volta le lodi, venera la terza persona della Trinità, e invoca la venuta dello Spirito Santo, e chiede una lingua e un cuore in cui riecheggi salutare la confessione, e una carità di fuoco celeste infiammata, e capace d’infiammare chi gli è accanto. Se tutto questo chiede con devozione, lo ha già, ed è molto più felice di questa fiamma che gli arde nel cuore, che di qualsiasi splendore di oro e gemme”.
Bellissimo il pezzo – la cui versione dal latino è tratta da un’antologia curata dal Sapegno -, soprattutto la chiusura, che vuol sublimare in poesia il tormento dell’anima, dell’intera esistenza del poeta; ma quello del Petrarca è un volo, un salto alato, robusto e pesante, che sale alto e ricade. Settant’anni fra la terra e il cielo, ecco la sua vita.
Risuonano a proposito come un potente epitaffio, le parole attorno alle quali ruota e si sviluppa lo stesso “De vita”:
“Io credo che un animo nobile, all’infuori di Dio che è il nostro fine ultimo, all’infuori di se stesso e dei suoi segreti pensieri, all’infuori di qualche animo a lui da grande affinità congiunto, non possa trovare requie in luogo alcuno: che il piacere, per quanto di visco tenacissimo spalmato, per quanto pieno di lacci carezzevoli e dolci, non può tener legato per troppo tempo alla terra chi abbia ali vigorose”.

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