04 luglio 2006

"Siddharta" di H. Hesse

di A. di Biase

Siddharta è il primato dell’esperienza. Viene in mente un’espressione del genere quando si rilegge, magari dopo tanti anni e nel mezzo della vita, il più celebre dei romanzi di Hermann Hesse, lo scrittore premio Nobel per la letteratura nel 1946. Immerso nell’atmosfera dell’Oriente dei tempi del Buddha il Siddharta è però, più in generale, l’emblema dell’uomo che cerca, “der Suchende”, come ben si legge nell’introduzione all’edizione di Adelphi (euro 7.50). E’ un romanzo, ma ha la pretesa degli insegnamenti profondi, sottili, di quelli che si leggono appena da giovani e che si apprezzano meglio col tempo.
Era un predestinato Siddharta, il figlio del bramino che aveva lasciato la famiglia per vivere la vita miserabile degli asceti, dei Samana del bosco: tuttavia non solo in quel gruppo non aveva trovato ciò che cercava, ma si era addirittura convinto che nessuna dottrina, né quella dei saggi Samana né quella di nessun altro, sarebbe riuscita a dargli “la vita nuova”, la luce, il fine dell’uomo. Aveva anche incontrato il Buddha - il Sublime -, aveva visto la luce splendere nei suoi occhi, aveva lì perso il suo amico Govinda, sedotto da quella stessa dottrina ed entrato nella schiera dei seguaci di Gotama; ma lui no, non aveva ceduto: quella che aveva visto negli occhi illuminati del Maestro non era una dottrina, ma piuttosto un’esperienza, e lui questa cercava; non la conoscenza voleva, ma l’esperienza di ciò che già sapeva col pensiero.
Passa allora il Fiume il figlio del bramino, alla ricerca dell’opposto, dell’altra sua metà, ed incontra Kamala, la bella cortigiana esperta d’amore. Kamala lo istruisce: non solo gli insegna l’amore, ma gli dà anche una volontà nuova, lo fa rientrare in quell’Io dal quale il giovane Samana del bosco era sempre rifuggito. Siddartha conosce in questo modo gli affari, la ricchezza, la sfortuna, vive di fatto un’altra vita per intero.
Passano gli anni, e il figlio del bramino ha una casa lungo il fiume che scorre lento, il fiume sempre uguale che scorre e che lo chiama. “Panta rei” dicevano gli antichi: ciò che scorre rappresenta un’attrazione irresistibile per coloro che cercano il senso della propria esistenza. E Siddharta cede, si specchia nel fiume e si vede lì, immobile, immerso nel divenire liquido; cambia allora nuovamente mestiere e abbraccia l’ultima sua arte, quella del Barcaiolo, come l’eterno Caronte che traghetta le anime agli inferi: ad ogni sponda un altro mondo, un’altra vita.
Naturalmente si tratta di immagini letterarie -ci direbbe lo stesso Siddharta-, la parola è suggestiva ma l’esperienza è un'altra cosa, ed è l’esperienza quella che conta; non solo in chiave letteraria è questa “la vita nuova” che Hesse propone per il suo personaggio: vivere intensamente fino al confine della propria esistenza, dove ci si può abbandonare al Sé, a quella voce interna che sa già dove portarci perché è in comunicazione col “fuori di noi”, con l’Altro. Si tratta di un percorso che ha equivalenti simbolici in molte delle psicologie moderne, ma anche nella letteratura medievale e antica, come ad esempio negli scritti di Apuleio.
E cosa trova infine Siddharta? In una visione squisitamente orientalista si potrebbe parlare di “illuminazione”, di una vita vissuta sotto una nuova luce; c’è però per noi occidentali un significato meno suggestivo e più profondo: è difficile se non impossibile incontrare Dio solo con il pensiero. Soprattutto noi che leggiamo il giornale finiamo per dimenticarci che l’esperienza religiosa è totalizzante, che non può essere vissuta solo dalla cintola in su e che richiede adesione alla vita nella sua interezza. La gente che vive nei campi, nelle fabbriche, nelle nostre valli o sul mare, che aderisce alla propria semplice esistenza e che non razionalizza tutto, è lì a ricordarci che una vita di studio ha senso solo se è vissuta, altrimenti è tempo perso. Possiamo imparare molto, ma tutto ciò che è conosciuto senza essere vissuto è cenere, perché destinato a finire in un camposanto, forse già domani.
La “vita nuova” trovata da Siddharta è dunque quella dell’uomo che, pur nelle difficoltà, non smette di amare la vita perché comprende che l’amore è l’unico appiglio per l’uomo che cerca. Non è quel che si fa a fare la differenza, è come lo si fa, è lo spirito con cui si agisce.
Ecco, se avessimo chiesto a Sant’Agostino di descriverci una vita esemplare, probabilmente la risposta sarebbe stata sorprendente ed efficace: “Ama e fa’ ciò che vuoi”.

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