02 luglio 2006

Il Gattopardo: Lampedusa, Visconti e un mondo che si disfà

di Augusto da San Buono

Che tristezza, il finale del "Gattopardo"!
Quel cane imbalsamato gettato dalla finestra! ... E' come il sogno della vita che si disfà, cola i suoi colori e diventa un impasto scuro di materia vischiosa. Dà quasi l'idea di trovarsi di fronte al ritratto di Dorian Gray ... E' la fine di un'epoca, di un'idealità, di uno stile, ma anche la fine del sogno stesso della vita di Concetta, la primogenita del “Gattopardo”, che rimarrà inesorabilmente zitella, ma anche la fine di tutta la famiglia (di ciò che rimane) dei Salina, la fine dell’aristocrazia meno retriva, meno codina ... Al principe Salina, alias il “Gattopardo”, rimane solo l’ultimo ballo con la nuora, la bellissima piccolo-borghese Angelica, e il corteggiamento della morte che va facendosi sempre più fitto.
Luchino Visconti ha capito benissimo l'altezza poetica e drammatica della figura creata da Tomasi Lampedusa; ha capito che quel suo bisnonno era un gigante e sovrastava, per coerenza artistica, le idee espresse dal personaggio storico (un fine e scettico aristocratico dalle chiare ascendenze siculo-normanne). Per cui il suo sforzo è stato quello di accentuare (caricare?) nel principe Salina la consapevole malinconia di stare assistendo al crollo del mondo senza ritorno, e di essere un po' il simbolo di quell'età di trapasso tra il vecchio e il nuovo, in cui la nausea della vita si veste di disperato orgoglio. E c’è riuscito benissimo, pur rischiando molto, affidando il ruolo ad un ex cowboy dal volto squadrato, severo e spietato, qual era Burt Lancaster, forse nella sua migliore interpretazione.
In questo "taglio" tipicamente viscontiano , c'è tutta la sua predilezione per i caratteri colti nel momento della crisi; c’è la nostalgia tutta aristocratica per le forti personalità, siano esse patrizie o plebee (vds. “Rocco e i suoi fratelli”), mentre è impietoso verso le classi di mezzo.C’è un bel dire (anche se risponde a verità) che libro e film sono “due cose diverse", i confronti si fanno sempre. E in questo caso possiamo dire che la trasposizione del romanzo non ha fatto rivoltare nella bara lo scrittore, ovvero Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che da parte sua (da vero aristocratico nel senso nobile della parola) non si sarebbe mai aspettato tanto clamore da questo suo romanzo incompiuto. Considerava la letteratura un hobby segreto , vizioso e infantile, di cui vergognarsi , anche se non ne poteva fare a meno. E forse se avesse fatto testamento avrebbe chiesto di bruciare tutte le sue carte, erano passatempi che dovevano morire con lui.
Nato a Palermo nel 1896, Lampedusa si era laureato (di malaggenio) in giurisprudenza all'università di Torino. Dava ad intendere d’aver fatto una vita (la vita? Al massimo dura due anni, due anni e mezzo, diceva) da curioso, più che da studioso: molti viaggi, molte case di gioco, molte belle donne, qualche concerto, e molta solitudine. E poi i suoi “passatempi”: letteratura e la scrittura.
In realtà, anche se non pubblicò quasi nulla, tranne qualche articolo di critica letteraria francese, che conosceva profondamente , tutta la sua vita fu occupata dalla letteratura, in particolare, ma amava anche la storia e la filosofia e le scienze umanistiche in genere. Era un geniale dilettante di letteratura, un uomo di grande spessore culturale, un po' come il conte Manzoni, ma a differenza di quest'ultimo, assai più disincantato e dubbioso sulla necessità della stessa.
Era morto a Roma, quasi alla chetichella, all'età di 61 anni, per arresto cardiaco. Negli ultimi tempi era assai malandato, ma si rifiutava ostinatamente di sottoporsi a qualsiasi tipo di cura medica. Guai a sentir parlare di accertamenti, analisi, medici, ospedali, ecc. S’imbestialiva. Era refrattario a qualsiasi cosa, in tutta la sua vita non prese mai nulla per curarsi, neanche l'aspirina. Lampedusa era già morto da un paio d'anni e come letterato non lo conosceva nessuno, tranne qualche addetto ai lavori che fosse suo amico (ne aveva pochissimi, l’unico che si ricordi è Lucio Piccolo, suo lontano parente, ma conosceva anche Bassani). Forse il suo corposo manoscritto originale - un grosso quaderno a righe, riempito quasi tutto per intero con calligrafia minuta - sarebbe rimasto tra le cianfrusaglie e la polvere della sua casa aristocratica di Palermo, dove era rimasta la vedova, la baronessa Alessandra Wolff Stormee, se Bassani non le avesse telefonato, quasi per miracolosa intuizione (“Signora Baronessa, la prego di voler farmi esaminare gli scritti del principe, che sicuramente avrà lasciato nel suo studio. Verrò quanto prima”). Infatti, qualche mese dopo, la baronessa, consegnandogli il manoscritto del marito gli disse: "Era venticinque anni che mi diceva che voleva scrivere del suo bisnonno paterno e di Garibaldi ... Non so che cosa ne sia venuto fuori ... Se lei non mi avesse telefonato, forse l'avrei bruciato ...”. “Il Gattopardo – disse Carlo Bo - è un testamento che vale come testimonianza di vita ben spesa, se si spende bene il tempo a cercare di capire le cose nella luce della poesia e in quella della morte". Impastato di curiosità e tenerezza del vivere con la disincantata ironia venata di scetticismo dell'aristocratico, Tomasi di Lampedusa era in attesa dell'evento finale, che non sarebbe tardato (in fondo tutta la nostra seconda parte della vita non è altro che attesa della morte), perché aveva un tumore allo stomaco, e lui lo sapeva. Ma non si può ridurre il suo romanzo a questo evento che tocca ciascuno di noi, accompagnato dai propri intimi segreti. Il Gattopardo va oltre la riflessione sulla morte e oltre il romanzo storico. Lampedusa voleva scrivere un romanzo ispirato alla filosofia della storia ed è in questo senso che l’opera diventa altamente "morale". Tomasi si pone alla ricerca del significato - o del “non significato” - della storia e della stessa esistenza umana. Se vogliamo, forse con un po' di forzatura, possiamo dire che Lampedusa percorre un itinerario manzoniano, ma che approda ad un esito antitetico.
Lo fa del resto in un paesaggio barocco e spinoso, pieno di guglie moresche e dolmen di fichi d'india, in una "luce luttuosa del sole che arroventa". Lo potrebbe addirittura aver sognato questo Gattopardo, non avrebbe alcune importanza.
Rimarrebbe la grandezza assoluta di questo romanzo che conserva intatti i suoi valori estetici, morali e poetici.

(Il Gattopardo, Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, p. 254, euro 7.oo)
(Edizione teatrale edita da Bulzoni, euro 7.65)

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