STORIA DI EMMA C. E ALTRE POESIE di Fabio Scotto a cura di Vincenzo Capodiferro

 

STORIA DI EMMA C. E ALTRE POESIE

Una strepitosa antologia di Fabio Scotto, che riprende forti tematiche legate alla vita


. “Storia di Emma C. e altre poesie” è una raccolta poetica di Fabio Scotto, edita da puntoacapo, Pasturana 2020. Fabio Scotto nasce a La Spezia nel 1959 e vive a Varese. Ha pubblicato varie raccolte, tra cui Il grido viola (1988); Il bosco di Velate (1991); La dolce ferita (1999); con Passigli ha pubblicato Genetliaco (2000); L’intoccabile (2004); Bocca segreta (2008); La Grecia è morta e altre poesie (2013); In amore (2016); con Magenta: La nudità del vestito (2017); A riva (2019). Molti suoi lavori sono stati tradotti in varie lingue ed hanno riscosso riconoscimenti. Ha tradotto tanti autori classici, come Hugo, Apollinaire e Bonneffoy, di cui ha curato L’opera poetica (Mondadori 2010). Critico letterario e saggista ha curato vari studi, tra cui con Donzelli: La voce spezzata (2012); Il senso del suono (2013); con Rosenberg & Sellier: Le corps écrivant (2019). È professore ordinario di letteratura francese all’Università di Bergamo. «Due solitudini, quella dell’autore e quella del lettore, che si confrontano, dialogano, a volte confliggono, e che proprio nella solitudine della pagina maturano pensieri vasti,» scrive Giancarlo Pontiggia a principio di questa opera, che raccoglie vari scritti del Nostro, tanto da presentarsi come vera antologia, cioè scelta di perle. Infatti c’è “Storia di Emma C.”, un drammatico monologo per voce sola, che si ispira alla storia drammatica di Emma, ragazza romana abusata dal padre alcolizzato; “Diario di Ciutadella”: un diario nel segno dell’isola amata, di un padre riabbracciato dalla lontananza degli anni; “Trittico lericino”: e ancora il mare, ma ora quello dell’infanzia e degli avi; “Movenze”, “Flamenco”: una ghirlanda di componimenti erotici di accesa tonalità ellenistica; “Nostos”: la lenta, fatale rassegna dei luoghi in cui ogni ritorno è una discesa alla madre. Il testo raccoglie scritti editi e inediti e rappresenta uno scrigno della poetica di Fabio Scotto. Lo stile di Fabio Scotto è realista, quasi quasi scorgente paesaggi pasoliniani, di degrado e di orizzonti periferici, ai margini della socialità umana, ove risiedono da un lato i superman, di nietzschiana evocazione e dall’altro i subman, cioè gli inetti neo-sveviani, nelle attualissime costellazioni familistiche della società liquida baumaniana odierna. Inutile, a proposito rammentare, o meglio rammendare Aristotile: chi non vive in compagnia è o una belva, o un Dio, cioè o un ladro, o una spia. Agli idilli leopardiani egli sostituisce abilmente idilli pasoliniani: ma sono quadretti collegati alla nostalgia classicista. Questa nostalgia purtroppo rimane disillusa. Non c’è qui il poeta romantico che ancora rimane legato al cordone ombelicale del classicismo. Qui c’è un classicismo di riflesso, di frontiera, che scorge beltà nelle tragedie umane.

È il caso di Emma: «Tu, il primo che vidi dal buio/ dei visceri di mia madre/ il primo giorno/ tornarmi dentro ad appestarmi il sangue/ col tuo nero delirio di bestia infoiata/ Tua figlia violentata come una sgualdrina qualsiasi/ perché è bella? Perché hai bevuto? / Perché fa caldo?». Ci sono le violente sferzate che rammemorano il pungolo marziale, cioè bellico, ma anche di Marziale. Manca la punteggiatura, con sbalzi neofuturisti, ma anche neoveristi: sono annotati solo i puntini interrogativi. La poesia è domanda, spesso senza risposta. La poesia non deve rassicurare, ma lasciare perplessi i lettori, come annota ancora Pontiggia: «La poesia esige lettori speciali, consapevoli di esserlo.... A questi lettori si rivolge questa collana, il cui nome evoca il mito dello scudo caduto dal cielo e custodito dai sacerdoti Salii. Numa ne fece fare undici simili, perché la ninfa Egeria gli aveva predetto che dalla conservazione dell’ancile dipendeva quello dell’intera comunità. Anche la poesia va custodita, e in qualche modo celata…». Emma è una vinta verghiana, non manzoniana, eppure è pur essa un’eroina. La verità ama celarsi, l’antica Aletheia, che incantò Parmenide, ma che fece impazzire Heidegger.

Il “Diario di Ciutadella” è, come annota il Nostro, «un tentativo di riaprire un dialogo con mio padre, alternando versi e prosa poetica attraverso la rivisitazione di un luogo insulare ispanico a entrambi caro…». Anche questo esprime il dramma della civiltà moderna in conflitto con la figura paterna, una figura sconfessata, alienata, spesso bistrattata, soprattutto dalla generazione postbellica, che richiama la “società senza padri” degli psychologist amerindi: «La vita è un hangar dal quale spicchiamo voli senza senso. Il senso, se c’è, padre, sta nel volo, non nella meta, né nel consenso (maestra fa da sempre, in tal senso, l’Itaca di Kavafis). Qui getto un pugno di sabbia argillosa dell’ocra del tuo giovane tempo sulle ceneri di cui tu ora sei compreso». La vita è un esistenzialistico assurdo, un naufragio, un nubifragio inaspettato che ti travolge, un indiscusso esserci per morire. Il senso… è il volo. Spiccare il volo. Ma anche questo volo spesso si frantuma in un precipitarsi di Icaro. L’esistenza è un Dedalo, un labirinto di cui dobbiamo scorgere insospettati significati, di cui la poesia - oggi purtroppo - rimane solo da significante ed il poeta - non più vate dai tempi di D’Annunzio, ancora sognatore - hodie è l’insignificante. E qui si presenta un’altra pittura: il viaggio dantesco di Ulisse. L’uomo è un Ulisse dantesco. Ulisse è il nessuno che viaggia nel niente. Siamo al nichilismo. Eppure il non-senso esprime già un senso. Il senso non ci deve essere del tutto, altrimenti dipende sempre dalla metafisica trapassata e stra-futura. In tal senso Bauman ancora parlava di retrotopia, come inverso di utopia.

In “Trittico Lericino”, protagonista è il mare: «Qui son nato/ nel Golfo dei poeti/ dove ogni hôtel/ si chiama Byron o Shelley/ Li rivedo nuotare/ verso Portovenere/ avvolti dalle onde/ E la Venere che invoco ogni mattina/ ancora tarda/ ancora non risponde…». Il mare è mare: indica apertura, instabilità, liquidità. Si parla tanto oggi di società liquida, amore liquido, grazie a Bauman. Il mare è sempre contrapposto alla terra. La terra indica chiusura, stabilità. Ricordiamo a proposito la contrapposizione in Heidegger tra terra e mondo. Ricordiamo la fedeltà alla terra di Nietzsche. Solo chi nasce sulle rive del mare può capire a fondo questa contrapposizione. Il mare è bene e male, è calma e tempesta, è “Sturm und drang”, è romanticismo. Quella Venere ricorda un tema classico. Ricorda: Zacinto mia, che te specchi nell'onde/ del greco mar da cui vergine nacque/ Venere, e fea quelle isole feconde. Così passiamo al tema dell’Eros: un eros che in Scotto è trapassato, trasfigurato. L’amore non è più il tema princeps della poetica, che dagli antichi lirici al Dolce Stile e poi alla modernità aveva per sempre quasi pietrificato un sentimento, che in verità è talmente labile, cangevole, eracliteo, che è difficile da ingabbiare. È un Dioniso nietzschiano.

In fine il tema del ritorno alla madre è emblematico di un’epopea neo-freudiana, che riconosce solo nella donna-madre, non nella donna-angelo, né nella donna-demone, una tipizzazione della femminilità. L’uomo postmoderno non può riconoscere questo ombelicale aggancio alla nostalgia della madre, che la poesia esprime bene: «Sanctus Excelsus, Jesus Nazarenus/ (c’è un dio in ogni folle)». Questa è La Sagrada Familia: opera d’arte e/o compagine sacra. Sarebbe meglio esprimere: Dio è un folle, un folle d’amore. La madre indica l’origine, l’essenza dell’esistenza stessa, la causa dell’actus essendi, il grembo-nido amoroso post-pascoliano stra-simbolista.

Io vorrei concludere con questo bell’invito che Fabio rivolge ai poeti, che non oso più commentare, ma che per la sua bellezza e profondità deve lasciarci frastornati:


Ai poeti


Quando avrete finito di scornarvi,

di disputarvi i premi a vicenda,

ricordatevi della botte di Diogene…


Vincenzo Capodiferro

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