29 ottobre 2006

Le mille maschere di Gioacchino Rossini

di Augusto da San Buono

“Il fatto è, caro amico, che Rossini era un bipolare, come tanti altri geni “- mi dice il maestro Luigi Solidoro, che si è appena esibito al pianoforte con alcune ouvertures rossiniane. “Ma , in fondo, - ammicca sorridente - non siamo un po’ tutti bipolari?”.
Beh, in effetti viviamo un po’ tutti costantemente “in bilico”, come il protagonista di un celebre romanzo di Saul Bellow, tra euforia e apatia, tra gioia e disperazione, siamo il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, l’infanzia e la vecchiaia, l’esaltazione e l’abbattimento, con tutte le infinite gradazioni. Poi un giorno il cervello fa clic e tu cominci a sprofondare verso il nulla. Come capitò a Rossini, probabilmente dopo la morte della madre, Anna, che adorava. Il suo Mosè trionfava a Parigi, il pubblico lo reclamava con un uragano di applausi e lui, nell’inchinarsi, piangeva e mormorava: “Ma lei è morta”. Una sofferenza devastante che lo condusse sull’orlo della demenza.
A distanza di un anno Rossini avrebbe smesso di scrivere musica.

Il “mal di vivere”, lo “spleen”, la tristezza, la melancholia, non sono invenzioni di poeti decadenti, no. Sono solo una delle tante variazioni sul tema della sindrome maniaco-depressiva, che colpì diversi grandi personaggi della storia, da Adriano a Napoleone, da Shelley a Balzac, da Michelangelo a Van Gogh, da Caravaggio a Rossini: “Mi chiamano professore, anzi maestro, e sono già quasi vent’anni che di su, di giù, per diritto e per traverso io meno il mio pubblico per il naso; e vedo che proprio nulla ci è dato di sapere! Per poco non ne avrò consunto il cuore! E’ vero che ho più senno di tutti gli scipiti musicisti, professori, compositori e funzionari: io non sono tormentato da scrupoli e da dubbi, non ho paura del diavolo e dell’inferno. Ma in cambio mi è tolta ogni gioia: io non m’illudo di sapere qualcosa di vero, io non m’illudo di poter insegnare qualcosa per migliorare e cambiare gli uomini”.

Detestava i fanatici, le melo-checche, le esagerazioni, le aberrazioni celebrative, e questi pensieri faustiani lo attraversavano continuamente, ormai, da quando s’era fatto di sé stesso un finto mito: dopo Rossini sarà impossibile tornare al melodramma. Rossini incarna tutta la musica operistica del nostro secolo. Dicevano di lui. E lui rideva: sciocchezze, pure sciocchezze. Intanto aveva dimostrato come la musica possa raggiungere la grazie assoluta, che tutto si poteva mettere in musica (“datemi la lista della lavanderia e la metterò in musica”), da Il Barbiere di Siviglia -, realizzata in soli tredici giorni, tra piatti di riso, mortadella, vino rosso e allegra compagnia - , alla folle Italiana in Algeri; dalla moraleggiante Cenerentola allo scabro Maometto II infranciosato come Siége de Corinthe; dal sulfureo Conte d’Ory al michelangiolesco Mosè, dalla sua prima farsa (La cambiale di matrimonio) che odorava ancora tanto di settecento napoletano all’ultimo dramma, Guglielmo Tell, che più romantico non si può, anche se lui rimase un classico, che si sentiva più figlio di Mozart e Hayden e Gluk, che di Paisiello e Cimarosa. E la sua arte era di una grazia assoluta.
Portò strumenti umili e comprimari come il fagotto e il corno (dirà di se stesso: sono figlio di un corno, alludendo al padre Giuseppe, suonatore di corno e ispettore ai macelli, ma anche alla bellissima madre, Anna, cantante lirica autodidatta, che aveva diversi ammiratori e se ne compiaceva), all’esibizione solistica, all’esaltazione del protagonismo orchestrale; adottò tecniche provocatoriamente audaci, come il battere degli archetti dei secondi violini sul coprilampada del leggio (vds. Il Signor Bruschino), o l’ironica esplosione della Gazza ladra, e poi giochi strumentali inarrivabili, repliche e sberleffi di frasi già dette, o patetismi esagerati, ottenuti divaricando le altezze, lavorando sui contrasti, ostentando sferzate di ottavino, petulanze di clarinetti, borbottii di fagotti, lacrime d’oboe. Novità che verranno superate dal famoso “crescendo” rossiniano, che non è solo un abbellimento dinamico, ma un fatto strutturale. Sul cigno di Pesaro (prego, chiamatemi cinghiale di Lugo, corresse lui ironicamente, poiché il padre era originario di Lugo) tante battute, tanti episodi, tanti aneddoti, ma nulla di veramente chiaro sulla sua immagine autentica, sulla sua vera personalità.
Chi fosse veramente Rossini non lo dicono nemmeno le sue numerose lettere, spesso piuttosto banali, o di gran circostanza, né le cronache esaltanti di scrittori-amici come Stendhal. Ci dicono, se mai, le mille maschere che indossava Rossini: il Pigro, il Gaudente, il Disimpegnato, Il Rubacuori, il Battutista, il Dandy, l’Uomo di mondo, il Conservatore, il Tiepido, il Gourmet, ecc. Ma nessuna ci potrà dire dell’oppressione che gli veniva dalle cose del mondo e dal proprio genio, dalla propria intelligenza, dalla fatica creativa, dalla solitudine, della sua fragilità nervosa: “Oh, Dio come descrivere quel vuoto attorno a te stesso, quell’infinita solitudine, abissale senso di vuoto e di inutilità che ti dà la malattia nervosa?”.

Rossini faceva battute piene d’ironia dalla cadenza mezza marchigiana e mezza romagnola: “ Faremo un pranzo splendido, mangeremo un tacchino. Saremo solamente in due. Io e il tacchino”; Rossini discettava di mortadella e gorgonzola, partecipava agli scherzi di carnevale più esilaranti, come quella volta, a Roma, in cui, insieme a Paganini e Massimo D’Azeglio, si finse musico cieco e mendico e se ne andò girando per le vie della città eterna strimpellando la chitarra e cantando delle canzonacce da lui stesso musicate; Rossini si vestiva da elegantone, un Lord Brummel delle Marche, frequentava i salotti delle corti d’Europa, invitato da principi e monarchi, perfino da Metternich, l’uomo più potente del momento, che lo volle per celebrare il più sfarzoso dei congressi europei, a Verona, dove compose due cantate: La Santa Alleanza, e Il vero omaggio, che gli alienarono le simpatie dei patrioti italiani, ma non se ne fece un problema, tutt’altro. Peraltro era perfettamente d’accordo con chi aveva detto che Metternich “non era un fanatico né un despota, sebbene conservasse i despoti sui loro troni; non era crudele benchè l’attuazione della sua politica aiutasse a commettere imprese crudeli. Era un uomo di gradevole aspetto, elegante, gaio e sereno, pieno di gioia di vivere e amante dei divertimenti, della letteratura e della buona musica”. Per certi aspetti , il principe Metternich, che si sentiva “il medico del grande ospedale del mondo, il savio del manicomio”, gli somigliava.

Anche lui, Gioacchino Rossini da Pesaro, era ormai un mito in cui si addensava la storia che stava vivendo, lui stesso era la storia della musica che si faceva con l’inchiostro della sua esistenza. Ma nessuno sapeva quel che c’era dietro quel suo far musica, quanta impazienza, quanta insofferenza, quanta paura di annoiarsi, quanta paura di ammalarsi e di morire! Ogni giorno a dirsi ogni volta non vivrò mai più questo momento, questa emozione così scintillante, così pieni di divertimento e ogni fine d’opera era un‘altra opera che si creava nella sua mente piena di note perfide e deliziose, di ciprie divertite e velenose. Nessuno lo capì, neanche Beethoven, che era andato a trovare a Vienna, in quella casa penosa con il soffitto sfondato e il pitale sul pianoforte: “Non cercate di fare altro che opere buffe: voler riuscire in un altro genere sarebbe far forza alla vostra natura”, gli aveva detto. Possibile che anche lui, il genio che tanto ammirava, colui che aveva composto l’Eroica non aveva capito che lui era uno che eludeva i limiti, che ignorava le strettoie, gli schemi, della tradizione; non aveva capito che era un vecchio complice di spettacoli atemporali, che poteva scrivere qualunque tipo di musica; non aveva capito che lui era il manifesto dell’arte moderna e che dopo di lui non ci sarebbe stato più nulla da fare; non aveva capito che la sua semplicità veniva da tumulti, da tempesta e da cicloni; non aveva capito che la sua musica esplosiva e carica di ironia, con giochi strumentali inarrivabili, repliche e sberleffi, frasi già dette, patetismi esagerati, ottenuti divaricando le altezze, lavorando sui contrasti, ostentando sferzate di ottavino, petulanze di clarinetti, borbottii di fagotti, lacrime d’oboe, era una musica che non c’era mai stata prima ed era frutto della sua malattia. Non aveva capito che quella musica gli stava costando la salute mentale, altrochè opera leggera e buffa. Comunque tanto per smentire il genio di Bonn, pochi anni dopo quel loro incontro aveva composto il William Tell, un capolavoro romantico che farà dire a Donizetti: “Rossini scrisse il primo e l’ultimo atto del Guglielmo Tell . Dio scrisse il secondo Atto!”. Il più grande compositore comico di tutti i tempi, che aveva sempre dichiarato di detestare il romanticismo e anzi aveva nostalgia del classicismo e dell’illuminismo, aveva composto quel capolavoro di dramma romantico che di più non si poteva. La gente era sorpresa, sconcertata, ma lo sconcerto diventò incredulità quando lo stesso autore decise di ritirarsi a vita privata a soli 37 anni, nel pieno del successo.

"Ho esercitato troppo la fantasia, e per la mia sensibilità così fragile..." disse Rossini. Una mezza frase che diceva tutto e nulla. E pure era la verità. La sua vita, e la sua musica, caddero interamente sotto il cono d’ombra della “fragilità nervosa”, una forma di ipocondria che lo paralizzava e che gli faceva comparire lo spettro della morte dietro il più piccolo malessere, una costante condizione di debolezza nei confronti del reale, che segnò ogni suo gesto. Dirà che dopo aver scritto il Guglielmo Tell si sentì svuotato di ogni energia, con un deperimento fisico e psicologico che gli tolse ogni gioia. Da quel momento la musica fu la sua ossessione. Non poteva più ascoltare la sua musica. Ne era a tal punto emozionato da non poterne sostenere lo choc. Non era più in grado di percepire se stesso. Non andava a teatro a sentire le sue Opere, non gradiva neppure che nel suo salotto si cantassero le sue Arie più celebri.

Le sue opere erano piene di specchi mascherati, ritratti involontari, in cui parlava di sé stesso senza accorgersene. “Ora voglio specchiarmi nel mercurio pulito della stima, dell’amicizia. Che vale più di qualsiasi altra cosa. Anche volendo non potrei più scrivere, sono martirizzato da tredici mesi di crisi nervosa che mi ha tolto sonno, palato, alterato l’udito e la vista e gettato in tale prostrazione di forze che non posso né vestirmi, né spogliarmi senza aiuto”. Il musicologo francese Francois Fètis, che era andato a rendergli visita descrive la sua repulsione nei confronti del pianoforte che si trovava nella sala dove si erano intrattenuti. “Lo vidi scoppiare in un accesso di collera, come se la vista di quel pianoforte fosse insostenibile per lui, come se avesse chiuso per sempre e da tempo la porta della musica e ora quel maledetto strumento gliela richiamasse alla mente”. Era la stessa esplosione di tutta la musica che aveva scritto in vent’anni di trionfi. Una musica che sistematicamente incendiava tutte le convenzioni dell’Opera, portandole a un grado più alto di intensità nervosa, e di emozione, e di choc. La sua musica schiantava i vecchi steccati, era l’irrompere fragoroso eppur controllato di un universo sonoro mai udito prima. La sua era musica estrema. Il segno di una forza e di una energia superiore, “il sismogramma – scrive Alessandro Baricco - di una debolezza vertiginosa, lanciata in fuga, a velocità mai vista, lontana dal reale, con qualcosa di nevrotico, di ossessivo, o anche semplicemente di esagerato. Una vera e propria "follia organizzata". Intensità, caos puro, smarrimento, fuga schizoide. Rossini se ne scappava dalle parole dei suoi librettisti, disegnando nell’aria vocalizzi che le polverizzavano, dall’ideologia del suo tempo, la libidine del romanticismo. Scappava. E scappando tracciava traiettorie elettrizzanti, ipnotiche. Erano la forza della paura”.

La falce della luna

La falce della luna di Francesco Ogliari (tratto da "La Prealpina" del 15 ottobre 2006)

L’hanno paragonata a un’immensa falce di una luna sfrangiata d’oro e argento dalla sabbia e dalle schiume del mare, da un estremo all’altro dell’arco nel quale si distendono le due Riviere.L’Appennino, come sorta di ramaglia staccata dal tronco delle Alpi, aggredisce da presso le zone costiere con le sue catene trasformate in altrettante masse rocciose dall’aspetto di ricami che si gettano a picco o dolcemente in acqua, un’acqua eternamente blu. Quando non assume tonalità nerastre su cui s’evidenzia il chiarore delle ondate nei giorni di tramontana. Le cime fanno da fondale immediato a paesaggi da presepe dove non mancano palmizi e giardini. Ci sono insenature e vallate dove meno di dieci chilometri a volo di uccello separano in dislivello di mille e trecento metri: il paesaggio montano immerge l’estremità nelle onde azzurre.Ripidi e velleitari, i corsi d’acqua s’appianano solo in prossimità dello sbocco in mare dopo un bizzoso percorso dall’alveo quasi sempre in secca e graziosamente concesso a giochi di bambini, razzolare di polli e anatroccoli, alte erbe e cespugli, qualche fiore cresciuto tra i sassi su una zolletta di terra. Succede a volte improvviso, nell’estate arida e afosa, uno di quegli acquazzoni scesi dalle vette non lontane. Il letto asciutto si riempie bruscamente di flutti furiosi portando al largo nelle acque ogni sorta di materiale travolto dall’iraconda gittata, salvo che il mare non voglia ricevere questa bizzarra contaminazione di arbusti, rottami, sporcizia e il tutto finisca, calato il vento e inarcato l’iride che segna la fine del temporale, per stratificarsi nell’ultimo tratto pianeggiante del fiumiciattolo. E’ nelle stagioni di mezzo che dovremmo rivisitare luoghi d’alto richiamo, celebrati per bellezza d’ambiente e clemenza d’atmosfera. Come la principessa sul pisello, questa splendida terra dei Liguri (il popolo di più antica stirpe nella tradizione storica: ma di lui né qui né altrove c’è la minima traccia) non teme soprassalti di clima, fremere di masse tettoniche, arsura o siccità o volenza di mare o manomissione d’asfalto, acciaio, cemento.Raffiche di maestrale accompagnano un’alba livida dopo aver flagellato per l’intera nottata la costa occidentale, una pioggia più stizzosa che intensa che piega le palme così da farle sembrare imbizzarrite, sbatte sulle persiane, solleva e rovescia gli ombrelli, scende di traverso e non dà requie, come se il mare avesse deciso d’innaffiare gli alti terrazzi costruiti da generazioni di floricoltori e contadini sui fianchi delle aspre colline, elemento tipico del paesaggio.I lampioni sul lungomare di Bordighera fin verso mezzanotte tenuti accesi al completo, cioè a grappoli di tre globi, sul far del giorno per ovvie misure antispreco s’accontentano di offrire una pallida luce quasi lunare ai pochi passanti indotti da ragioni di lavoro ad affrontare il maltempo: una lampada sola per ogni palo, presto anche quella si spegnerà quando la cellula fotoelettrca avrà deciso a suo inappellabile giudizio che è giorno fatto. Dov’è il sole, dov’è il clima incantato che ha messo le ali ai madrigalisti, poeti e viandanti di mezzo mondo che l’hanno visto come fonte di luminosa chiarezza e ingentilire le facciate d’umili case di pescatori come quelle dei palazzi, donando i riflessi di velluto e seta anche a qualche straccio appeso tra due muri ad asciugare?Letteratura d’occasione, di circostanza. Marinetti, non sprovvisto davvero d’ingegno, la chiamava letteratura ferroviaria: libri gialli, parole incrociate, raccolte di barzellette, rotocalchi di svago, romanzi rosa del calibro d’una "Madonna degli Sleeping-Cars" di Maurizio Dekobra o un poco più impegnati come ne suggerivano i favolosi convogli, gli Orient Express, all’Agatha Christie e a Graham Greene.In certi paesi dalle parti del Col di Nava fra il Tanaro e l’Arroscia, immersi tra i castagni e gli ulivi sopra il mare di Oneglia, nei primi giorni di maggio le ragazze trovavano al risveglio un rametto sul davanzale: se era di pino significava omaggio (non disinteressato) alla beltà della fortunata figliola, saggia ancorchè molto piacente; un rametto di ciliegio le faceva capire che doveva considerarsi piuttosto civetta; un pezzetto di mimosa ne evidenziava volubilità, leggerezza, in una parola inaffidabile. Disapprovati anche i vedovi che si consolano passando a seconde nozze: rumorose manifestazioni a notte - le baccilate - avvertivano i nuovi sposi che i giovani avevano qualcosa da dire.Rito ormai andato in disuso, avevano un loro fondo pagano che si ritrovava magari alle stesse cerimonie funebri come la veglia attorno alla bara collocata sul focolare spento.Deserto e triste, dal famoso Muretto di Alassio, una ragazza dall’ampio pastrano bordato di visone ai polsi e al collo. Di malumore come il tempo, non ha quasi sollevato lo sguardo dal libro - l’Ulisse, di Joyce -. Così sussiegosi grigi pensieri, in un contesto d’agitata, dolce malinconia di stagione.

19 ottobre 2006

"Giorgio Germagnoli, una vita per l'educazione alpina" - Autori vari

Autori vari
Giorgio Germagnoli
Una vita per l’educazione alpina
Alberti Libraio Editore, Verbania, 2006



Gli anni del secondo dopoguerra del Novecento furono un periodo che vide generazioni di giovani del Verbano Cusio Ossola e del Novarese scoprire le montagne delle Alpi Pennine e Lepontine. Le Alpi, negli anni della ricostruzione e del boom economico, diventarono il terreno dove vivere grandi avventure e scoprire valori positivi nella vita. In quegli anni emerse la figura di Giorgio Germagnoli, alpinista omegnese che divenne ben presto punto di riferimento per molti giovani alpinisti.

Giorgio Germagnoli (1921-1996) fu guida alpina, istruttore nazionale di sci-alpinismo ad honorem, Cusiano Benemerito, Cavaliere della Repubblica, presidente della sezione di Omegna del Club Alpino Italiano, consigliere centrale del CAl, fondatore e primo delegato del Soccorso Alpino di Omegna, presidente per trent’anni della Scuola Nazionale di Sci-Alpinismo “Massimo Lagostina”.
Germagnoli fu anche figura di rilievo nel panorama nazionale del mondo della montagna. Divenuto presidente dell’AGAI (Associazione Guide Alpine Italiane) si impegnò a lungo e con successo affinché il Parlamento promulgasse una legge di disciplina della professione di guida alpina.
Il suo impegno e la sua dedizione per l’insegnamento e la prevenzione nell’attività alpinistica trovano particolare risalto nel suo modo di trasmettere conoscenze. Il suo esempio va ben oltre la pura e semplice vita in montagna e si fonde in un messaggio sempre attuale di entusiasmo per la vita quotidiana.

Il libro, voluto dai suoi amici, è una raccolta di ricordi, testimonianze e memorie che illuminano la dimensione alpinistica e umana di Giorgio Germagnoli. Il ricco corredo di immagini a colori e in bianco/nero permette di ripercorrere, attraverso volti e montgne, una stagione irripetibile dell’alpinismo italiano.
Carlo Alberti

16 ottobre 2006

La morte di Karl Marx

di Rachele Lorusso
Nella bella ed anche piuttosto umoristica biografia che il giornalista britannico Francis Wheen ha dedicato a Karl Marx - pubblicata in Italia da Oscar Storia -, è possibile trovare una pagina di grande effetto riguardante uno degli ultimi episodi conosciuti della vita del filosofo tedesco.Durante l'estate del 1880, sulla spiaggia di Ramsgate, dove era solito andare a giocare con i piccoli nipotini, il leader comunista aveva promesso di concedere un'intervista al giornalista americano John Swinton, il quale lo attese pazientemente fino all'ora di cena. Molto suggestivo e certamente più significativo di quanto non appaia ad una prima lettura, è il resoconto che Swinton ci ha lasciato a proposito di questo suo singolare incontro."Parlammo del mondo e dell'uomo, dei tempi e delle idee, con il rumore del mare che faceva da sottofondo al tintinnio dei nostri bicchieri. Il treno non aspetta nessuno e la notte è imminente. Levandosi al di sopra del confuso brusio degli anni e delle epoche, oltre i discorsi del giorno e le immagini della serata, affiorò alla mia mente una domanda sulla legge ultima dell'esistenza per la quale avrei voluto una risposta da parte di quel saggio. Durante una pausa di silenzio, mi rivolsi al rivoluzionario e filosofo con queste fatidiche parole, emerse dalla profondità del linguaggio e scandite al culmine dell'enfasi "Che cos'è?". Sembrò che la sua mente si distraesse mentre guardava il mare che tumultuava davanti a noi e la moltitudine che si agitava sulla spiaggia. "Che cos'è?" avevo chiesto, e in tono profondo e solenne egli rispose "La lotta!". Per un attimo mi parve di aver udito l'eco della disperazione, ma forse era la legge della vita".Karl Marx morì tre anni dopo, il 14 marzo 1883, nella sua casa londinese, subito dopo l'ora di pranzo. Engels era venuto a trovarlo e si era appena scesi ad annunciare che il grande vecchio era "mezzo addormentato", ma quando si entrò nella stanza se ne era già andato. Come spesso accade, la grandezza di un uomo può essere misurata con il confine che lui stesso pone ad orizzonte della propria esistenza e di quella altrui.
(Marx, vita pubblica e privata - F. Wheen - BUR Storia)

14 ottobre 2006

"Come vivere con un uomo e riuscire ad essere felici",di Attanasio-D'Agostino

di Lagi

Da donna a donna:
Punto 1: gli uomini non sono donne, una volta preso atto di questo concetto noi siamo già a metà dell’opera.
Punto 2: gli uomini senza difetti non esistono e se esistono sicuramente se li sono già cuccati le altre…
Punto 3: ogni convivenza è un salto nel buio, ma il salto lo facciamo soprattutto noi.

Vi ho incuriosito abbastanza? Questo stralcio di “decalogo” è tratto direttamente dalla prefazione di La Pina, che impreziosisce le prime pagine del libro e che vi farà morire dal ridere sin dalle prime battute. Io non so se molte di voi si riconosceranno, o meglio, riconosceranno nel libro il proprio uomo, classificandolo magari tra l’Homo-Distratto, l’Homo Edonista Domestico, l’Homo Metro-sexual, l’Homo Russatore, l’Homo bello di Pastiglia (tutte lo vogliono e nessuno se lo piglia)... ;-) ma sono sicura che vi divertirete a scambiare 4 chiacchiere con le amiche o, perché no, a prendere un po’ in giro il vostro marito o fidanzato, partendo proprio da questo libricino, “Come vivere con un uomo e riuscire ad essere felici” di Debora Attanasio e Patrizia D’Agostino.

Già il primo capitolo è tutto un programma: si afferma che le donne hanno problemi di convivenza quando pretendono di essere capite e misurano il rispetto attraverso l’accettazione delle regole, e che gli uomini che vivono da soli sono molto più ordinati di quando convivono, è con le donne che poi cambiano: “la tavoletta del wc rimane alzata? E’ un loro modo per dire . Delegarti a lavare la sua tazzina di caffè rimasta solitaria nel lavandino della cucina è solo un modo per tranquillizzarti sul loro interesse verso di te. Se tu rispondi < è vero, amore, vado a lavarla subito > puoi star sicura che ti considererà la donna perfetta”. E qui potremmo incominciare a dire un po’ la nostra, vero ???? Si potrebbero aprire giornate intere di dibattiti, altro che i talk show della De Filippi!

Per non parlare poi delle frasi celebri di uomini sconosciuti! Trovate di quelle chicche, mamma mia, DA PAURA! Per esempio:
- non ti andrebbe di fare un figlio? Guarda che lo dico per te, io ho ancora tanto di quel tempo … (da un fidanzato più giovane)
oppure
- beh in fondo ora voi donne vi potreste accontentare, vi abbiamo concesso già tanto, no ? (da un fidanzato che si dichiara progressista alternativo)

Insomma ce n’è per tutti i gusti: un manuale per donne, ma anche per uomini, per capire quello che le donne vorrebbero: pollice verso per gli uomini che arrivano sempre in ritardo, che non portano i pacchi della spesa, che fanno i coatti con i camerieri al ristorante… e che dire della tenerezza e delle attenzioni quotidiane, inversamente proporzionali alla durata del rapporto?
Ecco, magari sorvolerei sui consigli delle sorelle Lecciso (trovate pure quelli nel libro), ma se qualcuno o qualcuna ha ancora la fortuna di poter passare qualche
giornata sotto l’ombrellone …non si faccia scappare il manuale di “rieducazione del maschio convivente”, in questo viaggio “virtuale” tra Venere e Marte, da affrontare con disinvoltura e ironia. Perché, in fondo, nulla è più vero: Uomini, Donne … finché c’è amore, c’è speranza! ;-)
(Come vivere con un uomo e riuscire ad essere felici, Attanasio-D'Agostino, Edizioni L'Airone)

09 ottobre 2006

"Il deserto dei Tartari" di Dino Buzzati

di Augusto da San Buono

“Con Buzzati se ne va la voce del silenzio , se ne vanno le fate , le streghe , i maghi , gli gnomi , i presagi , i fantasmi. Se ne va dalla vita il Mistero”, scrisse Montanelli il 29 gennaio 1972 sul “Corriere della Sera", il giorno dopo la morte dello scrittore bellunese. Ma – continua Montanelli - così come se ne è andato potrebbe anche tornare , alla Buzzati, perché se c’è un qualcosa al di là di noi, nessuno se le è guadagnato più di Buzzati, che ha trascorso la vita a captarne i messaggi e a decifrarli per noi. Ora può darsi che sia lui a lanciarcene qualcuno, ma come potremo afferrarlo?...In realtà sembrerebbe che Buzzati messaggi ne avesse lanciati anche prima di morire , ma aveva fatto divieto al vescovo di Belluno ( al quale si era confessato) di non raccontarlo prima che fossero passati dieci anni. Ma qual era questo messaggio? E’ in queste parole, pubblicate sull’Avvenire: “ Un’ansia inconsueta si accende in me alla sera . come quella del tenente Drogo... Ho bussato , la porta si è aperta”. Voleva forse dire che aveva trovato la fede , dopo una vita da non-credente?. Voleva dire che aveva intuito le orme di Dio nelle valli riarse del deserto dei Tartari , che Dio si nasconde dietro i Tartari che Drogo attende da sempre nel deserto , voleva dire che Dio “è “quel deserto e i Tartari? Non lo sapremo mai (“Buzzati ha qualcosa d’inaccessibile e segreto, segreto forse anche a lui, un’ultima spiaggia d’impossibile approdo a chiunque, c’è in lui qualcosa di innocente e diabolico”, scrive Montanelli che gli era amico), ma possiamo andare a rileggere il suo romanzo più famoso, quello che gli diede la fama e la gloria.
Quando scrisse il "Deserto dei Tartari" Buzzati aveva 33 anni e si avviava a diventare uno dei più importanti scrittori italiani, il che destò qualche invidia nell'ambiente. C'è chi disse che si era "kafkato" addosso. In effetti il tenente Giovanni Drogo, alias Dino Buzzati, autoreclusosi nella Fortezza Bastiani-Corriere della Sera, qualcosa di kafkiano ce l'ha . Ma Drogo-Buzzati non è certamente così radicale e metafisico come lo scrittore boemo; è piuttosto un allegorico personaggio che vive di "attese", di speranze e di illusioni, come la maggior parte di noi.
Nel suo solito modo di raccontare , atmosfera sospesa tra il magico e l'inquietante , il poetico e l'angoscioso ,in una dimensione senza tempo, Buzzati rifà la storia della sua (e in qualche modo della “nostra” ) vita. Passati i sogni e le illusioni, ormai vecchio , non servi più e pertanto vieni espulso dalla Fortezza-Società. Ti trovi a fare i conti con la morte, ultimo appuntamento a cui nessun essere umano può sfuggire. Solo, piangente, disperato , abbandonato in una anonima locanda , Drogo è già maceria e rovo.
Ma è proprio l'accettazione della morte a cui va incontro con un sorriso , "benchè nessuno lo veda", che lo rende finalmente sereno, pacificato, libero. C'è proprio tutto il bellunese Buzzati, qui, con la sua fierezza e grande dignità, la sua estetica militare da “Marcia di Radetzky , ma anche un Buzzati "cristiano",- dice Montale - pur non essendo egli credente , un Buzzati che , benchè molto ammirasse l'autore del Processo", non era certamente kafkiano, perché a differenza del boemo, lui “poteva quasi tranquillamente ostinarsi a bussare” a quella porta.

Ma c’è anche chi sostiene che in realtà Buzzati vuol mettere solo in ridicolo l'attesa di Drogo, la sua vana ricerca di qualcosa che dia senso alla sua vita... D'altra parte ci dice chiaramente che a determinare la scelta del giovane ufficiale non è l’eroismo , ma la pigrizia, l’ abitudine, l’ apatia. Eppure... eppure Buzzati è un uomo che ha rispetto per una vita spesa così, nella solitudine della montagna ( Montanelli dice che era irraggiungibile nella sua banchisa di solitudine ) e nella speranza dell’attesa di qualcosa di più alto, che dia un senso alla esistenza stessa. Una vita che appare comunque più "nobile" rispetto a quella delle futili gioie della città.

Anche i personaggi di Becket sono in attesa , ma non sanno più di chi o di che cosa, la loro attesa diventa assurda, grottesca, ridicola, non hanno niente della dignità dell'ufficiale Drogo. Sì , forse Buzzati ha una sua forma di "religiosità", mentre quella di Becket è la parodia, la presa in giro della religiosità.
" Sulla via di Damasco , Buzzati è rimasto sempre a cavallo", scrive Walter Pedullà. Secondo lui , Buzzati si ferma sul crinale della ricerca del cristianesimo. Ma ora sappiamo che forse anche lui, come Saulo da Tarso, è sceso da Cavallo, sappiamo che – forse – ha visto la luce oltre il mistero. E' pur vero che Buzzati è maestro dell'arte del non dire , dell'allusione, dell'attesa, della ricerca, dell'ansia, della domanda senza risposta , del vuoto, della lontananza , del confine, dell'apparizione sfumata , insomma del chiaroscuro irreale, ma io credo fermamente che avesse in sè come un tarlo, un rimorso , un mancamento, un'assenza , un venir meno della coscienza , un desiderio di recupero dell'innocenza iniziale , una lucidissima e strenua fedeltà alla purezza delle voci del sogno, fossero le foreste del bellunese o le fortezze
immobili-navi arenate in un mare di sabbia dall'equipaggio coleridgemente impietrito per aver ucciso l'albatros , erano tutte “voci” di Dio ; insomma c'era dentro di lui la consapevolezza di qualcosa molto simile al peccato originale, e – come scrisse Vittorio Feltri inun’intervista alla giovane moglie , Almerina , sapeva che dentro di lui c’era un tumore , molto prima della diagnosi dei medici. “Glielo avevano anticipato i diavoli e gli angeli con i quali era in misteriosa relazione” Forse il "Deserto dei Tartari “ il Tenente Buzzati non l'avrebbe mai dovuto pubblicare, ma scriverlo, continuamente scriverlo e ri-scriverlo.
(Il deserto dei tartari - Dino Buzzati - Mondadori)

"Il senso religioso" di Luigi Giussani

La strada di Giacobbe di A. di Biase

Che cosa era – caro Gius – quell’immagine di gesso che il tuo primo maestro disegnò sulla lavagna nera? Che cosa erano quel cerchio, quel triangolo, quel punto? Che cos’era quella lettera, cosa quel numero? Erano oggetti oppure erano idee? Li conoscevi prima?
Quanto sei lontano tu – maestro di realismo – dal metodo di quelli che han visto nella Storia il cammino dell’uomo? e dai quali con tanto accorgimento vorresti discostarti?
Certo c’è un po’ di presunzione, diciamolo, in questa pretesa – messa per di più a preambolo – di voler affermare la verità, come se la “certezza morale” di un rabbino o di un aborigeno non potesse essere bella, forte e piena tanto quanto la tua. Però mi sei piaciuto Gius, perché non solo sei concreto, sei proprio autentico. Il tuo linguaggio colpisce perché è vero, sa di quotidiano, parla di ciò che vivi, è l’esperimento della tua vita.
Più di tutto mi ha colpito una tua frase:”E’ solo il rapporto con l’al di là che rende realizzabile l’avventura della vita. La forza umana nell’afferrare le cose dell’al di qua è data dalla volontà di penetrazione nell’al di là”.
Si tratta di una affermazione veramente molto interessante, sia per la capacità di seduzione psicologica nei confronti di chi legge, sia per la questione interpretativa che pone, davvero non banale.
Bella storia Gius, che cosa diavolo è l’al di là? E’ molto importante chiarirsi questa cosa perché ne “Il senso religioso”, il tuo testo base mi pare, tu tracci un percorso importante, una strada condivisibile che se pure certamente non è l’unica possibile, contiene i segni comuni alle molte strade che portano l’uomo verso la luce. Però cos’è l’al di là? Cos’è la rivelazione di cui parli e di cui parlano Platone, Avicenna e tutti gli altri? Cos’è l’Altro? E’ altro da noi o è quella parte di noi che non comprendiamo? Dire che non posso controllare il battito del mio cuore, descrivere tutto questo come una volontà diversa che mi avvolge e che mi riempie è sufficiente a dire che il Mistero è altro da me, oppure il Mistero sono io? L’altro mondo è un mondo intero fuori o è metà del mio mondo, della mia realtà, della mia coscienza?
Si potrebbe andare avanti ancora molto con le domande, ma giustamente tu stesso hai citato Ricoeur per sostenere che “Quello che io sono è incommensurabile con quello che io so”. La domanda ultima è dunque, quello che io non so, e che non posso, non sono io medesimo?
E’ veramente molto difficile dire con certezza se il mio progresso nell’al di là, nel mondo dello spirito, dipende da me, dalla mia virtù o da Altro. E anche quando questo Altro si manifesta è difficile dimostrare che sia davvero Altro. Solo chi lo vive può dirlo, ma non può spiegarlo e non gli importa neppure perché la sua “certezza morale” gli basta. Se lo dice, se indica una strada, lo fa solo perché spera che la sua esperienza di luce possa toccare e scaldare gli altri, se li vede cupi o infelici, non certo per un desiderio speculativo del quale non ha bisogno.
Si arriva in questo modo velocemente a percepire l’importanza del tuo PerCorso – caro Gius -, inteso come strada, come sforzo dell’uomo di buona volontà che insiste perché vede dei segni e capisce che quella è la Strada. In questo modo le domande, che pure ci sono, diventano poche.
Dov’eri Gius quel giorno che incontrasti “Il Pioppo” di Rebora? Era un albero isolato? C’erano forse orme antiche ai piedi del tronco? Di chi erano?
Dillo anche ai tuoi Gius, ognuno si scelga la dottrina che più lo convince, quella che è più vicina alla propria sensibilità, al proprio retaggio culturale, alla propria geografia, ma la strada dell’uomo è sempre la stessa, così come la buona volontà nel percorrerla. Chiunque abbia la forza di fare quel primo piccolo passo nella direzione giusta, si dirà di lui che ha incontrato Dio.
“Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca”.

(Il senso religioso - Luigi Giussani - BUR - euro 7.50)

"Il conte di Montecristo" di Alexandre Dumas

Il Barone e la Bellezza di Francesco Ogliari (tratto da "La Prealpina" del 8 ottobre 2006)

Alla fine del "Conte di Montecristo", il barone Danglars, catturato dai banditi incaricati di fargli restituire il maltolto, si vede costretto per non morire d'inedia a pagare un pollo arrosto con un milione . Più o meno quel che spenderanno in Costa Azzurra altri personaggi in attesa del nuovo anno , quasi due secoli più tardi . L'uno e gli altri avranno almeno mangiato a sazietà? L'interrogativo è retorico . I prezzi raggiunti da certe vendite all'asta di mobili d'arte o di semplici mobili d'epoca - specie il Liberty e il Dèco - fanno pensare, forse con uno strappo alle regole della fantasia, proprio a questi menù che se proprio non mandano in rovina le finanze d'un comune impiegato statale non sono consentiti al giovanotto in cerca di lavoro o al manovale reclutato il mattino presto sulla piazza d'un paese del Meridione. Con quel che costa un trumeau d'angolo o, un armadio a cristalli dell'Ottocento , un tavolino intarsiato o una comode del XVIII secolo, un paio di sedie o uno scrittoio firmati Zanuso, un appartamento da ammobiliare costerebbe caro come un ospedale da costruire e il primo a provare sorpresa o piacere sarebbe il bravo artigiano del 1840 o del 1765 il quale viveva del proprio mestiere senza farne il più delle volte un'arte o una fortuna, non meno dell'ottimo designer che esercitava al meglio la professione senza pretendere d'entrare nella storia del Costume contemporaneo. Né potevano immaginare che valore avrebbe acquistato il loro mobiletto un giorno, quando il tarlo si sarebbe messo al lavoro per dargli un'indiscussa patente di antichità e di autenticità. Che non sia proprio il tarlo ad essere pagato fior di milioni? L'ipotesi di un'infatuazione delirante per la bellezza è probabilmente da escludere. L'infelice barone Danglars divorò a quattro palmenti quel pollo arrosto perché aveva fame, mentre gli piangeva il cuore l'averlo dovuto pagare un occhio della testa. E i clienti privilegiati della Costa Azzurra magari onoreranno il sublime cenone solo perché noblesse oblie. Il concetto di bello , idea trascendentale coltivata con ossequio e passione da millenni, è sparito dalla circolazione dopo la Rivoluzione Francese quando è stato rimpiazzato dal concetto di "buono" che comprende i beni, intesi come bene assoluto. Un Modigliani vale per la grandezza della sua arte (trascendentale) o per i miliardi che rappresenta come un bene (di rifugio)? Si è mai sentito parlare, di questi tempi, d'un nuovo Lorenzo il Magnifico che abbia invitato gli artisti ad attingere dai suoi forzieri, con l'unico impegno di arricchire la comunità delle opere egregie del loro ingegno? I miliardari della società dei consumi non assomigliano ai signori di Firenze , presi come sono, invece, a nascondere, mimetizzare, le loro ricchezze. I Re Mida di oggi non sono magnifici. Se acquistano un Aristotele di Rembrandt non è perché sono affascinati da una tela dipinta che pagano adeguatamente ma perché è una tela che si arrotola facilmente, si può conservare nel caveau di una banca. Alle vendite Sotheby's all'Hotel Drouot di Rue de la Paix, la bellezza è celebrata da coloro che non possono pagarsela. Dal dilettante sprovveduto di mezzi che la vede arrivare, splendere un attimo, sparire, avviata verso lontane destinazioni e sconosciuti amatori del bello divenuto buono . dal battitore che se la vede sfuggire dalle mani dopo averla accarezzata, decantata. Se anche paradossale è il caso dell'Aristotele confuso con il finanziere greco Onassis o del dipinto acquistato per puro investimento, la nostra democrazia non è quella dei Comuni e delle Signorie, ci mancano tante cattedrali; non è più quella di Rockefeller o dei Nobel, dei Balzan e dei Gaslini. Il tempo è il tessuto stesso della nostra vita ed è, insieme,la sua distruzione. E' una fuga - la fuga del tempo -, fuga del paesaggio che sfila rapido davanti al volto di chi si trova seduto vicino al finestrino. Ecco un albero, laggiù: eccolo qui, ed è già passato. Illusione è ciò che pare immobile. Parmeide e la dottrina eleatica. Pericle, e la bellezza. Papa Leone X e Michelangelo, Raffaello. Caio Clinio Mecenate e Virgilio , Orazio, Properzio. Altri tempi ,tempi di imperatori come Augusto; con iniziale maiuscola. Rinascimento , Umanesimo. "Proteggete le arti" scriveva Flaubert a qualcuno che lo ascoltava con orecchio distratto. E' vero che la Storia si insegna sempre meno, che infuria l'Effimero, l'Immagine passeggera, l'Instant, lo Scoop, il Flash. Perché interrogare il passato, invocare i Mecenati? Siamo talmente rivolti all'avvenire che lo inseguiamo con l'avidità del famelico barone Danglars. Lasceremo alle generazioni future, come ha scritto Andrè Frossard, quel che la fisica ci consente di trasmettere loro: atomi, e vuoto.

Chiusura della libreria Veroni di Varese

di Eros Barone (tratto dalla rubrica "Con rispetto parlando" de "La Prealpina" del 8 ottobre 2006)

La chiusura di una libreria è sempre un evento inaspettato e inaccettabile, che richiama alla mente l'immagine di un vandalo nell'atto in cui, spinto da un risentimento cieco ed ottuso, lacera e sfregia con un coltello la tela di un bel dipinto. Nello stesso modo quell'evento ferisce il cuore e rattrista l'animo di chiunque ami la cultura, e i libri che di questa sono il principale mezzo di comunicazione. Laddove vorrei che il termine di 'comunicazione', così usurato e consunto nei nostri tempi altrettanto labili quanto telematici, fosse percepito nella sua accezione primaria e fondativa, e quindi nella sua laica sacralità, come 'ciò che si mette in comune', 'quel pane del sapere e della conoscenza che mai può essere spezzato e condiviso da soli'. Tali, o non molto differenti da queste, sono state le impressioni che ho ricevuto, con i sentimenti e le riflessioni che le hanno accompagnate, quando qualche giorno fa - in coincidenza simbolica con la fine dell'estate -, trovandomi a Varese e avendo deciso di passare dalla libreria Veroni, giunto che fui nelle sue vicinanze, mi resi conto, osservando le vetrine dove di solito facevano bella mostra di sé le novità librarie, che gli scaffali erano vuoti e che la stessa scena desolante si ripeteva, anche se in forma meno vistosa, nei locali interni della libreria. "Buongiorno, professore," mi salutò con la consueta sorridente affabilità, venata tuttavia da un'ombra di tristezza e di apprensione, il signor Aldo Veroni, "come andiamo?". "Bene, carissimo, altrettanto mi auguro di Lei," risposi, e domandai a mia volta: "State rinnovando i locali?". Così appresi, da colui che è sempre stato, prima ancora che un venditore, un amante dei libri e un amico dei lettori, come e qualmente la parabola discendente delle vendite negli ultimi anni, l'aumento inarrestabile dei molteplici costi che gravano sulla conduzione degli esercizi commerciali, la dura concorrenza della grande distribuzione e la selvaggia ristrutturazione del mercato in senso vieppiù monopolistico non avessero consentito altra alternativa che non fosse quella di abbassare per sempre la saracinesca, ponendo fine all'attività di una libreria storica della città di Varese. E mentre il signor Veroni mi spiegava come la legge del massimo profitto non conceda sconti e non riconosca eccezioni a chicchessia, risuonavano nella mia mente i versi, ad un tempo irati e accorati, con cui il poeta lombardo Giovanni Raboni ha dato voce ad una memorabile invettiva contro il mercato capitalistico: "Che in tutto fra tutte suprema sia / la legge del mercato, che a lei deva / subordinarsi restando utopia / per sempre tutto quello che solleva / l'uomo da se stesso sembra alla mia mente quasi incredibile. Ma alleva / menti per crederci l'economia / trionfante, fa che ciascuna s'imbeva / di quel credo miserabile e creda / a esso fieramente come al più santo / vangelo; e non ha scampo chi rimpianto / dell'altro s'ostina finché non ceda di schianto il cuore a provare e di noia / trema dove per altri è ottusa gioia." "Sono sconcertato, desolato e addolorato per quanto mi ha riferito," esclamai dopo aver ascoltato le parole dell'amico libraio, "e Varese che fa? Non posso credere che il Comune assista, senza intervenire, a quella che è una perdita secca per la qualità della vita culturale e sociale della città?". Il mio interlocutore, allargando le braccia, mi rispose che la solidarietà dei clienti più affezionati non era mancata, ma che la congiuntura stagionale non aveva favorito una maggiore e più sollecita sensibilità. "Caro signor Veroni, non mi illudo che un articolo della mia rubrica possa risolvere il problema, ma è l'unico modo in cui posso manifestarLe la mia solidarietà e lanciare un appello a chi, potendo, deve intervenire". La conversazione volgeva alla fine, il mio interlocutore mi salutò: "Caro vecchio professore, d'ora in avanti avrò più tempo da dedicare alla lettura dei libri...". Non occorreva parlare oltre. Il suo volto, pieno di nobiltà e di umiltà al tempo stesso, dava come sempre, ad onta delle avverse circostanze, serenità e conforto a guardarlo. Essere stato un frequentatore della sua libreria, aver intrattenuto con lui, in quei locali ordinati ed eleganti, una civile conversazione, aver sentito quale fondo di chiarezza alimenti in lui il bene della vita, sono doni che sopravvivono alla fine di un'attività e alla chiusura di un negozio.

07 ottobre 2006

L’Apocalisse di Pasolini

di Camillo Massimo Fiori (tratto da "La Prealpina" del 26 settembre 2006)

Nel lontano 1975 Pier Paolo Pasolini scrisse sul "Corriere della Sera" un articolo con cui denunciò che qualcosa di terribile stava accadendo. Erano gli anni della trasformazione dell'Italia da paese agricolo a potenza industriale, da terra di emigrazione a rifugio per le masse di diseredati del terzo mondo. Il livello di benessere individuale raggiunto eguagliava lo standard americano, ma il prezzo pagato era stato altissimo.La terra era stata inquinata dai pesticidi e la campagna era sconvolta, sommersa dal cemento; gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti si erano trasformati in cloache a cielo aperto; l'aria delle città era divenuta una miscela venefica di gas di scarico e di polveri sottili; le primavere erano diventate silenziose per la scomparsa della fauna. Le lucciole, che sono gli indicatori naturali della salubrità dell'ambiente, erano anch'esse sparite.Allora non si capì che la questione ambientale stava diventando centrale allo stesso modo che, addietro, lo era stata la questione sociale.
Solo adesso ci stiamo accorgendo che l'intero ecosistema è in sofferenza: le alluvioni hanno devastato mezza Europa; la lunga estate, torrida e secca, ha fatto morire i boschi, divenuti facile preda dei piromani e dei vandali; i laghi carenti di ossigeno sono divenuti la tomba dei pesci; i ghiacciai si ritirano e i mari si surriscaldano.Da secoli non si era mai visto nulla di simile e le conseguenze non sono limitate alla flora e alla fauna; anche gli umani ne soffrono e molte migliaia di persone anziane non ce l'hanno fatta, nelle passate estati, a sopportare le temperature tropicali a cui non erano abituate.Le cause sono note: è il mutamento della composizione chimica dell'atmosfera, legato all'aumento dei gas ad effetto serra, che determina il surriscaldamento dell'atmosfera, del suolo e degli oceani. I cambiamenti climatici hanno carattere generale, sfuggono in gran parte alle misure apprestate a livello locale (ogni anno vengono distrutte nel mondo foreste pluviali per un'estensione pari all'intera Svizzera), costituiscono una sfida globale perchè sono all'origine dei rischi di catastrofe ambientale. Occorre un sistema di governance globale sostenuto da un'opinione pubblica responsabile per spingere i governi nazionali ad una collaborazione internazionale.
E' su questo crinale che si colloca la metafora pasoliniana della scomparsa delle lucciole: quel "qualcosa" di terribile che stava accadendo, e che oggi è accaduto, non riguardava soltanto il paesaggio, la natura, l'ambiente, ma il cuore profondo degli uomini.La spaventosa trasformazione scatenata dalla modernità non ha soltanto degradato i fiumi e le rogge ma ha anche stravolto la mente e il carattere delle persone. Un "nuovo tipo di civiltà" ha scalzato i valori certi (chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità) che appartenevano all'universo agricolo e paleocapitalistico ormai tramontato.In tale vuoto di valori emerge un nuovo potere che "deformando la coscienza del popolo, ne favorisce una radicale mutazione antropologica". Quando Pasolini faceva questa considerazione eravamo agli albori del consumismo e stava nascendo la televisione commerciale che ha allevato una enorme audience spacciando volgarità aggressiva, allegria sguaiata, ignoranza esibita. Essa ha inoculato negli spettatori sentimenti e risentimenti in linea con il senso comune ma spesso in spregio del buon senso, azzerandone così l'attitudine al ragionamento e alla riflessione.Giovanni Sartori, professore emerito della Columbia University di New York, ritiene che "la televisione sta cambiando l'uomo e la politica". La persona video - formata è sempre meno un soggetto mentale capace di astrazione e in grado di capire al di là del vedere.
E' un fatto che la cultura scritta viene ad essere progressivamente soppiantata dalla cultura visiva e l'homo sapiens viene sostituito dall'homo insipiens; ne deriva che tutte le democrazie, secondo l'economista John Kenneth Galbraith, vivono nel timore permanente di essere condizionate dagli ignoranti istruiti.Ecco spiegato il paradosso: abbiamo davanti agli occhi la visione della distruzione dell'ambiente ma non siamo in grado di comprendere la radicalità della sfida.Non è più sicuro che il mondo e la civiltà abbiano un futuro!
Quasi vent'anni dopo Pasolini, un altro grande testimone del nostro tempo, il monaco don Giuseppe Dossetti, già eminente uomo politico democristiano, ha scritto che il vuoto ideale ed etico viene compensato con la ricerca spasmodica della ricchezza e dei beni, l'inappetenza di valori viene colmata da appetiti crescenti di cose. L'ossessione del piacere e l'eccesso di immagini mediatiche provocano così l'ottundimento delle facoltà superiori dell'intelligenza: la creatività, la contemplazione, il discernimento, la capacità critica.L'apocalisse pasoliniana trova conferma nella riflessione dossettiana; lo scrittore e il monaco dalle comuni radici cristiani sembrano concordi nel dire: "Questa è la notte delle persone". Ma c'è anche la speranza di un nuovo mattino.

06 ottobre 2006

Le strade di Oriana Fallaci

di Antonio V. Gelormini

Immancabile, prematura e precipitosa, all’indomani della scomparsa di Oriana Fallaci, è cominciata la corsa alla richiesta di intitolazione di vie, strade e piazze. Qualcuno si è spinto a chiedere anche quella di un teatro (a Milano e a Varese), temendo la beffa di vedere i marciapiedi prescelti invasi da bancarelle improvvisate, djellabah di ogni fattura e profumi speziati dal forte sapore extra-comunitario.

Il malvezzo italiano ai facili entusiasmi, all’esaltazione suprema sugli altari e al repentino abbandono nella polvere, in caso di caduta in disgrazia dell’osannato, ha radici antiche. Testimonia una sostanziale superficialità di fondo, che porta a lavare le coscienze con sorprendente facilità, ad inflazionare i minuti di silenzio, le medaglie, le vie e le piazze con dedica. E segnala quella dose di ipocrisia, che la Fallaci perseguiva con disprezzo e smascherava con cinica precisione.

Una debolezza, purtroppo, che enfatizza e produce clamore per l’eroico “saluto alla vita” di Fabrizio Quattrocchi, ma fa passare quasi sottotono il gesto immenso di suor Leonella. “L’artigiana di pace” che, perdonando i suoi assassini, diventa “segno pacifico di contraddizione e dimostra la vittoria dell’amore sull’odio e sul male” (Benedetto XVI).

Ci sono ancora troppe poche vie dedicate a Eduardo, a Croce, a Montale, a Pirandello, a Luzi o a Boccioni e Modigliani per pensare già di fissare e archiviare, su una lastra di marmo o una tabella di latta, la memoria scomoda di uno spirito ribelle come quello di Oriana.

Ora il suo riposo merita pace e rispetto. Il tempo, come al solito, riuscirà ad essere galantuomo!

(gelormini@katamail.com)

05 ottobre 2006

L'arte di Mimmo Anteri

di Augusto da San Buono

Metti una sera di fine maggio in una Gallipoli pietrificata innumerabile infinita eterna sempre uguale a se stessa nella sua ciclicità circolare, con un mare da darsena di luci e da catamarano blu velluto sulla riviera di levante che all’orizzonte torna ad essere il mare-madre-magma-materia che tutto accoglie. E, dietro il mare, una casa-piramide-terrazza-finestra – labirinto-melograno, una sorta di castello incantato “dai destini incrociati”, in cui vanno a convergere tredici piccoli indiani cacciatori di emozioni, “dono prezioso degli dei”, per trasformarle in qualcosa di visibile, di percepibile, di materico, attraverso le parole, la musica e la pittura. Metti un po’ di giovane Ennio Morricone dal sangue sull’asfalto, da Califfa prima e dopo l’amore, che rifà nascere Venere dalla schiuma del mare; metti una serie di tavole acriliche colorate, dove c’è spazio tempo geometria delle sofferenze e sangue, la profondità di certi strati delle carni e dell’anima, o paesaggi cristallizzati con i loro mondi rotanti di viola, fazzoletti bianchi e nastri rossi, fili di memorie e di silenzi che legano passato e avvenire, trasmigrazioni blu mentalis, elegie mediterranee e notturni di densa ritmicità, risonanze e vibrazioni di un’anima, opere che fasciano le pareti di quel castello incantato dai destini incrociati, e che ti guardano intensamente come corpi illuminati, echi di memorie primigenie, figurazioni liriche, esiti di sogno. Metti al centro della sala l’autore nonché Signore del Castello, Mimmo Anteri, con le sue idee d’uomo di cultura autentica, di artista “accanito sperimentatore e grande classico”, che basa le proprie scelte sul principio della "necessità interiore" e del “palpito dello spirito"; metti, connessi ai quadri e alla musica, dei versi di grandi poeti del Salento, - vds. Bodini, Pagano, Verri, Toma, D’Andrea, ecc. - e, sullo sfondo, degli attori che sanno recitarli a dovere, come Pino Della Rocca, Manola Petruzzi e Francesco Cortese del gruppo teatrale Talianxa di Gallipoli; metti nella dialettica che segue un sospetto di magia rinascimentale che anima e coinvolge, appassiona, fa incontrare e scontrare, da un lato, un critico d’arte architetto dell’invisibile come Eugenio Giustizieri, lucido, umano e di libero segno; e dall’altra un artista magliese decisamente informale, da “ autre”, come Nicola Cesari, che fa da anni ricerca di autenticità nei confronti del reale, soprattutto della realtà naturale nei suoi molteplici aspetti; metti, a ridosso dei due, un pragmatico, un giovane manager culturale vivo brillante e ricco di idee innovative come Augusto Cavalera, che da anni va gridando nel deserto che arte e cultura sono essenziali, indispensabili per lo sviluppo del territorio; aggiungi uno scrittore rabdomante assetato di acqua sorgiva salentina come Maurizio Nocera, da sempre alla ricerca di radici e di talenti, e della loro valorizzazione; metti tre donne vere, e splendide, nella loro diversità, - Francesca Testa (artista), Pamela Serafino (insegnante e scrittrice) e Ada Donno (insegnante, giornalista e militante attiva, particolarmente impegnata sul fronte dei diritti delle donne mediterranee e delle aree più depresse del mondo)- tutte in prima linea nei confronti dell’arte, cultura e società, e vivamente attratte e partecipi dell’inusitato convegno che sembra farsi da solo. Infine, aggiungi un pittore come Tonino Cavalera che, umilmente, si traveste da cameramen, per immortalare l’evento, e – dulcis in fundo – la presenza (rara, per non dire unica) del nostro amato direttore, Nicola Apollonio, in qualità (ci tiene a sottolinearlo) di “puro spettatore”, ma in realtà un po’ granchio e un po’ farfalla, nonostante la sua mole, sospeso tra scetticismo e curiosità, ombra di melanconia e spiraglio d’umorismo. Aggiuncici un cavaliere del secchio (il vostro cronista), mescola il tutto ben bene, fai uno scekeraggio, e otterrai un cocktail originale, un vero e proprio shock, per qualcuno, così vivo, intenso, stimolante, come non ti saresti mai aspettato, qualcosa che avrà sicuramente un seguito, una ripercussione sugli spettatori della serata, considerato anche che questa sorta di metissage culturelle, come direbbe Florio Santini, è stato allietato dal finale sulla terrazza a guardare il catamarano blu che nel frattempo s’era fatto etereo, anima metallica danzante sull’acque magiche. Ti può capitare – per un attimo - di dimenticare i tuoi pensieri, le tue preoccupazioni, i tuoi principi filosofici e lasciarti scorrere addosso lo spazio e il silenzio nudo delle cose, come i gabbiani che seguono il loro corso naturale, o di ritrovarti come una sorta di equilibrista gravitazionale “chagalliano”, provare paura, sgomento e, insieme, il senso della libertà, l’ebbrezza del volo e dell’infinito, il ritorno all'armonia della natura e del creato, ad una verginale purezza. Tutto ciò possono trasmetterti i quadri di Mimmo Anteri, perché tutto - tracce memorie e nostalgie dei mattini iniziali del Salento, ma anche abissi di solitudine, fragilità, cristalli e costellazioni, figure d’anime che vengono da dove non siamo mai stati, - è dentro di lui. Diceva Aligi Sassu :"la pittura è poesia e musica del silenzio, prima ancora di essere verità che cala nel presente il passato ma anche l'avvenire, ciò che sarà ed è". Ma – alla fine - il poeta, il musicista, il pittore, l'artista, non hanno nessun potere taumaturgico, non possono consolare nessuno, né possono abituare l'uomo all'idea della guerra e della morte; non possono diminuire la sua sofferenza fisica, né promettere un eden, o un inferno più mite. E tuttavia, quando siamo scontenti per il mondo com’è, quando questo nostro mondo sembra non potersi reggersi più così com'è, uno ha bisogno, magari per un attimo, di una proiezione fuori dall'immanente. Ed è questo, in fondo, quello che ci ha donato l’arte di Anteri, in una sera di fine maggio, in un paesaggio e in un’atmosfera di sospesa astrazione.

03 ottobre 2006

"E per tetto un cielo di stelle": storia di Salvatore Furia

di Gianni Sparta' (tratto da La Prealpina del 24 settembre 2006)


Uno psicanalista direbbe che, arrivato a Varese dalla natia Catania, Salvatore Furia ha sentito la mancanza dell'Etna. Lui ride, non lo esclude e la racconta così: «Sceso dal treno alla stazione dello Stato ho visto all'orizzonte il massiccio del Campo dei Fiori. L'ho visto per intero, dalla base alla vetta, perché a quel tempo, ottobre del 1940, lo sguardo sulla città non era oscurato dai palazzi. L'ho visto all'ora del tramonto, col sole che rosseggiava e la prima cosa che ho fatto, una volta sistemato nella casa della nuova vita, mi ci sono arrampicato in sella a una bicicletta da donna. Non me ne sono allontanato più e sono passati più di sessant'anni». Il Professore, classe 1924, è seduto alla scrivania del suo Centro geofisico dal quale ogni santo giorno alla sette della mattina detta ai lombardi le previsioni del tempo attraverso i microfoni del radiogiornale Rai e le conclude augurando a tutti "pensieri positivi". Il libro della memoria si apre il giorno dell’equinozio d’autunno e lui dilaga mentre nella stanza accanto la fedele Rosy segue come un satellite-spia le orbite oratorie del grande affabulatore. Se sbaglia qualche data interviene premurosa e alzando la voce corregge. Prima di tutto la famiglia: il padre, mezzadro in un podere nella piana catanese, aveva insegnato al piccolo Salvatore dove trovare la Stella polare e l'Orsa minore nel cielo buio. Il resto lo imparò lui da solo, approfondendo studi di astronomia e cominciando a spiegare i misteri dell'universo ai ragazzi nelle scuole, agli impiegati e agli operai nei corsi del dopolavoro. Decine, centinaia di conferenze caratterizzate da tre forze naturali: l'eloquio fluente, l'amore per il Creato, la voglia di emergere che in un siciliano si moltiplica al quadrato quando oltrepassa lo Stretto di Messina. Ed eccola la storia di un’avventura che compie 50 anni: la "Cittadella delle scienze" del Campo dei Fiori e cioè l'osservatorio astronomico sbucato dal nulla a 1300 metri sul livello del mare, un orto botanico, una stazione per la registrazione di frane e terremoti, un centro meteorologico e -quel che pare contare di più- una scuola che ha allevato in mezzo secolo non meno di cinquemila giovani marmotte della fisica, dell'astronomia, della matematica. Qualcuno ha fatto carriera e declina il verbo appreso sulla montagna in aule universitarie e centri di ricerca.In principio, nel 1956 e dintorni, fu un treppiede sul quale Salvatore Furia montava il suo binocolo puntandolo nell'oscurità in direzione della Luna e di Andromeda. Poi venne una baita di legno, issata sulla cima non ancora popolata di larici e di abeti. Infine spuntò una cupola di rame e cemento, anzi una specola dalla quale mirare astri e pianeti col telescopio. Sembra una favola: Furia ci mise il lavoro, il carisma, la passione, la fede, sì, anche le fede. Una nobildonna, Sofia Stringher Zambeletti, discendente degli industriali farmaceutici sposata a un famoso banchiere, gli donò centomila metri quadrati di bosco al Campo dei Fiori. Un imprenditore di origini cinesi che fabbricava abiti e impermeabili con i marchi Facit e Valstar, Sai Chang Vita, gli regalò cinquanta milioni degli anni '60 per innalzare i muri dell'osservatorio. E un sindaco, Lino Oldrini, buttò le braccia al collo all’immigrato catanese che riusciva a farsi dare soldi dai varesini. Il primo cittadino, aveva proposto di farlo sulla collina che sovrasta i Giardini Estensi l'osservatorio astronomico. Furia si oppose e la vinse. Negli anni successivi ebbe un altro alleato, il sindaco Mario Ossola. Il club varesino degli astronomi per caso si diede un nome: società Schiaparelli in omaggio all'eccellente astronomo che aveva studiato l'origine delle stelle cadenti concludendo che esse erano frammenti della cometa di Swifftuttle il cui ritorno sulle nostre teste è accompagnato da oscuri presagi. Centrerà in pieno la Terra - dicono - ma i contemporanei si rilassino: accadrà nel 2126. Qualche nome dei soci originari: Tonino Piccinelli, Mario Tagliabue, Orlando Morelli, Giorgio Cavalieri. Nelle torre littorea di piazza Monte Grappa la prima sede, subito abbandonata perché il manufatto, attaccato dai partigiani durante la guerra, cadeva a pezzi. In un angolo di Villa Mirabello la seconda sistemazione «in punta di piedi - racconta Furia - per non urtare la suscettibilità di Mario Bertolone, santo protettore del museo e delle sue collezioni». Quanti ricordi in cinquant'anni. Il giorno della grande scelta, ad esempio: «Mi chiamò Francesco Zagar, grande matematico celeste, direttore dell'osservatorio di Brera dove lavoravo da volontario negli anni '60», rivela il Professore. «Voleva andassi con lui a Cape Canaveral a fare calcoli sulle prime missioni lunari. Gli dissi di no, con qualche frattura in famiglia. All'America preferii Varese». Oppure il giorno dell'incontro con Sai Vita: «La domenica mattina fuori della basilica di San Vittore mettevamo i banchetti con le foto delle osservazioni astronomiche e io facevo conferenze, spiegavo, parlavo. Un signore con un codino di capelli, un pastrano blu elettrico e un bastone di bambù tra le mani si avvicinò e mi disse: "Lei affascina, io le do i soldi per costruire l'osservatorio. Non mi deluda"». Poi l'impatto, non morbidissimo, con Sofia Stringher Zambeletti: «Mi diede appuntamento al Campo dei Fiori e tardò più di un'ora. Vidi arrivare una signora elegantissima che disse: "Cerco un certo Furia, sapete chi è?". Gli risposi seccato: "Veramente Furia sono io e aspetto da un'ora una certa Zambeletti". Si fece perdonare la straordinaria Sofia. Qualche giorno più tardi mi telefonò il vecchio notaio Zanzi e mi invitò a sedermi perché doveva darmi una notizia da svenimento: "Ho qui in studio la signora Zambeletti, le regala centomila metri quadrati di bosco. Contento?". Io ne avevo chiesti per sbaglio 25mila, contravvenendo alle raccomandazioni di Oldrini che ne riteneva sufficienti 2500».Già: è lastricata di fatiche e donazioni la storia della Cittadella. Le fatiche di Furia e dei suoi ragazzi che negli anni '60 costruirono la strada per Punta Paradiso spaccando pietre, facendo esplodere mine, picconando il bosco da mattina a sera. E le donazioni di personaggi, tutto sommato rimasti nell'ombra, ai quali si deve affetto e gratitudine. Ciò che hanno fatto, fidandosi di uno scienziato autodidatta salito dalla Sicilia, l'ha avuto in dote la città. Sono diventate tre le specole. La seconda la donarono i Mascioni di Cuvio alla fine degli anni '90, la terza è stata costruita con contributi pubblici, per lo più della Provincia. E Varese si ritrova un patrimonio di attrezzature e di conoscenze immenso. Dicono che tutto si è disposti a perdonare al o prossimo, tranne il successo. E' vero prof? «A me l'hanno perdonato. Qualche invidia, qualche sassata. Ma che sarà mai. I varesini mi hanno sempre voluto bene».

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