26 aprile 2021

Silvia Ballestra – Gli orsi – a cura di Marcello Sgarbi

 


Silvia Ballestra
Gli orsi (Edizioni Feltrinelli)


Collana: Universale Economica

Pagine: 160

Formato: Tascabile

ISBN: 9788807813887


Silvia Ballestra – con altri sette autori allora esordienti fra cui Guido Conti, Giuseppe Culicchia e Frediano Tavano – negli anni Novanta è stata una componente del progetto “Papergang” di Pier Vittorio Tondelli, teso a mettere in luce quelli che lo scrittore emiliano definiva “scarti generazionali”: giovani non omologati alla massa, adatti a descrivere la condizione giovanile. Degli echi pop e pulp di quella particolare stagione letteraria risente anche il romanzo “Gli orsi”, dove Silvia Ballestra - con uno stile trash e toni spesso ironici, a volte sarcastici, molto divertenti e divertiti – fa emergere i temi tipici di quel periodo, per certi versi strascichi di istanze sessantottine e post-anni di piombo: il disagio giovanile, i conflitti generazionali, la critica alla società del consumo fanno così da tappeto a una narrazione dal lessico gergale, densa di situazioni e personaggi grotteschi.

Subito tre quarti della prima fila sono invasi da uno sciame di porporina fatata, particelle incombuste che originano – così crede l’orso Gioele, quell’ingenuo dagli sfregamenti del cappotto in lana di vetro, una tragedia, una cosa anni settanta infiammabilissima, niente affatto primaverile, tutta disperatamente acrilica, foderata in pile e acetato viola che porta pure sfiga e basterebbe un alito di scirocco a trasformare quel sogno in una torcia umana.

Un solo fatto era certo: a parte l’involontario assedio dei ginocchi del fratello in garza e le conseguenti, origamiche posture del mio giornale, il caldo all’interno appariva invincibile. Meno di due minuti più tardi, fra imponenti vibrazioni e tensioni metalliche di natura dinamica, il treno aveva ripreso senza fretta la sua folle corsa verso nord. Di sicuro lo scompartimento dei fratelli senegalesi e mio doveva essere posizionato a picco sulle ruote, fatto sta che al rollìo e beccheggio avevano cominciato a darci dentro con puntigliosa veemenza: dal finestrino spalancato irrompeva con furia cieca, impastato d’aromi marinareschi, l’alito rovente dell’Adriatico.

I suoi occhi parevano appena usciti da una foresta, non avevo mai colto una serietà tanto risoluta in un adulto che si rivolge a un bambino. Rideva alla grande, quel dannato candelotto coi sandali infradito.


© Marcello Sgarbi

20 aprile 2021

Disertore per sempre a cura di Angelo Ivan Leone


 #Superlega

Disertore per sempre
Questa idea della super lega del calcio fatta con solo squadre super brave e finanziata dalla banca dei super ricchi, non è uscita fuori da Topolino, ma è l'atto letale e finale per quello che fu, un tempo, lo sport più bello del mondo. Il calcio: metafora e sogno della vita. Ho smesso di seguire il calcio da vent'anni. Da quando, sostanzialmente, compresi che era un gioco truccato dove c'erano tre squadre, tutte e tre del nord, che vincevano praticamente tutto o, quasi tutto, quello che c'era da vincere: a qualunque costo. Dopotutto "Vincere non è importante, è la sola cosa che conta" come disse Boniperti a capo della squadra che in Italia ha vinto più di 30 scudetti, e non Pietro Gambadilegno a capo dei Bassotti.
Come se non bastasse, a questo squilibrio di presenza e vittorie, tutte a favore di quelle tre squadre del nord, si aggiungono periodicamente, dai tempi di Paolo Rossi in poi, anni '80, gli scandali che endemicamente sconvolgono il nostro calcio: toto nero, partite e campionati venduti. Insomma siamo riusciti a fare diventare il calcio una nuova mafia, con una superba attitudine patria. Ebbene in questo letamaio non si dovrebbe porre alcuna speranza ed entusiasmo. Una sola cosa occorre fare: disertare.
Disertore per sempre.

(c) Angelo Ivan Leone

19 aprile 2021

LA VITA PRETENDE DIGNITÀ Un romanzo ‘neoverista’ di Gianfranco Galante a cura di Vincenzo Capodiferro

 


LA VITA PRETENDE DIGNITÀ

Un romanzo ‘neoverista’ di Gianfranco Galante


Gianfranco Galante nasce a Varese nel 1964. Vive per un breve periodo in Sicilia, quella Sicilia che lascerà nel suo animo un profondo ed indelebile solco, per poi tornare a Varese nel 1972. Già dall’adolescenza ha la passione dello scrivere. Ricordiamo tra le sue raccolte poetiche più recenti: “Paesaggi d’estate” (2018); “Emozioni in bilico” (2018); “Il pensiero soffia ancora” (2019). Tra le opere di narrativa: “Volevo raccontare una storia” (2020). “La vita pretende dignità” è un suo romanzo appena edito da Macchione, a Varese. «La vita racconta. racconta, la vita sé stessa; racconta a noi e spiega, racconta noi stessi agli altri, insegna, guida, offre opportunità e sfide; la vita apprende. La vita è; ed in quanto tale è luce non tenebra…». Gianfranco si ispira direttamente al sussurrare degli eventi. Egli stesso si richiama al principio giovanneo: In principio era il Verbo. Il Verbo, il Logos è una rappresentazione del reale. “La vita pretende dignità” è un romanzo neo-verista, che affonda le sue radici in quella sicilianità, tanto cara al Verga ed al Capuana. È un intreccio di storie che si ispirano alla nuda e cruda realtà: quella di Rosario, detto Sasà, un giovane siculo emigrato, quella di Laka, una ragazza peruviana immigrata. Qualcuna di queste storie ha un finale tragico, qualche altra comico, cioè finisce nel classico “e vissero felici e contenti”. Badate bene: cambia solo il finale. Tragedia e commedia hanno in comune il dramma. Questo dramma esistenziale che Gianfranco astrae dalla realtà in questo romanzo ha un comune denominatore: l’emigrazione. Il suo vociare, l’espressione narrativa, nascono in fondo dal suo vissuto da emigrato. Vero è che Gianfranco è nato a Varese, come tanti naturalizzati, ma la voce della terra più non muore, risorge dal sangue, dall’appartenenza. Quello che Hegel chiamava lo Spirito del Popolo è presente in ognuno di noi, non ci possiamo far nulla. In Argentina, meta di tanti nostri afflussi demografici, tanto da farla diventare l’Alter Ego della patria, l’Altra Italia, si era creata una lingua mista, italo-americana, particolarissima: un’entità singolarissima di connubio tra genti diverse, ma accomunate dall’anelito al progresso, alla liberazione. L’emigrazione era vista ed è vista, come liberazione. Emigrazione ed immigrazione vanno intese pertanto sotto questo comune senso. Così possiamo capire bene il sottile filo conduttore che lega le vicende del romanzo di Gianfranco. Quella pretesa della dignità, tra l’altro ha un duplice valore: negativo nel primo caso, in quanto si presenta come denuncia sociale della mala vita, non ‘malavita’, cioè nel senso di vita cattiva di Sasà, e positivo nel secondo, in quanto premio, per le sofferenze di Laka. La vita premia o castiga in base a come ciascuno la prende e si comporta. Potremmo dire, come i filosofi: la virtù è premio a se stessa, il vizio è castigo a se stesso. C’è una “lettera breve” a principio del romanzo, una lettera immaginaria scritta da un ‘ex’ alla sua amata, che comincia così: «Avrei dovuto chiederti perdono un milione di volte, ma son riuscito a chiederti perdono solo mille volte, in mille modi diversi, cercando quello giusto; mi aspettavo almeno qualche volta di essere compreso…». Come non ci ricorda il Montale? Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale/ e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Con la differenza che qui non viene riflessa l’immagine, seppure sbiadita, di una donna-angelo, ma riportato il vuoto cosmico dell’abbandono famigliare, dello sfacelo sociale, morale del “nido” pascoliano, di un modello atavico, ora considerato arcaico, quasi come dire ‘superato’, ma per che cosa? Da una baumaniana liquidità onni-annegante, cioè negante la dignità, quella dignità che aveva riportato l’uomo dalla bestialità alla pietà: Dal dì che nozze e tribunali ed are/ Dier alle umane belve esser pietose. In questo abisso baumaniano si riscontra il naufragio dell’umanità: E il naufragar m'è dolce in questo mare. Di questo romanzo ha scritto saggiamente Enea Biumi: «È la vita che assurge a protagonista e, filosoficamente, si pone come specimen di questo nuovo e interessante scritto dell’autore Gianfranco Galante.
Un inno alla vita, dunque, che non prescinde dalle persone. Anzi. Le mette in primo piano come protagonisti di un mondo e di un modo di essere imprescindibilmente rispettosi: di sé stessi e degli altri. Didascalicamente si potrebbe parlare di un saggio…». E Pietro Macchione: «Una sorprendente prova narrativa, che conduce il lettore nei meandri più oscuri dell’animo umano, dove si annida la violenza verso se stessi e gli altri, ma dove nasce anche la dignità…».



Vincenzo Capodiferro

ANGELA LILIANA GRASSI E "NATURAL STORM" - DENTRO L'OPERA di Maria Marchese

ANGELA LILIANA GRASSI E "NATURAL STORM" - DENTRO L'OPERA

di Maria Marchese




L'autrice afferra un atomo creativo, dentro sé e nel cuore del flusso sistolico/diastolico universale.

Allora accade che quella particella esploda, effigiando un big bang artistico peculiare e travolgente: così nasce "NATURAL STORM" . 


"Sono nata il ventuno a Primavera ma non sapevo che essere folle, aprire le zolle potesse scatenare tempesta" (Alda Merini)


In un fragore cromatico spontaneo, l'esteta di Desio vibra l'attimo di una babele evolutiva, il cui apparente caos si dirime da sé, confluendo nella genesi di una gemmazione feconda e cangiante. 

In questo istante cromatico, nato nell'immediatezza involta dall'uso del colore acrilico, Angela Liliana Grassi affida ad una ἐπιμέλεια (cura, intelligenza)  superiore personale e universale la risoluzione della formula genesi/azione/ nuova origine; essa si rivela, all'osservatore, nella possanza tonale e gestuale, contenuta nell'attimo pittorico. 

Questa "favola artista"  concilia il connubium terra/cielo, concepita nel senso più sublime del termine, che si fondono in un'unica mescianza: l'inostrata azione passionale viene "azzurrata"  dal divenire; così come l'esprimersi "in verba naturae" , affidato a verdeggianti condizioni, sposa un  processo odoroso di terra e storia, espresso dall'ocra, e lumeggiato da brillanti e fulminee intuizioni. Il colore verde designa, anche, uno stato di salvifica alienazione, ove l'artista diviene Ulisse nel compimento di uno spontaneo viaggio attraverso le sfere della conoscenza. 


Particolare dell'opera




Particolare dell'opera






Affiorano, tra le trame, quieti pensieri e altresì momenti di dissenso e intimità: ivi parlano le tonalità bianco e nero. 



"La tempesta è capace di distruggere i fiori ma incapace di danneggiare i semi" (Kahlil Gibran) 



Quei semi, che il celebre scrittore canta in questa frase, in "NATURAL STORM"  gemmano, tempestosi e audaci, facendo dono all'astante di un atto primievo di rinascita. 


Angela Liliana Grassi 

Angela Liliana Grassi sarà presente, con quest'opera, alla collettiva  "ΓΕΦΥΡΑ: TRA PASSATO E PRESENTE" , che si terrà presso la pregevole location di Palazzo dei Rolli Gio Saluzzo, a Genova. 

 


 "ΓΕΦΥΡΑ: TRA PASSATO E PRESENTE c



Palazzo Gio Battista Saluzzo 






L'artista e le sue peculiari dissertazioni artistiche si rivelano meritevoli di attenzione da parte del panorama artistico internazionale. 


16 aprile 2021

LA CONFERENZA SUL FUTURO DELL’EUROPA FRA FIDUCIA E SPERANZA di Antonio Laurenzano

 


LA CONFERENZA SUL FUTURO DELL’EUROPA FRA FIDUCIA E SPERANZA

di Antonio Laurenzano

Quale futuro per l’Europa? In un mondo in radicale trasformazione, alle prese con la crisi provocata dalla pandemia, un’Unione Europea che invecchia e che ancora non riesce a parlare con una sola voce sullo scacchiere internazionale e fatica a trovare la propria identità istituzionale, il proprio posto nel nuovo ordine mondiale in via di costruzione. Un orizzonte politico incerto in uno scenario segnato dall’espansionismo economico della Cina che insidia la supremazia globale degli Stati Uniti, dalla presenza minacciosa di Russia e Turchia in zone calde del Nord Africa e in Medio Oriente, dagli ingovernabili flussi migratori legati a condizioni di libertà e di povertà, oltre che dai tanti focolai di guerra.

A distanza di quasi vent’anni dal tentativo di Valery Giscard d’Estaing di varare una “Costituzione europea” per la riforma dell’Unione, miseramente fallito con il doppio no referendario in Francia e in Olanda, a Bruxelles, il presidente dell’Europarlamento David Sassoli, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente di turno dell’Ue, il portoghese Antonio Costa, hanno firmato la dichiarazione congiunta che promuove la Conferenza sul futuro dell’Europa (CoFuE). E’ l’avvio formale a un processo di consultazione tra i cittadini europei per conoscere, attraverso conferenze plenarie e panels nazionali e locali nei prossimi dodici mesi, “come costruire un’Europa più resiliente”.

Un percorso comunitario non facile, tutto in salita, all’ombra di striscianti compromessi istituzionali, con tanti equilibri da salvaguardare, a cominciare dalla presidenza della Conferenza. L’idea dell’Europarlamento era di affidarla al liberale Guy Verhofstadt ma, per le sue propensioni troppo federaliste non gradite agli Stati nazionali, si è preferito puntare sui vertici comunitari. Il vero “punto dolens” resta da sempre la questione della sovranità nazionale. Illuminante a riguardo il discorso del premier Draghi al Senato in occasione del suo insediamento. “Non c’è sovranità nella solitudine, la sovranità non garantisce l’autosufficienza in quanto le norme non sostituiscono la realtà, soprattutto in un’epoca di interdipendenze. Si può essere (formalmente) sovrani ma (materialmente) dipendenti da altri.” Costruire cioè un’Europa federale con sovranità divisa tra gli Stati nazionali e le istituzioni sovranazionali. “Gli Stati nazionali, secondo la visione di Draghi, rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa.” In definitiva, non si tratta di opporre lo stato europeo allo stato nazionale, ma di comporre, all’interno di un unico quadro istituzionale e legale, sovranità diverse esercitate democraticamente ai diversi livelli di governo. Le conclusioni della Conferenza, previste per la primavera del 2022, tracceranno la strada dell’Europa del futuro, chiarendo dubbi e contrasti di pensiero.

Inedita nel suo genere, la Conferenza, che si aprirà ufficialmente il 9 maggio in occasione della Festa dell’Europa, “è un esercizio democratico panaeuropeo ambizioso, che crea un nuovo spazio pubblico per un dibattito aperto, inclusivo e trasparente su una serie di priorità e sfide importanti. Una serie di dibattiti e discussioni avviati su iniziativa degli stessi cittadini che consentiranno a chiunque in Europa di condividere le proprie idee e contribuire a plasmare il nostro futuro comune.” L’obiettivo di fondo è quello di portare l’Europa oltre le sue capitali, raggiungendo tutti gli angoli dell’Ue per rafforzare il legame tra i cittadini europei e le istituzioni al loro servizio attraverso una moltitudine di eventi organizzati in tutta l’Unione tramite una piattaforma digitale interattiva multilingue. Vasto il ventaglio dei possibili argomenti da trattare: salute, cambiamenti climatici, equità sociale, trasformazione digitale, il ruolo dell’Ue nel mondo, il rafforzamento dei processi democratici che governano l’Unione, i flussi migratori, la sicurezza, i diritti e lo Stato di diritto, la solidarietà intergenerazionale, l’economia al servizio dei cittadini. Si punta in alto: conferire ai cittadini un ruolo più incisivo nella definizione delle politiche e delle ambizioni dell’Ue, migliorando la resilienza dell’Unione alle crisi, sia economiche che sanitarie. Un progetto nel segno della fiducia e della speranza per tracciare un futuro comune, unendo le forze e superando diversità e distanze geopolitiche. Trovare un punto di sintesi finale e mirare alla riforma dei Trattati e delle politiche europee che restituisca all’Europa la sua storica leadership nel mondo, evitando ogni deleteria e pericolosa nazionalizzazione del dibattito sul suo futuro. Un confronto per costruire un domani migliore, credibile e sostenibile.

Cosa attendersi dalla Conferenza? Chiaro l’appello dell’Unione dei Federalisti Europei (UEF): “Vogliamo un’Unione politica forte e legittimata, dotata delle necessarie risorse finanziarie e in grado di affrontare le grandi sfide transnazionali del nostro tempo, un’Unione che sia comunità di destino e di valori, un’Europa democratica e sovrana.” Auguri, vecchia Europa!


12 aprile 2021

PER TORNARE IN PRESENZA BISOGNA RIDURRE LE CLASSI-POLLAIO! Riflessioni sulla scuola nell’età del Covid a cura di Vincenzo Capodiferro

 


PER TORNARE IN PRESENZA BISOGNA RIDURRE LE CLASSI-POLLAIO!

Riflessioni sulla scuola nell’età del Covid


Risuona oggi più che mai il fatidico verso de’ “L’ultima ora di Venezia”: «Il morbo infuria, il pan ci manca…»! Ma le classi pollaio non si toccano! Non si rivedono i criteri di assegnazione delle classi. La Scuola durante l’età del Covid ha pagato duramente lo scotto della crisi. La Dad ha cercato di rimediare all’immane flagello che ci ricorda i tempi della Spagnola e della peste. Però la Dad, a lungo andare, è come il dado star, il brodino. Non può assicurare una formazione proficua. Eppure oggi più che mai, oltre ai banchi mobili, tanto promessi, in ogni istituzione scolastica, si ripropone il forte, atavico problema delle classi pollaio, proprio per evitare quell’assembramento tanto deleterio, il quale negli anni a venire costituirà sempre più fonte di insicurezza, per l’incuria dei morbi che si intensificheranno, anche a seguito dei turbolenti cambiamenti climatici in atto. Si insiste tanto sul rientro in presenza, ma se non si rivedono i criteri di assegnazione delle classi, la sicurezza, la salute si va a far benedire, a meno che non bisogna continuare ad andare avanti con le mezze classi, i mezzi uomini. Si fanno tante battaglie contro gli allevamenti industriali dove gli animali vengono ammassati come dannati tra le turbe dell’inferno, e non si affronta in maniera esauriente e duratura questa angheria delle classi pollaio. Il peso fiscale grava sempre su quelle stesse popolazioni flagellate, che oggi più che mai richiedono quei servizi pubblici che spesso vengono decurtati, benché questo onere sia grave senza dubbio, soprattutto nei periodi di crisi, allorquando vediamo la disoccupazione e la miseria dilagare, in conseguenza degli effetti di questa nefanda pandemia, e ben superiormente nelle circostanze attuali, in cui il Governo, animato dalla benefica mira di veder sollevati i suoi amatissimi concittadini, si degna di ordinare che si operino per tutti i rami e sotto tutti i sensi i maggiori sostegni economici possibili. Certo non dobbiamo in questa occasione far ignorare che per effetto di superiori determinazioni ledendo alla pubblica Scuola, il Seminarium Rei Publicae, è a rischio la stessa Repubblica: si fanno tante battaglie per ridurre la densità degli allevamenti industriali degli animali, e per le classi-pollaio? A proposito rammentiamo quanto ebbe ad avvertire un eccellentissimo Ministro, l’onorevole Pietro Calamandrei, in occasione del discorso pronunciato al terzo congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale, l’11 febbraio 1950, di come in particolare la rovina della scuola pubblica è l’inizio di un pericolo per lo Stato stesso: Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. Ed ancora risuonano solenni quelle parole. Nella pubblica scuola ognora: C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci) … Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Questa è la strada: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni! Questa è la strada che ci riconduce ai totalitarismi. Ed ora più che mai che si dovrebbe, non si mette mano a quelle misere disposizioni, le quali da sempre penalizzano i nostri allievi, quelle per cui si aumenta la densità scolastica per aula, si mettono a disagio gli esseri umani, non si valorizzano le loro capacità naturali. Si costringono i nostri presidi a dover dirottare gli alunni da un corso all’altro, senza alcun rispetto delle loro scelte, delle loro propensioni, si accumulano i giovani come bestiame a dimorare in aule ancora inadeguate, strette, con banchi da scuola elementare e sedie scomode, al freddo, al gelo. Tutto questo debbono sopportare coloro che saranno formati per il domani e costituiranno il futuro della nostra nazione e dell’Europa intera. E come non ricordare i cari articoli costituzionali? 33 e 34? E come si possono garantire questi diritti fondamentali dell’uomo, se non si assicurano i mezzi necessari agli adempimenti che il diritto allo studio propone e dispone? Dalle cime dell’Olimpo non si scorgono i dettagli di tutto il lavoro che quotidianamente i docenti, i dirigenti e tutti gli agenti della scuola svolgono nelle classi. Di lassù si vede solo il mare sconfinato della giovinezza ed hanno in ufficio il modello di un ragazzo astratto, fatto di materiali inconsistenti: idee, carta stampata, sogni utopistici. Quando poi gli Dei dell’Olimpo vengono a visitare le scuole nostre, la loro vista non migliora ed il vivo collettivo dei ragazzi non pare loro essere una nuova circostanza che desta innanzitutto preoccupazioni di carattere tecnico. Gli insegnanti, invece, mentre li accompagnano in giro per l’istituzione, già spossati dalle loro disquisizioni teoriche, non riescono a perdere di vista la minima piccolezza tecnica. Ed uno di questi problemi, che non è una piccolezza, è proprio la densità, la sovrappopolazione scolastica, che crea ansia e disagio tra gli allievi. Si vorrebbe che girassero questi Dei nei loro istituti a vedere la reale situazione in cui incorrono gli innumerevoli studenti che frequentano la scuola pubblica. Quali problemi di gestione procurano queste classi numerose! E ricordiamo ancora ciò che rispose ad Anton Makarenko nel settembre del 1920 il direttore dell’Ufficio provinciale per l’istruzione popolare: Già… per te, come dire, andrebbe bene solo se si costruisse un edificio nuovo, ci si mettessero banchi nuovi, allora saresti pronto a lavorare. Ma il problema non sta negli edifici, fratello, qui si tratta di formare l’uomo nuovo, e voi pedagoghi, invece, sapete solo sabotare ogni cosa: l’edificio non va bene, i tavoli non sono adatti- quello che vi manca è, come dire, proprio quel fuoco… capisci? Quell’ardore rivoluzionario. Ve ne fregate proprio!... al che più in là, il pedagogo russo, in quel meraviglioso Poema Pedagogico, che Voi di certo conoscete, ebbe a rispondere che bisogna formare l’uomo nuovo con metodi nuovi. Questa è la santa causa. I problemi della scuola sono sempre gli stessi. E cosa direbbero gli alunni? Noi abbiamo edifici, che sono stati elargiti dalla prodiga mano dei padri nostri, eppure non bastano! E allora? La legge ci impone di ammassare gli allievi in mega-classi, all’unico scopo del risparmio, perché non ci sono i fondi e lo Stato è in crisi. Ma di questa crisi di sicuro non sono colpevoli le nuove generazioni e per uscire da essa non si fa tagliando a queste nuove linfe il necessario sostegno. Per risolvere il problema dell’assembramento bisogna risolvere quello delle classi-pollaio, un atavico problema, mai voluto affrontare da nessuno.


Vincenzo Capodiferro

Niccolò Ammaniti – Fango –a cura di Marcello Sgarbi

 


Niccolò Ammaniti – Fango –
(Edizioni Einaudi)


Collana: Einaudi Stile libero big

Pagine: 357

Formato: Brossura

EAN: 97888069222826


Già appartenente negli anni Novanta al movimento letterario “gioventù cannibale” insieme ad Aldo Nove, Enrico Brizzi, Tiziano Scarpa, Isabella Santacroce e altri autori allora esordienti rivelatisi poi scrittori di tutto rispetto, Niccolò Ammaniti riflette in questa raccolta di racconti i tratti caratteristici della corrente pulp: ambientazioni metropolitane e storie fra il grottesco, l’horror, il giallo e la science fiction, spesso caratterizzate da toni violenti e feroce ironia e narrate con un linguaggio crudo ed essenziale. Ammaniti è particolarmente abile a “far vedere” ciò che racconta con l’uso frequente di un taglio cinematografico. Non a caso dai suoi libri sono stati tratti film quali “Branchie”, “Come Dio comanda”, o “Io non ho paura”. Anche “Fango”, molto variegato per temi e soggetti, ha ispirato con “Il capodanno dell’umanità” - uno dei migliori testi del volume – L’ultimo capodanno”, diretto nel 1998 da Marco Risi. Grevi, amari o finemente crudeli sono “Rispetto”, “Carta” e “Ferro”, secondo me tra i più riusciti.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta, poi – la vicenda tragicomica di Albertino, assoldato da un boss di periferia - è una chicca che stuzzicherebbe la fantasia di Quentin Tarantino.

Thierry Marchand teneva gli occhi chiusi. Aspettava che la sbornia passasse per rimettersi in piedi. Il Sony Black Trinitron 58 canali lo colpì in pieno. Gli sfondò il cranio uccidendolo sul colpo. Non soffrì. Immediatamente dopo, sopra quel miscuglio senza senso di carne francese e tecnologia giapponese, atterrò il corpo senza vita di Gaetano Cozzamara.

Gli sembrò che le gambe gli si frantumassero come pezzi di gesso presi a martellate. Il cuore gli si annodò nel torace e dovette reggersi alla porta per non cadere a terra.

L’adrenalina le ingolfò le arterie, le eccitò il cuore, le gelò le braccia, le morse le gambe e le rilassò la vescica. L’urina le colò calda lungo la coscia.

Le case basse e grigie, senza intonaco, con i tondini corti e arrugginiti che spuntavano dai tetti come dita rattrappite di vecchi. I balconi di ferro. Gli infissi di plastica.

Le strade storte, sconnesse, alluvionate. I fossi. Gli orti tra le case. I cani magri e bastardi. Le 127. I recinti di frasche e filo spinato. Poi solo campi sporchi. Cicoria. Pecore. E immondizia.

La penombra, il caldo assurdo, le lame di sole sparate come da un proiettore dalle persiane chiuse su quella apocalisse felina e il fetore che nonostante la maschera era allucinante mi riempivano, è strano, di una pace diversa. Una pace ammalata. Quel silenzio innaturale mi incatenava.

© Marcello Sgarbi

IL FOGLIO LETTERARIO

 

IL FOGLIO LETTERARIO



PROGRAMMA 12 - 17 aprile

 

Lunedì 12 aprile – Fabio Gambassi – UniTre Piombino – Classicismo in musica

 

Martedì 13 aprile – Francesca Pacchini – UniTre Piombino - Donne in Matematica – Parte 1

 

Mercoledì 14 aprile – Luca Pallini presenta: L’Italia al tempo del beat

 

Giovedì 15 aprile - Patrizia Lessi racconta Kurt Vonnegut, tra fantascienza, satira e umorismo nero

 

Venerdì 16 aprile - Francesca Pacchini – UniTre Piombino - Donne in Matematica – Parte 2

 

Sabato 17 aprile – Andrea Fanetti e la sua narrativa: Nuvole passanti, Dalla neve al fango, L’assassino e il pettirosso, La piazza in mezzo al mare

 


  Le nostre novità su IBS:

 

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Alessio Signorile – La campagna ha mille occhi – Pagine 130 – Euro 12

Massimo Tilli – Vorrei essere una pizza – Pagine 180 – Euro 15

Um perfeito idiota di Frank Iodice (vers. portoghese Un perfetto idiota) – P. 140 – Euro 15

Adriana Pedicini – Fiordalisi e papaveri (poesie) – Pagine 50 – Euro 10

Andrea Fanetti – Nuvole passanti – Memorie di una generazione tra Piombino e dintorni - pag. 260 – euro 15

Alessandro Fulcheris – Il mistero del Falcone – pag. 150 – euro 14

Anna Lanzetta -  Parole e pensieri di Bona Bianchi, donna di Piombino” - Pagine: 212 -

Carlo Gambescia, Metapolitica del Coronavirus. Un diario pubblico,  postfazioni di Alessandro Litta Modignani e Carlo Pompei, Edizioni Il Foglio 2021,  (“Saggi”),  pp. 170, euro 14.00

Patrizio Avella – Modigliani, l’amore & Paris – pag. 250 – euro 16

Sabatina Napolitano – Corsivo - euro 16 - pagine 160


 IL FOGLIO LETTERARIO NUMERO 19 – ANNO 21

E’ uscita la rivista di marzo, la n. 19. Un piccolo, ennesimo gioiellino che vi chiedo di condividere, non appena sarà possibile, scaricandola e facendola scaricare. Nell'attesa però la nostra webmasterha pubblicato già tutti i singoli articoli, caricandoli nell'apposita sezione che qui comunque vi linko:http://www.ilfoglioletterario.it/numero-19/


Canto d'anarchia di Angelo Ivan Leone

 https://lnkd.in/dM6ryqH


Canto d'anarchia di Angelo Ivan Leone

  Una sorta di grandissimo turbinio di emozioni che ti travolge in questo canto di liberazione e redenzione del popolo. Quando penso ad un artista penso ad un uomo libero. Un uomo libero senza padrini né padroni né, tantomeno, partiti. Coscienza del popolo e crisalide degli dei. L'eccelso e la santa plebe.
 Ecco, quando penso a tutto questo, io penso ad un nome e ad un cognome: Edoardo Bennato.

07 aprile 2021

ROTTAMAZIONE DELLE CARTELLE, IL NUOVO CONDONO FISCALE di Antonio Laurenzano

 


ROTTAMAZIONE DELLE CARTELLE, IL NUOVO CONDONO FISCALE

di Antonio Laurenzano

Con il decreto “Sostegni 2021” è partita l’operazione di pulizia del “magazzino fiscale”: cancellazione automatica dei debiti fino a 5mila euro (comprensivi di capitale, interessi e sanzioni) risultanti dalle cartelle di pagamento emesse tra il 2000 e il 2010. La rottamazione riguarderà soltanto i contribuenti con reddito imponibile 2019 non superiore a 30mila euro. Fuori dal raggio d’azione dello stralcio restano le multe stradali, i pagamenti di danni erariali e i debiti per il recupero di aiuti di Stato. Un decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze definirà le modalità e le date dell’annullamento dei debiti e del relativo “discarico” amministrativo con la conseguente scomparsa dagli archivi della ex Equitalia di 16 milioni di ruoli esattoriali. Una sanatoria dal costo per i conti pubblici di oltre 666 milioni di euro.

Ci risiamo. Un mini condono fiscale che per il sottosegretario dell’Economia, il leghista Claudio Durigon, “è solo il primo passo”, dicendosi certo che alle Camere “si possa trovare la maggioranza per migliorare il provvedimento”. Si mira cioè a far passare l’ipotesi originaria presente nelle bozze del decreto: stralcio generalizzato fino al 2015, senza limite di reddito. Con un colpo di spugna mandare in fumo 61 milioni di cartelle con un impatto fortemente negativo sul bilancio pubblico.

L’addio ai vecchi debiti ha innestato forti polemiche nel dibattito politico. Lapidario il giudizio del premier Draghi: “E’ chiaro che sulle cartelle lo Stato non ha funzionato, uno Stato che ha permesso l’accumulo di milioni e milioni di cartelle per lunghi anni senza successo nella riscossione”. La via d’uscita? La pax fiscale. Un nuovo condono per ripartire e far funzionare meglio la struttura. L’inefficienza dello Stato al servizio dei furbetti. Vecchia storia in un Paese che ha praticato una lunga serie di condoni, concordati, scudi, rottamazioni, voluntary disclosure. Una creatività normativa altrove sconosciuta. Se le discriminazioni sociali sono sempre detestabili, ancora di più lo è quella che divide i cittadini fra chi paga le tasse e chi le tasse le evade, o non le paga. Non è solo un problema di giustizia sociale e di rispetto delle regole democratiche. Al di là delle bandierine di partito sventolate al vento per catturare facili consensi elettorali con il supporto di prediche pelose, il deficit pubblico non sparisce se si prendono comode scorciatoie per sottrarsi a un preciso dovere civico richiesto per contribuire a finanziare l’istruzione, la sicurezza, la sanità, il welfare e tanto altro. L’invocata crisi economica causata dalla pandemia non sia un pretesto per un indistinto regalo. Non si capisce perché dei ristori e dei sostegni debbano beneficiare anche gli evasori e non soltanto chi, realmente, è stato danneggiato dal virus, chi rischia il fallimento della propria attività e con essa il proprio futuro.

E sono i cittadini onesti ad essere costretti a farsi carico del mancato introito da parte dell’Erario. Secondo i dati sull’evasione forniti di recente dal Direttore dell’Agenzia delle Entrare Ruffini ci sarebbero 987 miliardi di euro da riscuotere, una cifra che supera del 25% il complesso delle entrate per il 2020. I contribuenti con debiti residui da riscuotere sono circa 17,9 milioni, di cui 3 milioni di persone giuridiche mentre i restanti 14,9 milioni rappresentati da persone fisiche. Un numero impressionante: contribuenti tutti deceduti o, se ancora in vita, falliti, nullatenenti o colpiti dal Covid-19? Un problema di queste dimensioni evidenzia lo stato di crisi profonda in cui versa il sistema fiscale italiano. Non solo il più esoso in Europa (43,05% nel 2020), rapportato alla scarsa qualità dei servizi pubblici, ma anche il più sperequato a causa di un’evasione fiscale pari al doppio della media dell’Eurozona. Un sistema fiscale per il quale s’impone una riforma sul versante della tassazione, dell’accertamento e dei meccanismi di riscossione per non parlare più di crediti erariali che esistono solo sulla carta. Ogni anno l’evasione da riscossione, cioè di contribuenti che dichiarano il dovuto ma poi non pagano, oscilla tra i 10 e i 14 miliardi di euro. Una situazione di inefficienza divenuta insostenibile per la stessa credibilità del Fisco, più volte oggetto di rilievi da parte del Fondo monetario e dell’Ocse.

Voltare dunque pagina per una equa distribuzione del carico impositivo in cambio di servizi della riscossione efficienti e di adempimenti fiscali semplici, con meno burocrazia e più qualità. Superare cioè antiche distorsioni nel segno di un moderno ordinamento tributario per dare finalmente una risposta concreta al problema di fondo: l’accumulo del debito sovrano e la sua sostenibilità prospettica per la finanza pubblica. Guardare con lucidità e senza retorica la realtà del Paese, accantonando populismi e strategie elettoralistiche, ma privilegiando nell’azione di governo l’autentico senso dello Stato.

QUALCUNO UCCIDERA' di James Patterson a cura di Miriam Ballerini


 
QUALCUNO UCCIDERA' di James Patterson

Washington D.C. Non è mai stata più pericolosa

© 2020 Longanesi

ISBN 978-88-304-5470-5

Pag. 362 € 17,00

Prima che dai romanzi ho conosciuto lo psicologo Alex Cross dalla memorabile interpretazione di Morgan Freeman nei film.                                                                                                                Anche in questo libro Cross è il protagonista, ma non si dice se sia di colore come al cinema … anzi, nemmeno si spiega come lui sia. Sulla quarta di copertina c'è una breve descrizione che lo riguarda e che inizia con: “Detective, psicologo, padre … e cacciatore di serial killer”Se volete la verità vera, devo dire che mi sono piaciuti molto di più i film tratti dai libri di Patterson, che non i suoi romanzi. Non posso affermare che scriva male, o che i suoi protagonisti non siano ben delineati e carismatici; ma ho trovato questa nuova storia priva di pathos. Non mi ha emozionata, non mi ha coinvolta.

Nonostante ciò, dal momento che negli USA ogni 15 libri venduti, uno è suo, non posso fare altro che procedere con la recensione. Alex Cross parla in prima persona ed è quindi il personaggio meno descritto, nonostante sia il più presente. Sposato con Bree, la quale viene chiamata a sostituire il capo della polizia. A margine viene descritta la famiglia di Alex, i figli e Nana, la nonna.                                                                                                                                             Le indagini da compiere in questo romanzo sono tre: c'è un motociclista “missionario”, che uccide persone che corrono troppo in auto, o messaggiano al cellulare. Dall'altra parte, troviamo un gruppo chiamato “Gli ottimizzatori”, che uccidono persone che hanno a che fare con la droga o con le armi. Il terzo caso riguarda una delle vittime lasciate sull'asfalto: l'ex capo della polizia. Cosa sta succedendo a Washington D.C.? Alex e la moglie, stremati da tutti questi casi da risolvere, per un istante si trovano in disaccordo. Fino a quando tutti i pezzi andranno al proprio posto, presentandoci i colpevoli e i loro moventi.

Ciò che ha di positivo la scrittura di Patterson è che ci mostra la scena. Vediamone un esempio: “Mi voltai, afferrai Bree e la trascinai con me dietro la siepe, appena prima che dalla casa arrivasse un'altra raffica. Atterrammo malamente e Bree rimase per un istante senza fiato, ma eravamo vivi. Anche Sampson e Mahoney erano illesi e stavano rispondendo al fuoco da dietro la siepe sull'altro lato del viale”.

Personalmente ho trovato che ci sia troppa carne al fuoco e un racconto un poco piatto, ma sono certa che molti estimatori di Patterson non la pensano come la sottoscritta.

© Miriam Ballerini


fonte: "Qualcuno ucciderà" di James Patterson: Washington D.C. non è mai stata più pericolosa - OUBLIETTE MAGAZINE

01 aprile 2021

Intervista di Alessia Mocci a Laure Gauthier: vi presentiamo kaspar di pietra

Intervista di Alessia Mocci a Laure Gauthier: vi presentiamo kaspar di pietra







Ogni epoca ha i suoi pericoli, la nostra è in una determinata fase della crisi del capitalismo, esiste un’“atrofia dell’esperienza” («Verkümmerung der Erfahrung»), come la definiva già Walter Benjamin, e davanti a questa svalutazione dell’esperienza, si esalta il linguaggio, si usano continuamente iperboli oppure all’opposto continuamente eufemismi. Siamo in un periodo di inflazione e anche di svalutazione. Ci infervoriamo in ogni campo, scriviamo senza sosta per mostrare che esistiamo. Penso che sia necessario accettare di “mettersi da parte”, il senso della perdita, lasciar riposare i testi, continuare a fare esperienza delle cose, a costo di rovinarsi, a costo di “perdere tempo”.” – Laure Gauthier

A costo di perdere tempo. Le virgolette utilizzate dalla poetessa Laure Gauthier sono un avvertimento per il lettore: un segno grafico che dovrebbe far sostare l’attenzione sul concetto di perdita collegato al tempo.

Nella società in cui viviamo, costantemente connessa ed in continua competizione per la velocità (per una notizia, per una fotografia, per un post, per il conteggio dei like), l’atto di lasciar riposare una riflessione – un verso – è considerato una perdita di opportunità; invece è proprio saper occupare il tempo cercando il silenzio – meditazione – ciò che potrebbe far comprendere che sì esistiamo come individui ma, esiste anche un sistema complesso nel quale interagiamo e ci rapportiamo. Saper aspettare, mettere da parte la fretta dell’ego di mostrare: il consiglio del poeta è e sarà “regola” e riporta ad un discorrere antico e sempre valevole.

Laure Gauthier vive a Parigi ed insegna Letteratura tedesca e cinematografia all’Università di Reims. La prima opera, pubblicata nel 2013, è in lingua tedesca (successivamente tradotta in francese) “marie weiss rot/ marie blanc rouge”. Due anni dopo per la casa editrice Châtelet-Voltaire viene diffusa la silloge “La cité dolente” che nel 2017 vedrà la traduzione in lingua italiana per Macabor Editore. Nello stesso anno per la casa editrice francese La Lettre volée presenta “kaspar de pierre/ kaspar di pietra” e Bonifacio Vincenzi decide di scommettere nuovamente sull’autrice proponendone una traduzione per la collana I fiori di Macabor.

Il Dottore di Ricerca in Linguistica francese Gabriella Serrone è stata un aiuto valente per la comunicazione con Laure Gauthier e per la traduzione che ha permesso questa intervista in due lingue, italiana e francese. Un ringraziamento necessario e durevole alla sua competenza ed alla sensibilità d’interpretazione e musicalità, dote non scontata.

In ultima si vuole avvertire il lettore di un particolare: quando si legge “Kaspar” con la maiuscola ci si sta riferendo a Kaspar Hauser, mentre quando lo si trova con la minuscola ci si sta riferendo al libro.



A.M.: Buongiorno Laure, la ringrazio per la disponibilità che ha mostrato per questa nostra intervista e mi complimento per l’entusiasmo con il quale è stata accolta in Italia e per la nuova pubblicazione “kaspar di pietra”. Come prima domanda mi piacerebbe trattare del compito del poeta nell’era digitale.

Laure Gauthier: Grazie a lei dell’ospitalità: la letteratura è viva anche grazie a riviste che ne parlano! Bisogna far attenzione a distinguere tra le interviste, come questa, che chiariscono versanti nascosti o profondi della scrittura e dall’altra parte un tipo di comunicazione che può girare a vuoto sui social, dove si comunica continuamente, e sviare l’attenzione su fatti e gesti un po’ popolari, un po’ di tendenza, che mirano a ricevere un like e dove la scrittura passa in secondo piano. Se i codici e i mezzi per occupare la superficie sono cambiati, invece, il fenomeno non è nuovo.

Per quanto mi riguarda, non ho lasciato carta e penna, poiché scrivo su taccuini, penna alla mano, scrivo a mano anche i miei libri; nei margini dei libri che leggo, scrivo qualche verso o frase. La versione scritta al computer è l’ultima versione del testo, quasi definitiva.

Non vedo né i social network né l’informatica come un pericolo, ma come uno strumento. Ogni scoperta tecnica è multiforme. Credo si possano aggiungere opportunità tecniche senza diventarne schiavi, un tipo di rapporto tra scrittura e tecnologia analizzato da Magari Nachtergael nel suo saggio Poet against the machine, cosa che non vuol dire rifiutare e ignorare, ma per me l’essenziale non è il processo. Questo non mi impedisce di usare uno zoom audio 3-D per registrare ciò che definisco “transpoemi”, componimenti estratti da varie situazioni e che possono essere trasmessi alla radio o applicati su installazioni multimediali; poi, pubblico su Internet, mi interesso alla voce esterna e spazializzata, al ruolo dell’immagine al di fuori del testo ecc., alla creazione digitale e a tutte le nuove opportunità che accompagnano la scrittura oppure rivolgono domande a quest’ultima. Tuttavia, queste opportunità devono necessariamente essere associate ad una riflessione sullo spazio-tempo della poesia, sulla necessità di lasciar migrare la scrittura verso altre forme.

Da ciò che vedo, il pericolo reale è quello della “comunicazione” su tutti fronti, dell’autopromozione costante che riguarda tutti, persino i poeti. Nei progetti scientifici chiamati d’eccellenza, ci si deve definire eccellenti ancora prima di aver realizzato il progetto. Ogni epoca ha i suoi pericoli, la nostra è in una determinata fase della crisi del capitalismo, esiste un’“atrofia dell’esperienza” («Verkümmerung der Erfahrung»), come la definiva già Walter Benjamin, e davanti a questa svalutazione dell’esperienza, si esalta il linguaggio, si usano continuamente iperboli oppure all’opposto continuamente eufemismi. Siamo in un periodo di inflazione e anche di svalutazione. Ci infervoriamo in ogni campo, scriviamo senza sosta per mostrare che esistiamo. Penso che sia necessario accettare di “mettersi da parte”, il senso della perdita, lasciar riposare i testi, continuare a fare esperienza delle cose, a costo di rovinarsi, a costo di “perdere tempo”. Se ciò che caratterizza la modernità dal romanticismo è una “coscienza della perdita”, forse occorre accettare di perdere per far fronte alle varie catastrofi in un altro modo.

La poesia rimane più che mai il genere letterario di cui più abbiamo bisogno ed il più politico per il lavoro continuo, incessante, estenuante sulla lingua che porta avanti. Che ci si occupi di prosa poetica o di versi! La differenza sostanziale tra prosa e poesia consiste nel fatto che nella poesia l’essenziale di ciò che accade avviene tramite la lingua. Dunque, raramente, un’epoca ha permesso che la lingua fosse svalutata così tanto: bisogna far fronte ad espressioni estremamente rigide, anche molto povere, molto funzionali o strapiene di iperboli vuote, ecc. Scrivere poesia significa affrontare gli attacchi diretti contro la lingua, provocare piccole scosse per farci prendere coscienza che la povertà della lingua è povertà di pensiero e di azione. Dunque, la realtà è spaventosamente complessa e la lingua della poesia può essere, forse con l’aiuto della psicanalisi, ciò che ci riporta non ad un escapismo post-romantico, ma alla realtà nella sua complessità fulminante. Da questo punto di vista, possiamo essere contenti che l’atteggiamento del grande poeta post-romantico lontano dal mondo non esista più.



A.M.: In “Maison I” si legge: “[…] Mi avete tatuato tutti i messaggi,/ son diventat la vetrina/ delle vostre mancanze/ Poi sono venuti i poeti ad imbiancare,/ fintamente rupestri,/ le loro voglie su di me; a rotolarsi nelle mie ceneri/ per avvicinare ciò che la natura potrebbe ancora dettare loro,/ santo cielo, l’esotismo!””. Una verace critica verso l’esotismo come fenomeno che investì l’Europa e che dette inizio alla “trasvalutazione di tutti i valori” del vecchio continente. Tutto ciò che non è conosciuto diventa elemento di indagine così Kaspar Hauser diviene una ossessione. Perché il poeta subisce il fascino di Kaspar?

Laure Gauthier: La storia di Kaspar Hauser è stata a lungo oggetto di predilezione di poeti e più in generale di scrittori. In kaspar de pierre la cancellazione del pronome «io», sostituito da uno spazio bianco, aperto come una ferita, presenta uno sguardo critico sul sensazionalismo, la stampa scandalistica, il gusto per le notizie di cronaca e sull’idealizzazione poetica tipica della società moderna. Rappresentava una sfida per me scrivere nonostante tutto anche un racconto poetico “contro” l’idealizzazione poetica di Kaspar Hauser. Questo vale naturalmente per lo stato della nostra società moderna due secoli dopo quella di colui che è stato soprannominato “l’orfano d’Europa”, per lo stato della poesia e per il suo rapporto con la realtà e con la lingua. Ho solo cercato di avvicinarmi a lui, non per appropriarmene, lasciandolo in un movimento di attraversamento. Il mio libro non è né una decostruzione della pressione sociale della società positivista come il Kaspar di Peter Handke, che insiste sulla socializzazione obbligata attraverso l’apprendimento rigido della lingua, né una ballata neoromantica che idealizza Kaspar Hauser, come il poema di Verlaine “La Chanson de Gaspard Hauser”, che ne fa un’immagine del poeta moderno: io mi approccio diversamente alla notizia, senza imitare il modo di esprimersi di questo giovane adolescente vittima di un trauma e prigioniero per 17 anni. Rovino leggermente il suo modo di parlare, da oggi, cercando soltanto di avvicinarmi alla voragine della sua vita, non per parlare con compiacimento dei maltrattamenti che ha subito, né per osannarlo come immagine del poeta, ma per presentarlo come singolo individuo che non aveva doti speciali e non era neppure poeta, ma era un bambino vittima di abusi, che ha sperimentato la violenza dell’inizio del mondo moderno intorno al 1800. Da questo passaggio, si aprono questioni sia irrisolte sia represse e quindi importanti. Credo nelle immagini dialettiche di Walter Benjamin, che si possono trovare nel passato, non le rovine ufficiali, ma elementi dimenticati o ignorati che nascondono germogli di ciò che verrà. L’approccio poetico permette di far cogliere certi tratti della Storia che costruisco con diversi spazi e tempi. Non è una biografia, anche se ho consultato molto gli archivi, ma ho situato la voce di kaspar leggermente fuori campo rispetto ai documenti biografici in altri spazi e tempi che sfiorano quelli che ha realmente vissuto. Mi sembra sia un altro Woyzeck, il soldato omicida, vittima di meccanismi sociali e uno dei casi di studio dell’irresponsabilità penale. Ciò che mi interessa è capire perché (mentre Woyzeck, un altro fatto di cronaca, è portato in scena più volte, a teatro, all’opera) Kaspar H., a parte rari film, non è rappresentato, ma lasciato ai giornalisti e ai poeti, quindi alle opere scritte.

Quindi, c’è innegabilmente qualcosa di trasgressivo nella cronaca, ma è necessario che i poeti si avvicinino al reale in modo diverso. Mi interessava sfiorare ciò che la poesia non aveva mai trattato: il tema dei maltrattamenti su minori è l’ultimo tabù della nostra società, che comincia solo da poco a parlarne. La violenza sul corpo dei bambini non è “plastica”, ma sostanza da usare per cronaca, giornali e anche per un tipo di poesia che idealizza. Necessario è deviare attraverso il linguaggio per allontanarsi dalla violenza sui bambini. Da questo punto di vista, kaspar de pierre è la continuazione degli altri miei libri che provano tutti a esplorare le modalità di violenza privata e sociale del mondo contemporaneo.



A.M.: In “Abandon I” e, successivamente, verso la fine del libro troviamo una domanda ripetuta: “quante volte si può ristrappare un lenzuolo/ ?”. Laure, quante volte? Oltre a porre la domanda ha dato anche una risposta? Quanti lembi di personalità si possono ancora strappare? E quando si finisce di strappare che cosa resta?

Laure Gauthier: A questa domanda non posso rispondere. Posso solo porla. Cerco diverse prospettive che compongono la realtà. A volte, adotto il punto di vista di una nuvola, delle pietre, cito la terra, ma a volte, bisogna cercare di avere, come al cinema, un punto di vista soggettivo: partecipare, per un attimo, alla tema, per poi porsi interrogativi che riguardano ogni individuo. Ponendo la domanda, inventando appositamente una lingua, ci si protegge dal vuoto e la poesia, se ha una dimensione politica facendoci stare all’erta, possiede anche una dimensione rassicurante, ci permette di proteggerci dagli attacchi sia privati sia collettivi. Troppo spesso, la gente ascolta una canzone per consolarsi dal mondo e non legge più poesia. Eppure la poesia è, come dice Philippe Beck nel suo saggio omonimo, Ninnananna e Tromba, quindi consolatoria e vigile, un richiamo.

Chi è troppo affranto, troppo lacerato, sfortunatamente, sa, cade, in senso clinico (e non romantico) nella malinconia, grave forma di depressione… senza desiderio e senza voglia “oltre la vita”, come scrivo in kaspar. Esistono così tante forme di violenza sociale, affettiva, tante difficoltà causate dalla perdita di un punto di riferimento e la situazione è aggravata dalla crisi sanitaria attuale, che molte persone non trovano il proprio modo di esprimersi per sperimentare il reale. Credo che la lettura permetta di vedere che diversi brandelli formano un mantello che può essere solido in una società che, a forza di vantare positività ed efficacia, diventa portatrice di morte…



A.M.: Un’altra domanda mi ha colpito fortemente. È presente nella lirica “Résumons-Nous”: “Ma perché la cronaca non racconta che mi son/ perdut nel giallo?Che cosa significa perdersi nel giallo? Domanda connessa ai versi successivi: “delle schegge di tutti gli/ scheggiati”.

Laure Gauthier: In apertura del testo, la sequenza “marche” (“marcia”) presenta punti di contatto con l’arte povera, con una forma di materialità primaria, originaria: la terra ritorna incessantemente. Un’ossessione per la terra, per le pietre, forse come per la coreografa Pina Bausch. Qualcosa si muove danzando, una forza vitale, nonostante le violenze del mondo. È così che immagino kaspar, sia “di pietra”, una combinazione di elementi, in un io disciolto, sia in una relazione originaria con il mondo. A parte Werner Herzog, che ha ripreso l’uscita dalla sua prigione, in modo abbastanza “realistico” in questa sezione, non esiste opera che cerchi di affrontare cosa significa vedere le nuvole e toccare la pietra dopo 17 anni di prigionia senza parlare. A furia di idealizzare eccessivamente la poesia, a volte, vengono trascurate questioni essenziali ed essa diventa insipida.

Il giallo citato in questo passaggio è la speranza di vivere, sono i girasoli, il campo di girasoli che kaspar attraversa. Certamente, non si tratta di un dato biografico, è un’immagine ed è appena suggerita. “perdermi nel giallo” è allora la versione condensata di “perdersi in un campo di girasoli”. Tuttavia, tralascio volontariamente il senso preciso, a volte non termino i versi o le frasi, lascio che il senso si apra.



A.M.: Saprà di sicuro che in Italia persevera una vera e propria inclinazione verso i poeti francesi, soprattutto di quel fortunato Ottocento parigino. Charles Baudelaire, fra tutti, desta maggior interesse ed ogni anno i critici si cimentano in analisi nuove e reiterate. Ed in Francia? È stato perdonato per quei versi così poco amichevoli nei confronti dei parigini?

Laure Gauthier: Baudelaire è ancora uno dei rari poeti ad essere ancora letti e insegnati. Diverse opere critiche sono state pubblicate su di lui negli anni 2000 e ancora nel 2010. Penso ai saggi degli universitari Pierre Brunel o Antoine Compagnon, ma anche di altri autori come Yves Bonnefoy o Nathalie Quintaine, che hanno studiato la sua poesia e il suo radicamento nel reale. In Baudelaire, la tensione tra poesia in prosa e il sonetto è molto importante per me, poiché la mia poesia si basa sempre su un’alternanza tra verso e prosa poetica. Condivido pienamente l’analisi di Walter Benjamin che lo considera come primo poeta della modernità in Francia, che esprime la crisi di senso, la perdita dell’aura. Quindi, sì, la critica degli autori canonici è ancora viva, quella su Rimbaud e quella su Baudelaire, ma ci sono fortunatamente anche molte critiche ed universitari che dedicano le proprie ricerche alla densa e variegata creazione poetica contemporanea.

Per quanto mi riguarda, sebbene io sia francese, sono state soprattutto la poesia e la letteratura tedesca ad avermi segnata molto. Ho vissuto dai 18 ai 27 anni ampiamente in Germania e mi sono formata molto nella letteratura germanofona: Hölderlin, Novalis, Celan hanno segnato il mio percorso, ma in particolare anche Nelly Sachs e Ingeborg Bachmann ed i prosatori Elfriede Jelinek e Thomas Bernhard. Per il resto, non ho una “classifica”, leggo di tutto ma rimango ancorata a figure ai margini che riflettono sul loro tempo, come François Villon o ancora Antonin Artaud.

C’è un’incredibile vivacità e diversità nella poesia nella Francia odierna. Siamo in una strana epoca, dove è innegabile ci sia una sovrapproduzione di opere di poesia, anche di libri informi, dove ci si chiede ancora cosa abbia da dire il verso libero e cosa sia la poesia, ciò che chiamiamo poesia. E al contempo, ci sono autori e autrici particolarmente intensi, innovatori che pensano la nostra società tramite la lingua della poesia che accompagnano, pensano e rinnovano. Leggo soprattutto quegli autori e quelle autrici per cui scrivere dice qualcosa sotto una forma intrinsecamente legata a ciò che avviene politicamente: apprezzo molto poeti come Philippe Beck, Pierre Vinclair, che abbinano ai loro versi un pensiero poetologico critico, e anche la poesia e la prosa solerti di Lucie Taïeb, che tra l’altro pubblica anche saggi, così come le opere di Marie de Quatrebarbes e di Christophe Manon tra racconto e poesia, di Jérôme Game, i cui testi riconfermano il ruolo dell’immagine, ma la leggo anche Katia Bouchoueva, Séverine Daucourt, Pascale Petit, Perrine Le Querrec, Sandra Mousempes, Dominique Quélen e tanti altri ancora.


A.M.: La casa editrice Macabor, oltre ad aver pubblicato “kaspar di pietra”, ne 2018 ha scommesso sulla sua poetica con “La città dolente”. Che cosa ha pensato per questo interesse rinnovato? Considera Macabor Editore come una casa editrice con la “capacità di sguardo”?

Laure Gauthier: Ricordo che era uscito da pochissimo in Francia il mio libro e Luigia Sorrentino ha pubblicato qualche estratto sul suo blog (in francese con la traduzione in italiano), poi ho ricevuto un messaggio di Bonifacio Vincenzi, in cui mi comunicava il suo interesse per il testo. Qualche settimana dopo mi ha proposto di tradurlo e mi ha messo in contatto con la traduttrice, Gabriella Serrone! Naturalmente, devo tanto al coraggio editoriale di questa casa editrice e del suo editore, del suo impegno nel tempo, alla fiducia per il mio lavoro sin dall’inizio. Spero ovviamente che questa casa editrice continuerà a rimanere aperta all’estero e a battersi per la poesia contemporanea.

Inoltre, ho avuto la fortuna di incontrare altri poeti, in particolare Marco Vitale, che ha scritto la prefazione di kaspar, ma anche Eleonora Rimolo, che mi ha invitata a pubblicare nella sua bella rivista web Atelier o ancora Carlo Pulsoni per la rivista Insula Europa e anche il Festival di Poesia Ambientale anche con Marco Fratoddi. Inoltre, ho partecipato ad una performance on line al MAAM di Roma. La collaborazione duratura con la traduttrice Gabriella Serrone è ugualmente un bel regalo della vita, che ha aperto un dialogo poetico e amichevole e lei ha già tradotto estratti del mio prossimo libro les corps caverneux. Devo molto al suo grande talento di traduttrice!



A.M.: Salutiamoci con una citazione

Laure Gauthier: “le armi che mi hai dato sono efficaci,

ma non sono le mie:

mi batterò a modo mio

con due o tre sassi e una fionda.”

(Charles Reznikoff, Inscriptions, tradotto dall’inglese da Thierry Gillyboeuf, casa editrice: Nous)



A.M.: Laure ringrazio vivamente per le riflessioni lanciate come pietra sull’acqua, il mio augurio è che possano portare il lettore a divenire cerchio. Indico uno dei “rari film”: “La leggenda di Kaspar Hauser” diretto da Davide Manuli; e per ribadire la tematica del maltrattamento la saluto con le parole di Simone Weil: “È criminale tutto ciò che ha come effetto di sradicare un essere umano o d’impedirgli di mettere radici.


Written by Alessia Mocci

Translated by Gabriella Serrone


Info

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Fonte

https://oubliettemagazine.com/2021/03/26/intervista-di-alessia-mocci-a-laure-gauthier-vi-presentiamo-kaspar-di-pietra/


E' tornato il lupo incontro a Belgirate