27 gennaio 2020

Don’t Let My Mother Know SARA MUNARI a cura di Marco Salvario

Don’t Let My Mother Know
SARA MUNARI
Riccardo Costantini Contemporary - Via Giolitti 51, 10123 Torino
22.11.2019 - 25.01.2020
a cura di Marco Salvario


Non sempre è facile spiegare quello che si trova e quello che si prova visitando una galleria d’arte e ammetto di sentirmi in questa occasione più in difficoltà del solito. Proviamo a partire dall’inizio.
La Riccardo Costantini Contemporary nasce nel 1993 con lo scopo di promuovere ed esporre artisti di ogni nazionalità e di ogni mezzo espressivo; per più di due mesi, fine 2019 e inizio 2020, ha ospitato i lavori della fotografa Sara Munari.
Sara Munari è una fotografa a 360 gradi e ogni aspetto del mondo fotografico desta il suo interesse, con sguardi a volte ironici, a volte malinconici, a volte critici, sempre con intelligenza. Insegna fotografia, tiene conferenze, espone in tutta Europa, organizza mostre e workshop per altri colleghi, ha scritto tre libri sulla fotografia e ne ha pubblicati quattro di sue opere.
Il suo progetto “Don’t Let My Mother Know” non è però una mostra fotografica o, perlomeno, lo è solo in parte; piuttosto è una storia che nasce su un filo apparentemente fragile tra fantascienza e sogno, ma denso di intrecci e riferimenti e che si sviluppa subito in due creazioni diverse eppure parallele.
Si comincia con un video lungo una dozzina di minuti, nel quale è raccontata in prima persona la trama narrativa nel suo completo svolgimento. Con voce stanca e invecchiata, la protagonista si presenta come un’ottantottenne che ha vissuto l’incredibile esperienza di entrare in contatto con un mondo alieno e prova l’autenticità della sua testimonianza con documenti, fotografie e mappe.
Non vi racconto troppo perché il filo guida non è fondamentale di per se stesso mentre lo è per quell’insieme di sensazioni e di riflessioni, guidate o personali che l’artista vuole creare nello spettatore e, ovviamente il mio giudizio è sempre personale, raggiungendo il suo intento.
Gran parte del materiale utilizzato è stato ripreso in Islanda e non è stato modificato con tecniche digitali; questo non vuole dire che non ci sia il trucco. L’abilità dell’artista sta nel cogliere l’attimo in cui alcune palline lanciate in aria sono ancora sospese per creare l’illusione di oggetti misteriosi in orbita, nell’indossare un guanto per realizzare una mano aliena e nello scegliere sapientemente le inquadrature.
Ogni immagine, ogni evento, diventano spunti ed elementi indipendenti dai quali il visitatore potrà creare le proprie chiavi interpretative.
Una di queste chiavi ce la fornisce l’autrice svelando quella che è l’allegoria principale della sua opera: l’alieno x23 che lei incontra e non riesce a riportare con lei sulla terra, viene a coincidere con la figura di suo padre, percepito sempre più lontano perché malato di Alzheimer. Così il titolo Don’t Let My Mother Know (Non ditelo a mia madre), che a me aveva ricordato l’allegro tormentone di una canzone di Giuni Russo (Mia madre non lo deve sapere,
non lo deve sapere …), perde la sua allegria.
No, non stiamo giocando ma vivendo con malinconia e rimpianto una vicenda a più livelli, carica di umanità ed empatia.



La cura con cui il materiale è presentato, capace di sostenere e dare verosimiglianza alla narrazione, non copre i giochi e le provocazioni dell’autrice; dai piccoli scherzosi scherzi con le sillabe - l’agenzia spaziale Rasa, è il nome della fotografa con le sillabe scambiate e il pianeta Musa riprende le sue iniziali – alle più profonde riflessioni che coinvolgono i nostri sentimenti, la nostra visiono dello spazio, del nostro mondo, dei rapporti personali; ci troviamo davanti a un mondo sconosciuto che è il nostro pianeta anche quando non lo riconosciamo, con forme che il tempo trascorso o impoverito dalla fragilità dei ricordi, rende ostile e minaccioso; un pianeta dove ci sentiamo persi e soli anche se a volte riusciamo a incontrarci, a cercare di comunicare e aiutarci. Il nostro prossimo è l’alieno, la malattia è l’alieno. Faticosamente in parte riusciamo a entrare in contatto, ad aiutarci nel bisogno, ma alla fine l’extraterrestre x23, cui ci ha legati un ricordo e da un affetto a cui non siamo riusciti a dare forma completamente, non ci ha seguito nel nostro viaggio di ritorno.


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