28 ottobre 2019

MARCO ANTONETTI: DA “LUCHINO MIO” A “INSIEME” a cura di Vincenzo Capodiferro

MARCO ANTONETTI: DA “LUCHINO MIO” A “INSIEME”
Una forte esperienza sulla morte nell’espressione letteraria ed amorosa di un padre di famiglia

Marco Antonetti raccoglie in due volumi la testimonianza del cuore per la tragica perdita del figlio Luca, di 26 anni: “Luchino mio”, Varese febbraio 2018, ristampa, e “Insieme”, Varese ottobre 2018. Marco insegna scienze motorie presso il Liceo Artistico di Varese. È un appassionato di arrampicata sportiva. Marco è un uomo profondo. Ancor più profondo è in questa mistica espressione del dolore per la perdita del figlio. Qual dolore più grande può provare un uomo? E una madre? Non sarebbe il caso di discuterne in questa presentazione. Ma noi l’abbiamo voluto fare per partecipare anche noi, in qualche modo, alla croce che l’umanità deve portare. L’umanità deve portare la croce, o vuole o non vuole: è necessaria per la sua salvezza. In questo cammino Dio l’aiuta: perché egli per primo l’ha portata per tutti. E Dio è anche il Cireneo, le pie donne che troviamo sul nostro cammino: è la Veronica che ci asciuga le lacrime. E conserva il velo coi nostri volti sofferenti. Se Leopardi per superare il dolore cosmico, nella “Ginestra”, additava l’alleanza sociale degli uomini contro la madre, l’inesorabile Natura, noi cristiani dobbiamo volentieri metterci a disposizione nel portare sulle spalle, tutti insieme, la grande croce che ci porta al Calvario ed alla resurrezione. Questa croce immensa se portata da tutti, non pesa. Marco esprime la profondità del dolore: De profundis clamavi ad te, Domine; Domine exaudi vocem meam. Fiant aures tuae intendendes in vocem deprecationis meae. Siano le tue orecchie attente alla voce della mia supplica… Emanuela Sonzini così commenta a principio del “Luchino”: «Subito dopo la morte del figlio Luca, marco Antonetti ha sentito la necessità di scrivere ciò che il suo cuore gli dettava… Grazie Marco, “bastardo nella fede” che ci testimoni la ragionevolezza della fede in Dio…».
«Ti hanno già composto nella bara che attende la chiusura… Vorremmo ritardarla, vorremmo starti vicino, vorremmo … ma troppi amici ti attendono in chiesa…». Ecco alcune immagini, molto realistiche, crude, che si ritrovano nel testo. Marco non usa mezzi termini, ecco perché il testo è toccante, è coinvolgente: non puoi fare a meno di provare anche tu il dolore esistenziale, di piangere o ridere, nel ricordo dei momenti brutti, o belli di vita passati. È la pura espressione del sentimento, dell’angoscia della vita. Diremmo: di quella angoscia esistenziale che ha tormentato tanti…: perché viviamo, perché moriamo…? La morte è lo scacco matto, è il paradosso più assoluto. Paradossalmente sia Heidegger che un Sant’Alfonso, nel mirabile libro, che forse oggi si legge poco, o non si legge più - “L’apparecchio alla morte” -, si pongono il lancinante problema dell’essere-per-la-morte. Tutta la vita è una preparazione alla morte, perché la morte non è uno scherzo, ma segna l’ingresso nell’eternità per chi crede e per chi non crede l’ingresso nel “nulla eterno”, come lo definisce il Foscolo nel carme: Forse perché della fatal quiete/ tu sei l’imago… La sera prefigura la morte. La notte però aspetta il giorno: ci sarà un’alba?
«Mi sono posto una domanda: ma io sono veramente certo di Dio e di te in Dio, oppure mi convinco che sia così, nella forzata illusione che altro non potrebbe essere?».
Ecco una domanda sconvolgente che ci pone Marco. Il problema che ci pone è lo stesso che Dio rivolge a Se Stesso: Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato? Perché io, Dio, mi sono abbandonato alla morte? Era proprio necessario? Io che sono un Dio eterno, onnipotente, immortale nei secoli dei secoli? Gesù piange per la morte di Lazzaro. Se fossi stato con noi Lazzaro non sarebbe morto! Anche Dio si commuove della morte dei suoi figli, dei suoi amici… Si commuove della morte di Se Stesso: alle tre del pomeriggio il velo del tempio si squarcia, il cielo si oscura… la terra trema. Dio lo fa capire benissimo… il cielo piange la morte del Cristo. Lazzaro viene resuscitato: prefigurazione della morte del Cristo. Ma Lazzaro poi morrà di nuovo… La morte fisica non è un problema, è la morte secunda, il vero problema: saremo vivi o morti per l’eternità? Però a parole è facile: anche la morte prima è difficile da comprendere, è uno scandalo che mette in croce lo stesso Dio! Dio vuole sperimentare questa atroce sofferenza della morte. Marco trova una risposta nella fede: “Luchino mio” è l’immagine della morte, “Insieme” è l’immagine della resurrezione. Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la gelosia, canta il Cantico dei Cantici. Solo l’amore può sconfiggere l’eterna sterminatrice. Anche il Foscolo, che tanto cristiano non era, deve riconoscerlo: Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi. Amore è a-mors: ciò che è senza morte, ciò che resiste alla morte. Bella è l’immagine del Cristo velato che riporta Marco; nel Cristo velato ricorda il figlio velato: «Obitorio… piano 2 … stanza 7. Sei lì, abbiamo due minuti di tempo, non di più. Il regolamento non prevede visite prima dell’autopsia. La porta si apre, ti vedo, un lenzuolo sul corpo: dalla strada al lettino … così … intoccabile fino a dopo l’esito medico. Il capo girato verso sinistra, ma io entro dalla parte opposta e con il cuore che sembra fermarsi o forse batte all’impazzata, ti vedo e … credo di morire … non è possibile. Il volto pieno di sangue …,» etc. È il volto di Cristo. Siamo tutti dei Cristi … velati. Ma non lo sappiamo. Siamo tutti dei morti viventi e diventeremo dopo la morte dei viventi morti, ma non lo sappiamo ancora. La fede di Marco non è tanto manzoniana. Dinanzi alla morte, umanamente parlando, non c’è nulla da fare. Renzo e Lucia confidavano nella Provvidenza, erano dei vinti che confidavano in Dio. Ma questo, in effetti è un esperimento letterario. In letteratura tutto è possibile, ma nella realtà? Le cose cambiano. Anche Manzoni è passato attraverso il dramma della conversione. E, secondo me, l’Innominato che si converte rappresenta la trasposizione del giovane Alessandro che passa dai Lumi e Cristo, ma questa è solo una mia opinione. I vinti di Verga erano gli sconfitti dalla vita e dalla storia, ma dinanzi a sorella nostra morte corporale, come la declamava Francesco, tutti siamo vinti. Anche i ricchi, i potenti, i re della terra sono impotenti, poveri dinanzi alla morte. Ade è ricco di vite strappate alla Vita. Satana ha scelto l’eterna morte, la tenebra impenetrabile pur di non vedere il Volto dell’Assoluto. La luce venne nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno capita. Il mistero della morte è incomprensibile, è un assurdo stroncante, indicibile. Non ci sono delle risposte, ci sono solo delle domande senza risposta. È l’eterna domanda di Agostino e di Leibniz: si deus est unde malum? Si non est unde bonum? Berdjaev dà una certa risposta: proprio il male è la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Quella di Marco non è una fede data per scontato, è una fede critica, coraggiosa, bastarda, come la definisce la Sonzini. È una fede però autentica, perché passa attraverso la ferita della perdita: a te una spada trapasserà il cuore! Anche Maria passa questo momento incomprensibile. È facile credere quando tutto va bene, quando abbiamo la benedizione del Signore, come diceva Calvino: la ricchezza è segno della benedizione del Signore. Ma quando le cose vanno male? È il dramma di Giobbe! È la sfida di Satana: metti alla prova Giobbe! Adesso crede, ma poi vedremo se crederà. Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato e il Signore ha tolto. La sfida continua sempre: Giobbe è l’umanità. Continua ancor oggi. Nella visione di Leone XIII, il 13 ottobre 1884, Satana ancora sfida Dio su Giobbe. 100 anni: due guerre mondiali, totalitarismi, stermini di massa, bombe atomiche: forse la fede è crollata? Ripetiamo con Agostino: i defunti non sono morti, ma abitano prima di noi nella luce di Dio. La morte è la porta d’ingresso nell’Essere vero. Marco si chiede ancora il senso della felicità: «Se credessi che l’essere felice è realizzare i propri sogni, mi sentirei nell’illusione più grande perché, un secondo dopo aver provato l’esaltazione di questo stato interiore, avrei bisogno di buttarmi su altre realizzazioni per finire nel circolo perverso di un bisogno adrenalinico che va sempre alimentato». Non cadiamo nella logica del pendolo di Schopenhauer: dolore e noia, dolore e noia… tic tac… all’infinito. «La tua morte, Luca non è stata l’ultima opzione per la mia vita; ogni grammo di questa mia sofferenza è dentro il peso di questa croce che non mi abbandona ma che, nell’apparente contraddizione del Mistero che così ha voluto, mi regala l’esperienza della letizia in Dio con cui stai già condividendo il tempo che verrà». La vera felicità non è la soddisfazione momentanea, ma è il riposo in Dio: inquietum est cor nostrum donec requiescat in te (Conf. I,1). Abbiamo ripreso alcuni passi di “Luchino mio” per testimoniare questa autenticità profonda che si respira leggendo questo testo. La vita è un dramma, ma non in senso letterario. La vita è sogno, ma è un sogno un po’ complicato, è un sogno reale, a volte è un incubo. La realtà purtroppo non è fatta sempre solo di rose, ma di spine: sono più spine che rose. La vita è durezza, asperità. È come quelle rocce scoscese che Marco deve scalare, ma ogni uomo è scalatore. Se non si sale nell’alto, si muore. Se ci si ferma a guardare in giù, si è perduti. Non progredi, regredi est. La tua grazia, Signore, vale più della vita. Così ripeteva don Tommaso Latronico, sacerdote di Comunione e Liberazione, morto nel 1993 per una terribile leucemia. E scriveva: «Nell’esperienza dell’uomo tutto passa e finisce. Soprattutto le cose belle (l’infanzia, l’amore …) sono destinate a finire nel rimpianto, nella nostalgia e nel ricordo. C’è solo un’esperienza, che inizia e non finisce, e con il tempo cresce: è l’incontro con Cristo». E ricordiamo Carducci: Pianto antico. Qual è l’… albero a cui tendevi/ la pargoletta mano, se non la croce santa? Anche Carducci si converte … segretamente a quella croce … prima di morire… riceve i sacramenti da un sacerdote travestito da barbiere. È quella croce che ci ricorda ancora Marco, nel discorso d’addio al funerale, richiamando il classico “muor giovane colui che al ciel è caro”: «Sappiamo che se Dio prende con sé un giovane è perché ha bisogno di un angelo che lo aiuti a portare il peso del mondo e tu, Luca, ora sei il nostro angelo. Ti abbiamo ricordato con una foto che ti simboleggia. Sei ritratto con le braccia aperte, e in quell’abbraccio noi ci sentiamo tutti accolti». Luca con le braccia aperte simboleggia una croce vivente. Ogni uomo è croce che vive e se distende le braccia si accorge di essere aperto all’Assoluto, all’Infinito.

Vincenzo Capodiferro

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