CAMMINAVO
NELLA NOTTE
La
storia meravigliosa della figlia di un ciabattino di Castelsaraceno:
la Dottoressa Rosa Capodiferro
Rosa
Capodiferro è nata a Castelsaraceno nel 1943. Seguendo la sua
vocazione ha lavorato prima come infermiera e poi come medico e
cardiologo, in varie strutture ospedaliere, tra cui: “Casa Sollievo
della Sofferenza”, di San Giovanni Rotondo, al San Camillo di Roma,
e poi al San Raffaele, prima Trevignano, poi Montecompatri e poi
Rocca di Papa. “Camminavo nella notte. Vita, opere e miracoli della
figlia di un ciabattino” è un suo romanzo autobiografico, edito da
Nemapress, Roma 2018.: «Camminavo nella notte, in un buio profondo,
in un’oscurità fredda e ostile, verso l’orto che ci faceva
sopravvivere. Sopravvivere e niente più». Ciò che ci propone Rosa
Capodiferro è un cammino esistenziale di vita, che parte da un
piccolo paese dell’entroterra lucano, Castelsaraceno, e gira, gira
in Italia e nel mondo (si annoverano esperienze come medico
volontario tra l’altro in India e Madagascar), attraverso
l’esperienza del lavoro, come medico, fino a concludersi a “La
cerimonia degli addii”. Rosa ci racconta un’infanzia difficile,
ma per questo attraente, e per certi versi bella. Castelsaraceno,
“Casteddo”, non è un terreno facile. Già Gaetano Arcieri,
arciprete e storico di Latronico, così lo descriveva nelle sue
memorie: «Di angusto orizzonte, di orrendevole
aspetto». Eppure da questi angusti orizzonti sono usciti pastori,
contadini e figli e figlie di ciabattini che si sono fatti onore,
perché, è il caso di citare il grande: dai
diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori … Così
ci descrive in Infanzia
di pietra:
«Sono nata in una famiglia povera, in un paese povero, in un momento
povero della stria italiana, ancora storia di guerra … In quegli
stesi anni Carlo Levi, che avrei letto molto dopo, descriveva una
realtà analoga, in un luogo non molto lontano da quello che riguarda
me … Mio padre, un ciabattino …». Anche Levi era un medico e
rimase affascinato da quella civiltà contadina, così ancestrale,
così intatta per secoli e secoli. Ma Levi era solo la punta
d’iceberg di un notevole arcipelago dei gulag lucani. Anche
Castelsaraceno fu terra di confino. Vi erano medici, avvocati e
professionisti, che gli anziani stimavano e ricordano con affetto,
tanto che gli davano il “don”, come a Don Guido. E il “don”
si dava solo ai preti ed ai galantuomini, o nobili. La storia di Rosa
si muove dall’esperienza diretta, non è narrativa, ma diviene
racconto. Questa è un’esperienza letteraria di realismo. È
un’esperienza di vita. Il realismo più volte viene collegato alla
miseria, al verismo, al ciclo dei vinti di Verga e di Capuana e «Così
è se vi pare». E se “Cristo si è fermato ad Eboli” indovinate
un po’ dove si ferma il processo di emigrazione della famiglia di
Rosa? Leggiamo in Migrazione
da uccelli feriti:
«Anche questo avvenimento fu proporzionale alla nostra miseria e
marginalità sociale. Dunque la meta non erano le lontane Americhe …
e neppure il Belgio … o semplicemente Milano o Torino, le città
del grande sogno del dopoguerra. Il nostro approdo sarebbe stato ad
un centinaio di chilometri più a Nord del nostro paesello desolato …
dove forse non ci saremmo sentiti tanto “emigrati”. Il luogo era
Mercato San Severino …». Il romanzo di Rosa è un “Cristo si è
fermato ad Eboli” al contrario. Vero è che Verga riprende i suoi
romanzi da vissuti reali, ma questo è espressione di una più
genuina erlebnis.
La fiumana
del progresso
non ha incisivamente segnato le nostre terre. Come le fiumane
sorde ha
travolto ed ucciso in silenzio, ha fatto più danni che bene.
Guardate a cosa hanno combinato le fiumane sotterranee di petrolio. E
don Guido, l’ingegnere confinato, già aveva scoperto il petrolio.
Il mondo della civiltà contadina, vagheggiato da Levi, non era un
mondo facile. C’era la fame e ce lo racconta chi parla dal basso,
non dall’alto. Leggiamo l’incontro con Padre Pio: «Le due mani
contadine di Padre Pio, ad esempio, quando da giovane allieva
infermiera a san Giovanni Rotondo mi confessava, o meglio sarebbe
dire, ascoltava i miei sfoghi con la sua serietà proverbiale, mista
a tenerezza per quella ragazzina smarrita». Padre Pio vien
presentato come il frate contadino. E chi è il contadino? “Tacco
grosso ma cervello fino”! Ma perché Rosa vuole ricordare questi
tempi, cosi drammatici? Come fa lo stesso Levi? E come fanno, in
fondo tutti? Perché in fin dei conti si viveva bene. Nel dramma
esistenziale si viveva bene. Mancava ricchezza materiale, ma c’era
ricchezza spirituale, di valori oramai estinti, anche quelli non
negoziabili, e noi ne sappiamo qualcosa. C’era solidarietà, la
gente si aiutava a vicenda, oggi invece trionfa imperterrito
l’egoismo, travestito da individualismo. Perciò questa riflessione
esistenziale ci serve bene a farci apprezzare i tempi tristi, oggi,
che viviamo nel cosiddetto “benessere”. Ma i tempi tristi
torneranno. Non scordiamocelo!
Giuseppe
Domenico Nigro
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