10 dicembre 2018

CAMMINAVO NELLA NOTTE La storia meravigliosa della figlia di un ciabattino di Castelsaraceno: la Dottoressa Rosa Capodiferro


CAMMINAVO NELLA NOTTE
La storia meravigliosa della figlia di un ciabattino di Castelsaraceno: la Dottoressa Rosa Capodiferro

Rosa Capodiferro è nata a Castelsaraceno nel 1943. Seguendo la sua vocazione ha lavorato prima come infermiera e poi come medico e cardiologo, in varie strutture ospedaliere, tra cui: “Casa Sollievo della Sofferenza”, di San Giovanni Rotondo, al San Camillo di Roma, e poi al San Raffaele, prima Trevignano, poi Montecompatri e poi Rocca di Papa. “Camminavo nella notte. Vita, opere e miracoli della figlia di un ciabattino” è un suo romanzo autobiografico, edito da Nemapress, Roma 2018.: «Camminavo nella notte, in un buio profondo, in un’oscurità fredda e ostile, verso l’orto che ci faceva sopravvivere. Sopravvivere e niente più». Ciò che ci propone Rosa Capodiferro è un cammino esistenziale di vita, che parte da un piccolo paese dell’entroterra lucano, Castelsaraceno, e gira, gira in Italia e nel mondo (si annoverano esperienze come medico volontario tra l’altro in India e Madagascar), attraverso l’esperienza del lavoro, come medico, fino a concludersi a “La cerimonia degli addii”. Rosa ci racconta un’infanzia difficile, ma per questo attraente, e per certi versi bella. Castelsaraceno, “Casteddo”, non è un terreno facile. Già Gaetano Arcieri, arciprete e storico di Latronico, così lo descriveva nelle sue memorie: «Di angusto orizzonte, di orrendevole aspetto». Eppure da questi angusti orizzonti sono usciti pastori, contadini e figli e figlie di ciabattini che si sono fatti onore, perché, è il caso di citare il grande: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori … Così ci descrive in Infanzia di pietra: «Sono nata in una famiglia povera, in un paese povero, in un momento povero della stria italiana, ancora storia di guerra … In quegli stesi anni Carlo Levi, che avrei letto molto dopo, descriveva una realtà analoga, in un luogo non molto lontano da quello che riguarda me … Mio padre, un ciabattino …». Anche Levi era un medico e rimase affascinato da quella civiltà contadina, così ancestrale, così intatta per secoli e secoli. Ma Levi era solo la punta d’iceberg di un notevole arcipelago dei gulag lucani. Anche Castelsaraceno fu terra di confino. Vi erano medici, avvocati e professionisti, che gli anziani stimavano e ricordano con affetto, tanto che gli davano il “don”, come a Don Guido. E il “don” si dava solo ai preti ed ai galantuomini, o nobili. La storia di Rosa si muove dall’esperienza diretta, non è narrativa, ma diviene racconto. Questa è un’esperienza letteraria di realismo. È un’esperienza di vita. Il realismo più volte viene collegato alla miseria, al verismo, al ciclo dei vinti di Verga e di Capuana e «Così è se vi pare». E se “Cristo si è fermato ad Eboli” indovinate un po’ dove si ferma il processo di emigrazione della famiglia di Rosa? Leggiamo in Migrazione da uccelli feriti: «Anche questo avvenimento fu proporzionale alla nostra miseria e marginalità sociale. Dunque la meta non erano le lontane Americhe … e neppure il Belgio … o semplicemente Milano o Torino, le città del grande sogno del dopoguerra. Il nostro approdo sarebbe stato ad un centinaio di chilometri più a Nord del nostro paesello desolato … dove forse non ci saremmo sentiti tanto “emigrati”. Il luogo era Mercato San Severino …». Il romanzo di Rosa è un “Cristo si è fermato ad Eboli” al contrario. Vero è che Verga riprende i suoi romanzi da vissuti reali, ma questo è espressione di una più genuina erlebnis. La fiumana del progresso non ha incisivamente segnato le nostre terre. Come le fiumane sorde ha travolto ed ucciso in silenzio, ha fatto più danni che bene. Guardate a cosa hanno combinato le fiumane sotterranee di petrolio. E don Guido, l’ingegnere confinato, già aveva scoperto il petrolio. Il mondo della civiltà contadina, vagheggiato da Levi, non era un mondo facile. C’era la fame e ce lo racconta chi parla dal basso, non dall’alto. Leggiamo l’incontro con Padre Pio: «Le due mani contadine di Padre Pio, ad esempio, quando da giovane allieva infermiera a san Giovanni Rotondo mi confessava, o meglio sarebbe dire, ascoltava i miei sfoghi con la sua serietà proverbiale, mista a tenerezza per quella ragazzina smarrita». Padre Pio vien presentato come il frate contadino. E chi è il contadino? “Tacco grosso ma cervello fino”! Ma perché Rosa vuole ricordare questi tempi, cosi drammatici? Come fa lo stesso Levi? E come fanno, in fondo tutti? Perché in fin dei conti si viveva bene. Nel dramma esistenziale si viveva bene. Mancava ricchezza materiale, ma c’era ricchezza spirituale, di valori oramai estinti, anche quelli non negoziabili, e noi ne sappiamo qualcosa. C’era solidarietà, la gente si aiutava a vicenda, oggi invece trionfa imperterrito l’egoismo, travestito da individualismo. Perciò questa riflessione esistenziale ci serve bene a farci apprezzare i tempi tristi, oggi, che viviamo nel cosiddetto “benessere”. Ma i tempi tristi torneranno. Non scordiamocelo!

Giuseppe Domenico Nigro

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