08 ottobre 2018

Mario Lattes pittore a cura di Marco Salvario


Mario Lattes pittore
Marco Salvario




Mario Lattes, nato nel 1923 in una Torino da lui forse più odiata che amata e morto nel 2001, è stato un personaggio importante del mondo culturale torinese ed europeo. Protagonista e ispiratore di coraggiose iniziative, mi era noto soprattutto nel ruolo di editore e scrittore; ha infatti diretto la Lattes Editori fondata dal nonno Simone Lattes nel 1893, ha collaborato a riviste importanti come la “Gazzetta del Popolo”, ha fatto nascere la rivista “Questioni” cui hanno collaborato nomi del calibro di Abbagnano, Sanguinetti, Adorno e Arpino, e ha scritto romanzi e racconti tra i quali ricordo “Le notti nere”, “Il borghese di ventura”, “L’incendio del Regio”, “L’amore è niente” e, uscito postumo, “Il castello d’acqua”. Pur essendosi sempre definito laico, Mario Lattes nei suoi scritti, sempre connotati da temi autobiografici e contraddistinti da pessimismo e ironia, palesa le profonde radici della propria cultura ebraica.



La Fondazione Bottari Lattes lavora da alcuni anni alla realizzazione del catalogo generale delle opere artistiche di Mario Lattes anche nei campi della pittura e dell’incisione e ha allestito due mostre in contemporanea. A Torino le opere esposte possono essere ammirate fino al 27 ottobre 2018 presso lo Spazio Don Chisciotte in via Della Rocca 37B; a Monforte d’Alba fino all’1 dicembre 2018 presso la Fondazione Bottai Lattes in via Marconi 16.



Mario Lattes è stato un artista estremamente versatile nella ricerca dei temi, degli stili, delle tecniche espressive. Spesso il tuo tratto abbozza, suggerisce, mostra non l’immagine ma la sua tensione interna: non di una rappresentazione reale si tratta quindi ma di sogno, ricordo, intuizione, ricerca. La sua opera è sempre pervasa da un'unica visione, amara e disillusa, che esprime la sofferenza e la crudeltà del vivere. L’uomo non è in armonia né con la natura, né con se stesso; non si conosce e non ha risposte ai grandi misteri con cui si deve cimentare, primo di tutti quello della morte, a volte irrisa e disprezzata (lo si coglie anche nei titoli di molte opere: “Scheletro con tunica rossa”, “Cimitero”, “Paesaggio con teschio e condor”, “Natura morta con vaso di fiori e teschio”), però sempre temuta come salto verso il nulla e l’ignoto, nel non-io, nel non essere più. L’uomo è solo e l’artista si cimenta nello sforzo disperato e inadeguato di creare un ponte, una comunicazione con il prossimo o almeno, sarebbe già un successo, di arrivare a comprendere almeno in parte se stesso.


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