25 giugno 2018

La disfatta di Caporetto a cura di Angelo Ivan Leone

                                            LA DISFATTA DI CAPORETTO
Tratto da:Onda Lucana® by Angelo Ivan Leone-Docente di storia e filosofia presso Miur
Il generale che comandava all’inizio della prima guerra mondiale l’esercito italiano era Luigi Cadorna detto “il generalissimo”, figlio del generale che aprì la breccia nella risorgimentale battaglia di Porta Pia e padre, a sua volta, del generale che comandò la resistenza antifascista durante la seconda guerra mondiale. Come carattere egli possedeva, al tempo stesso, la purezza e la durezza di un diamante, ma militarmente le sue conoscenze erano totalmente superate. Uomo di indubbia onestà morale e personale, devoto alla chiesa senza essere bigotto era anche un acerrimo nemico dei politici secondo la più classica tradizione militare.
Cadorna, pur non negando queste sue qualità umane, non aveva la stoffa del grande stratega e neppure del grande tattico, perché gli mancava la fantasia o se vogliamo il puro genio militare che valse a Cesare e a Napoleone la gloria dei posteri. Per “il generalissimo” il manuale da guerra era da seguire in ogni sua parte, quasi si trattasse di una testo sacro, e avendo questa idea dogmatica dell’arte militare egli spesso dimenticava e non considerava che nel corso di una qualsiasi battaglia, sovente, si sviluppano dinamiche del tutte estranee ai piani formulati a tavolino dallo Stato Maggiore.
Cadorna, inoltre, concepiva la guerra con una visione ferma ancora alle campagne napoleoniche di un secolo prima e riteneva la battaglia come una sorta di muro contro muro da portare al limite estremo delle forze all’insegna del “chi la dura la vince”. La sua era una strategia, quindi, di puro e semplice logoramento che sviluppò benissimo nel corso delle innumerevoli battaglie dell’Isonzo. Nel biennio 1915-1917 se ne contarono 11 e videro degli insignificanti guadagni territoriali da parte degli italiani in grigioverde che venivano, alle volte con lo stesso raccapriccio degli austriaci in grigioblu, falcidiati mentre compivano le loro eroiche quanto inutili cariche garibaldine.
Nel corso della conduzione della campagna bellica durata due anni, prima del disastro di Caporetto, Cadorna riuscì ad ottenere solo una modesta vittoria a Gorizia e ad evitare la sconfitta nel 1916 quando ci fu la prima azione offensiva degli austriaci chiamata “Strafexpedition” (spedizione punitiva) sull’altopiano di Asiago. Le colpe della sconfitta, o meglio della disfatta e della successiva rotta a Caporetto pesano quasi totalmente sulla colpevole miopia militare del “generalissimo”. Quando per la seconda volta gli austriaci insieme ad un manipolo di tedeschi guidati dall’allora tenente Rommel, tentarono una manovra d’aggiramento infischiandosi delle cime presidiate dagli italiani e portando le loro unità nel cuore delle valli alpine, anticipando così di una guerra la famigerata “blitzkrieg”, il grosso dell’esercito italiano si trovò completamente spiazzato dal nemico e dovette indietreggiare anche perché tutti i contatti telefonici erano saltati. I costi della sconfitta furono tremendi, non tanto in quanto a morti non se ne contarono che 10000 assieme a 30000 feriti, ma in quanto a prigionieri 130000 e sbandati 350000.
l’Italia intera rimase per mesi con l’incubo della sconfitta, mentre il nemico invadeva intere province del Veneto e il nostro esercito si attestava sulla linea del Piave. Poi avvene il miracolo, anche perché la guerra era passata dall’essere offensiva all’essere difensiva e questo era molto più nelle corde del carattere degli italiani. Destituito come era ovvio, e era il minimo, Cadorna, l’esercito vinse la sua battaglia difensiva, appunto, quando “il Piave mormorava” e gli austriaci provarono lo stesso senso della sconfitta, oramai definitiva, dato agli Italiani, ad un anno esatto da Caporetto il 24 Ottobre 1918. Così iniziò la battaglia finale della Grande Guerra passata poi alla storia come la battaglia di Vittorio Veneto.
In realtà non ci fù niente di cosi eroico, in quanto gli austriaci cosi come i tedeschi alla fine del 1918 erano alla fame, la battaglia tanto declamata dalla retorica nazionale non fù altro che una grossa operazione di inseguimento su un nemico oramai vinto e disgregato. L’impero Austro-Ungarico stava scomparendo e i popoli ad esso sottomessi non pensavano certo di combattere per l’aquila austriaca ma gettavano spontaneamente le armi ai piedi dei soldati italiani prima di rifluire in massa verso i loro Paesi d’origine.

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