30 gennaio 2017

15 ANNI DI EURO: SPERANZA O DELUSIONE? di Antonio Laurenzano


15 anni di euro: speranza o delusione?


Passato sotto silenzio il compleanno dell’euro. In un clima di crescente euroscetticismo nessuna celebrazione per i quindici anni di vita della moneta unica. Nel 2002 l’euro, con il festoso changeover in undici Paesi europei, era stato salutato come il simbolo della integrazione monetaria del Vecchio Continente, preludio alla costruzione politica della comune casa europea. Ma nel tempo, nei Paesi economicamente più fragili, è divenuto il bersaglio di imprese e famiglie per averne eroso il potere d’acquisto peggiorato dalla crisi economica.
Sono stati quindici anni non sempre facili, una corsa ad ostacoli iniziata all’insegna della diffidenza dei mercati e dello scetticismo di alcuni economisti, un ostacolo superato nei primi anni grazie al concorso di due fattori: la Cina che, producendo merci a basso prezzo, ha impedito l’inflazione a livello mondiale e la Fed (la banca centrale americana) che, immettendo enormi liquidità nell’economia globale, ha tenuto bassi i tassi d’interesse. Un mix di grande effetto interamente assorbito dalla crisi dei subprime 2007-2008 con lo scoppio della “bolla” immobiliare, punto di partenza della recessione mondiale. Senza la liquidità degli anni precedenti i mercati hanno richiesto rendimenti sempre più alti per comprare titoli del debito sovrano dei Paesi deboli. La crisi finanziaria si è poi estesa all’Eurozona che, priva di una politica strutturale convergente dei suoi 17 membri, è andata in tilt. E per l’euro è stata notte fonda! Una notte che non è ancora finita …
La grande crisi del 2007 infatti ha messo a nudo il problema dell’euro: essere una moneta senza un governo, senza uno Stato, senza una banca capace di garantire un intervento illimitato in caso di difficoltà. E’ l’anomalia di un’Europa unita sotto il segno della moneta, con la Banca centrale europea, unica istituzione federale, priva del sostegno di una politica economica comune e un coordinamento delle politiche fiscali e previdenziali.
L’origine della crisi dell’euro sta nello stesso trattato istitutivo dell’Unione Economica e Monetaria (UEM): si sperava che le regole (rigide) definite a Maastricht e le loro successive modificazioni (Fiscal Compact) avrebbero consentito ai Paesi dell’Eurozona una crescita forte ed equilibrata. Ma senza un comune ombrello protettivo ogni Paese risponde da solo dei debiti del suo Governo, delle sue banche, delle sue imprese con la conseguenza che l’assenza di aiuti da parte di Bruxelles e Francoforte provoca l’aumento dei tassi d’interesse, la rarefazione del credito, l’arresto della crescita. Senza una reale unione economica Paesi forti sempre più forti, Paesi deboli sempre più deboli! Le singole economie nazionali troppo diverse fra loro, i cicli economici troppo asimmetrici e il fattore di mobilità molto basso. La moneta unica inevitabilmente avvantaggia i Paesi entrati nell’Unione in una situazione più competitiva (debiti pubblici moderati, migliore organizzazione della produzione e del lavoro, amministrazione pubblica e giustizia più efficienti) e danneggia quei Paesi con finanza pubblica allegra e in forte ritardo sulle riforme.
L’Italia, non in regola con i parametri su deficit e debito fissati a Maastricht, per entrare nell’Eurozona ha pagato un prezzo enorme con il cambio lira-euro troppo alto “imposto” a Prodi e Ciampi dalla Germania a difesa delle proprie esportazioni. Un perverso sistema di cambi fissi che impone ai Paesi in deficit l’onere dell’aggiustamento, a danno della crescita, e non chiede alcun impegno di solidarietà ai Paesi in surplus (Germania). La nostra competitività che fra il 1970 e il 1995 aveva consentito la crescita della produzione industriale si è così volatilizzata. Nel 2002 il nostro reddito pro capite era del 20% superiore alla media dell’area euro, oggi è del 20% sotto la media, con aumento della disoccupazione all’11,6%, contro il 4,1% della Germania. Negli ultimi otto anni, il Pil (la ricchezza nazionale) è sceso di sette punti e il nostro bilancio, pur registrando un avanzo primario, chiude sempre in rosso per il pagamento del crescente debito pubblico (133%).
E’ questo il quadro economico-politico entro il quale la leadership politica europea dovrà muoversi per trovare nuovi equilibri, nuovi stimoli per disegnare una convergenza economica all’interno dell’Eurozona, presupposto essenziale per la sopravvivenza della moneta unica nel lungo periodo. Stop al rigore senza sviluppo e crescita, ai diktat della Commissione europea che, non promuovendo una politica economica espansiva, alimenta la protesta contro l’euro. Ma quali le conseguenze di una uscita dalla moneta unica e il ritorno alla sovranità monetaria nazionale? Per l’Italia un cammino in salita: disallineamento degli spread, insostenibilità del debito pubblico con tassi d’interesse alle stelle, cambiale da pagare alla Bce di 358,6 miliardi di euro, svalutazione della moneta nazionale (oltre il 30%!), esplosione dei costi energetici, illusione di maggiore export, inflazione a doppia cifra! Secondo un rapporto di Mediobanca sarebbe un vantaggio per l’Italia uscire dall’euro a una condizione: rimborsare il debito in lire svalutate! Sogno o realtà?...

Cosa fare? Ricondurre la questione europea nel suo alveo naturale che è quello politico e non quello asfittico delle gabbie di procedure. Rivedere i Trattati e il rigore di Maastricht attraverso un meccanismo di tassi di cambio “aggiustabili” per neutralizzare lo strapotere economico tedesco. Un passaggio obbligato per mettere al riparo l’euro dagli atti di pirateria dei mercati e l’Europa dal diffuso disagio sociale ed economico e dai rischi per la coesione sociale e la stessa democrazia.

(c) Antonio Laurenzano

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