15 dicembre 2014

TOMMASO BIFOLCO, SCRITTORE E POETA di Vincenzo Capodiferro


TOMMASO BIFOLCO, SCRITTORE E POETA

Penna promettente, ironica e maestosa


Tommaso Bifolco è nato a Potenza nel 1992. Frequenta la Facoltà di Lettere e Filosofia presso l’Università della città locale. Ha già pubblicato “Il silenzio della Tempesta”, una raccolta di poesie, nel 2012, e “Polvere di Farfalle”, una raccolta di aforismi nel 2013. Sta lavorando ad altre raccolte ed ad un romanzo. È stato inserito in diverse antologie, tra cui “Impronte” nel 2013 e “Poeti contemporanei” nel 2014. Come dice egli stesso «Il poeta è un fiore appassito, ma pur sempre un fiore». E la poesia diviene «dolce luce soffusa, che nel silenzio abbaglia il sole» (p.1). la poesia stessa è illuminazione originaria. Ci viene in mente Ungaretti, col suo: M’illumino d’immenso. La poesia è una luce che rifulge nelle tenebre, ma la luce deve risplendere dentro di noi e non fuori di noi. La lanterna dell’anima è l’occhio, se l’occhio è buono vede bene, se non è buono vedrà torbido. «Un povero poeta, strano, solitario, a volte,/ seduto in un angolo tremante piange./ Un poeta, sofferente dei suoi sbagli,/ non chiede senso, ma consuma ogni sua lacrima». A volte la poesia deriva dal dolore, ma la fonte stessa della poesia è l’amore, poiché dolore è mancanza d’amore, perciò diciamo anche che amore è dolore. L’arte è sempre, come sosteneva Croce, espressione di un sentimento: d’altronde non tutti i sentimenti sono esprimibili, poiché tra essere e pensiero, come diceva Derrida, vi è sempre una différence. Heidegger pensava che il linguaggio è la dimora entis. L’amore e il dolore sono come il Sole e la Luna che animano il cielo poetico sotto cui si dipana il giovane Tommaso, un giovane promettente. Un suo aforisma recita: «Vorrei gustare il sapore del veleno, ma preferisco l’angoscia, pur essendo lenta e costante, mantiene in vita». I re antichi, per non morire avvelenati, assumevano a piccole dosi veleno in modo da divenire assuefatti. L’angoscia è, così, un veleno mortale che viene assunto ogni giorno. La vita stessa è angoscia, lo diceva Kierkegaard. L’angoscia è la situazione in cui si svolge il dramma dell’umana esistenza, perché l’uomo vive solo dell’istante, perciò è astrazione dell’eterno, questo è il peccato originale. E Schopenhauer anche: tutto è dolore e noia. Dei sette giorni della settimana sei sono dolore e il settimo è noia. E Leopardi scrive il “Sabato del villaggio”.  Il sabato del villaggio ci richiama il Shabat della creazione, quando Dio ha compiuto il suo lavoro, e si è riposato, esclamando: è cosa buona e giusta! In Tommaso scorgiamo questo pessimismo velato: piacer, figlio di affanno,  verseggia Leopardi. Ma c’è anche una forte ironia. L’ironia è dominatrice nell’altra sua opera “Polvere di Farfalle”, ove gli aforismi, che ricordano sempre Schopenhauer, sono accompagnati dalla potenza viva di immagini. Bellissima idea! Vi sono sempre due canali comunicativi: quello discorsivo, che è mediato, e quello iconico che è immediato. Gli aforismi sono pensieri condensati. C’è uno svolgimento di pensiero in questo libro molto interessante e notevole. Lo possiamo consigliare usando le parole stesse di un suo aforisma: «Non c’è niente di meglio che immergersi nelle parole di un libro, nell’odore di carta che ti accarezza le narici per demolire ogni tua sofferenza, ogni pensiero, ogni tormento. Il problema è che alcuni personaggi vivono le tue stesse cose» (p. 194). E proprio a proposito di Schopenhauer leggiamo: «Certi esseri umani, se vogliamo essere precisi, bipedi, a detta di Schopenhauer, sono l’incipit di una vita inutile». Schopenhauer riprende la definizione che diede Platone dell’uomo: l’uomo è un bipede implume. In altri termini: l’uomo è un pollo senza piume. La sottile ironia è rivelatrice del vero. Il perduto “De Risu” d’Aristotele, tanto vagheggiato da Eco ne “Il nome della Rosa”, Rosa pristina nomen, ci farebbe proprio da eco di questa sonora potenza della risata, ma anche del sorriso. Il riso è strettamente legato al pianto. La potenza del comico è co-originaria a quella del tragico. L’ironia, come insegna il grande Socrate, è il significato di un atteggiamento psicologico che offre lo spettacolo di un confronto tra ignoranze presuntuosa, fondata sul sapere di sapere, e, invece, dotta ignoranza, umile, fondata sul sapere di non sapere. L’ironia è virtù, perché in medio stat virtus. L’ironia sta tra la violenza dello scherno e l’asprezza della satira. Il primo estremo è individuale, il secondo è sociale. Chi veramente ironizza compatisce senza accanimento e motteggia solo per educare.

Vincenzo Capodiferro

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