12 luglio 2014

I POEMI OMERICI FURONO SCRITTI DAI POPOLI SIRINI di Vincenzo Capodiferro

I POEMI OMERICI FURONO SCRITTI DAI POPOLI SIRINI
Sconcertante tesi in un “Viaggio a Costantinopoli” della fine del ‘700


La questione omerica che ha animato tanti secoli di critica letteraria è ancora tutta da definire. Nessuna notizia certa si apprende dagli antichi autori sul cantore dell’Iliade e dell’Odissea. Se si esclude ogni valore storico dalle notizie biografiche delle “Vite omeriche”, non rimane che il nome del poeta e delle sue opere a far luce sulla sua oscura origine e personalità. Al nome “Omero” i Greci davano più di un significato e di etimologia allegorica: egli sarebbe stato “colui che non vede”, il cieco aedo, come cieco è l’aedo dei Feaci nell’Odissea. Sulla patria e sull’epoca, la tradizione comunque oscilla, incerta fra limiti molto ampi: «Sette città della Grecia si contesero il vanto di aver dato i natali ad Omero: Smirne, Chio, Colofone, Itaca, Pilo, Argo ed Atene», così cantava un anonimo in un famoso epigramma. Eppure fin dai tempi vichiani era valsa la tesi che i poemi fossero, più che attribuibili ad un unico autore, una raccolta di scritti poetici e mitici delle antichità greche. In un “Viaggio a Costantinopoli”, pubblicato a Parigi nel 1798 dal conte di Salaberry, l’autore, che evidentemente passa attraverso il Regno di Napoli e attraverso la Lucania, fa delle sconcertanti osservazioni a proposito delle Scuole Omeriche: «Si sa che Smirne, Clazomene, Colofone si sono disputati la gloria di aver visto nascere Omero. Si crede che Smirne sia la sua patria dietro le conclusioni che hanno tratto i viaggiatori, come l’inglese Hood a questo riguardo. Ma ciò che tutto il mondo non sa è che un abate ha fatto una dissertazione per provare che il nome di Omero non è altra cosa che il titolo dei libri sacri dei sacerdoti di Siris in Lucania e che la storia di Troia non è altro che un’allegoria. Le tombe di Achille, di Ettore e di Aiace, ritrovate nella Troade, sono invece trasposizioni mitiche». Il conte non dà chiarimenti su chi fosse questo ecclesiastico, autore di quella dissertazione, ma ne dà il titolo, “L’etimologia del monte Volturno”. È veramente una tesi bella e sconcertante, che andrebbe approfondita e che farebbe luce sugli antichi popoli sirini del Lagonegrese, sui quali ci sono pochissime fonti storiche. Sappiamo che Siri ebbe un territorio ricco e fertile, la Siritide, sul quale si stanziarono proprio degli esuli troiani a partire dal XII sec. a. C., nonché coloni ionici, di Colofone, appunto. È possibile che di lì portarono il culto ed i libri sacri della dea babilonese Siri, o Sini, dea Luna. La città di Siri si trovava presso la foce del fiume Siri, l’attuale Sinni, tra Policoro e Rotondella. La Siritide fu una regione molto contesa dalle colonie vicine per la sua ricchezza, tanto che più volte fu invasa, per cui Siri decadde ed i suoi abitanti si spostarono a Pandosia, l’attuale Anglona, ove sorge un famoso santuario mariano sulle rovine di un antico tempio dedicato alla madre Sini, dopo di che rifondarono la colonia di Heraclea. Siri non è da confondere con Sinis, il piegapini della mitologia greca. Il monte della dea Siri era il Sirino, o monte della Luna, che si abbraccia col monte del Sole, o di Apollo, il Pollino. Il fiume Sinni è il fiume di Sini, mentre l’Agri era l’antico Acheronte. Come riferisce il prof. Vincenzo Labanca nel suo “La leggenda del dio lucano”, dall’unione di Apollo con Siris, Sole e Luna, nasce un bambino di luce, Lucano, donde la Lucania. Come abbiamo ampiamente dimostrato nelle nostre ricerche sul mito dell’Antenna, nonché sui riti della mietitura, la regione del Metapontino rappresentava nell’antica toponomastica, una trasposizione dell’Inferno, o Ade, coi suoi quattro fiumi: l’Acheronte, l’attuale Agri, lo Stige, l’attuale Sinni, colla sua palude, che era ricordata fino a quando non fosse stata abbattuta con la riforma agraria del 1951, la portentosa foresta di Policoro, gioiello del Regno di Napoli e custodita fino a quando fu in possesso del barone Berlangieri, il Piriflegetonte, il Bradano, l’antico Uradanus, e Oceano, il Basento, l’antico Vasentum. Evidentemente si trattava di libri sacri e di un culto dovuta al dio dell’Inferno, o a Persefone. Molto ancora però si deve fare per lo studio archeologico di questa parte tanto trascurata dall’antica magna Grecia, per chiarire anche gli usi ed i costumi degli esuli che portarono il culto di Siri nella terra della bassa Basileia, la terra regale. 

Vincenzo Capodiferro

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