DEL PLATONISMO NELLA TEORIA
FREUDIANA
Riflessioni sull’analitica della psiche
La teoria freudiana riconosce al di sotto
della zona luminosa della coscienza altre due: quella del preconscio e quella
dell’inconscio. Queste “zone” poi nella mappa della personalità della topica
secunda diverranno le tre famose istanze dell’Es, dell’Io e del Superio.
Freud chiama rimozione l’azione che inibisce la traduzione delle presenze
psichiche inconsce in fattori rappresentativi coscienti. Questo è il processo
primario dal quale derivano tutti gli altri meccanismi propri dell’Io, compresi
quelli di difesa. L’azione di clausura è essa stessa inconscia o involontaria e
racchiude i complessi psichici nell’inconscio, arrestando il loro svolgimento
attuale, ma non quello potenziale. I complessi naturalmente esercitano
un’azione sul conscio, la quale è alla base di tutte le manifestazioni di
differente gravità nell’ambito psichico, dalle gaffes e i lapsus alle
fissazioni, dalle nevrosi alle psicosi. La cura delle situazioni psichiche
anormali o patologiche può venir attuata, secondo la nota teoria della
psicoanalisi, attraverso lo studio analitico della psiche. Le vie espressive
dell’inconscio possono essere riscontrate in vari fattori, dalle libere
associazioni all’interpretazione del linguaggio onirico, dall’imprinting al
transfert. Eppure se analizziamo bene la teoria freudiana troviamo delle
sorprendenti analogie con la topica platonica dell’anima. Con un mito famoso
Platone descrive la natura e la sorte dell’anima umana: «Si intenda l’anima
simile ad una realtà affine ad un carro alato e ad un auriga. I cavalli e gli
aurighi degli dei sono buoni e bennati, gli altri misti. In primo luogo
l’auriga nostro tiene alle redini una pariglia, e dei cavalli l’uno è bello,
buono e nato da simili genitori, l’altro è tutto il contrario. Necessariamente
la guida è per noi ardua e difficile» (Fedro 246 a-b). Platone individua tre zone dell’anima:
quella concupiscibile, paragonata al cavallo nero che tende verso il basso,
quella irascibile, al cavallo bianco che tende verso l’alto e quella razionale,
all’auriga che deve guidare queste due difficili realtà. Possiamo però ben
equiparare la prima all’Es freudiano, la seconda al Superio, la terza all’Io,
che “deve servire a due padroni”. Queste tre parti, che Platone poi individua
in altrettante zone “erogene” - tanto per usare un linguaggio psicoanalitico -
cioè la pancia, con sottintesi gli
organi di riproduzione (cioè di carica,
ma anche di scarica di materiale organico di scarto), il petto e il capo, sono
presiedute da tre principi diversi, che Freud sintetizza molto bene: il
principio di piacere, il principio di dovere (sia positivo, o Io ideale, che
negativo, o Io critico) ed il principio di realtà. Tutti questi principi sono
dominati da uno in particolare, il quale deve garantire la stabilità delle
funzioni psichiche: quello di costanza. Quest’ultimo corrisponde nella teoria
platonica a quello della giustizia. Alle tre parti dell’anima difatti
presiedono tre virtù: la temperanza, la fortezza e la sapienza. Oltre a queste
tre Platone enumera una quarta virtù: la giustizia, che non ha una sede
particolare, ma che piuttosto ha funzione regolatrice e mediatrice delle altre
e provvede affinché ciascuna delle altre operi nei suoi giusti confini. Sono le
virtù cardinali. Portiamo questo stesso schema sul piano della psicologia delle
masse, come fa Platone nella sua teoria dello Stato espressa nella Repubblica.
Lo Stato è inteso come un grande individuo, che deve avere il suo capo, il suo
petto e le sue viscere. Come nell’anima Platone prevede tre nature: quella
concupiscibile, quella irascibile e quella razionale, così «Lo stato ci risultò
giusto se in esso si trovano i tre tipi di nature, e se ciascuna attende al suo
compito» (Repubblica, IV, 435B). Di qui si spiega la platonica
tripartizione in classi: ai filosofi spetta la funzione di cervelli
legislatori, ai guerrieri la difesa, agli artigiani la produzione. Con le
dovute differenze cronologiche questa interpretazione non ci sembra molto
lontana da quella junghiana dell’inconscio collettivo. Lasciamo a parte il
comunismo platonico per non esulare dal tema di questa riflessione. Sappiamo
che le fonti della teoria freudiana sono molteplici: il subconscio leibniziano,
la teoria delle percezioni subliminali di Herbart, la Volontà schopenhaueriana,
Nietzsche e tante altre. Eppure non mancano i modelli greci: il complesso di
Edipo ne è un esempio. Ma possiamo citare anche quelle istanze “trascendenti”
di Eros e Thanatos, che manicheisticamente e misticamente dominano il mondo
psichico. Sebbene la psicologia moderna sia nata come scienza col primo
laboratorio di Wundt a Lipsia nel 1876, eppure i filosofi dell’antichità
avevano già una più o meno chiara visione dell’anima umana. Ciò che invece
manca alla teoria freudiana è la platonica immortalità dell’anima. Eppure Freud
fu ossessionato da Mosè, il grande riformatore religioso, discepolo del faraone
Achenaton, il primo profeta storico del monoteismo. Marx e Freud, pur essendo
di origine ebraica, rinnegarono il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il
Dio dei loro stessi padri. Marx vi sostituì l’immortalità della Società
Comunista e del suo eterno anticristo, la Borghesia e Freud quella dell’Eros e
del suo eterno anticristo, la Morte. È chiaro che la psicoanalisi è molto
aderente all’irrazionalismo, al sottosuolo oscuro della personalità, nonché ad
una concezione evoluzionistica. L’Eros è il grande propagatore della specie
umana. Spinoza, pur essendo di origine ebraica non arrivò mai a negare Dio,
anche giunse ad affermare il panteismo assoluto. Dal panteismo all’ateismo il
passo è fatto, dal tutto al nulla valet illatio. Marx e Freud
denunciarono il carattere allucinatorio della religione (opium populi),
eppure eressero dei nuovi altari a Psiche ed allo Stato. L’analista e il
rivoluzionario di professione divennero i nuovi preti della società
post-freudiana. La teoria freudiana andrebbe corroborata allora con quella
platonica. Molti dei mali psichici infatti derivano oltre che dai vari
complessi dell’infanzia anche dal desiderio innato di immortalità e dalle
strategie della morte (timor mortis).
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