FEDRO E LA GIUSTIZIA
Dodici favole rivisitate in vernacolo da Teresa Armenti
Nella
collana “I Saggi” dei quaderni curata dall’associazione culturale Lucaniart è
comparsa in questo autunno caldo ed altezzoso, un’operetta significativa ed
apprezzabile della poetessa e scrittrice Teresa Armenti, dall’emblematico
titolo “Fedro e la giustizia”. L’autrice parte da un dato di fatto dirompente:
«La notizia della condanna a 14 mesi di carcere data al Direttore del Giornale
Alessandro Sallusti,» citiamo testualmente «per il reato di diffamazione, senza
condizionale, mi ha fatto rizzare i capelli, mi ha fatto mettere in discussione
tutta la giustizia italiana e mi ha fatto andare indietro nel tempo, di 2000
anni, quando Fedro …» e di qui nasce questo brevior
ma incisivo exploit sul mondo frediano, in cui primeggia la fabula, con tutta la sua carica
rappresentativa e morale. L’autrice ha estrapolato le favole sulla giustizia
ispirandosi direttamente alla sua tesi di laurea su Fedro, discussa presso il
Magistero di Salerno il 14 luglio 1974, essendo relatore il Prof. Riccardo
Avallone. Il tema forte della giustizia padroneggia nella rilettura di Teresa,
all’insegna dell’espressione frediana: Plebeio
piaculum mutire est. Vi vengono riportate, nella suggestiva drammatizzazione
vernacolare quelle tinte pessimistiche e sfumature moralistiche tipiche del
favolista latino. E dal latino al vernacolo lucano, il dialetto che viene quivi
adusato, il salto è molto breve: quante parole - basti pensare – delle nostre
lingue derivano direttamente dal latino, o dal greco, o dal celtico, se
pensiamo ad esempio ai dialetti insubrici! Queste sfumature si possono cogliere
nelle affermazioni decisive che si ritrovano nei commenti che accompagnano il
passaggio da una favola all’altra: «Per Fedro, la legge che regola i rapporti
umani è quella del taglione: - occhio per occhio – dente per dente – e rendere
male a chi fa il male. “Non bisogna danneggiare altri, ma se qualcuno
offenderà, sia parimenti offeso». Ed ancora «L’astuzia può essere punita dall’astuzia,
la violenza dalla violenza e dall’astuzia». «La giustizia, anche quando sembra
realizzarsi, non rompe la catena dei rapporti di forza e di frode». «La
giustizia non è assicurata dagli dei e neppure dall’organizzazione degli
uomini». Sono letture importanti, eppure la cosa più bella che traspare da
questo exploit è proprio l’uso del vernacolo, nella sua purezza e schiettezza.
Quel mondo della favole non è tanto distante dal nostro mondo ancestrale,
quello della Lucania sconosciuta, dei suoi paesi appesi a briciole di storia,
di tradizioni, di costumi che si riconoscono pienamente in quell’esemplarismo
fedriano. E la storia, purtroppo, si
ripete! Come in quel mondo animalesco, dominato da un ancestrale, belluinico, hobbesiano stato di natura ove
troneggia l’homo homini lupus, o
l’uomo che machiavellicamente si
destreggia tra la golpe ed il lione. Teresa Armenti vive da quando è
nata in un ameno paesino lucano, Castelsaraceno, aggrappato alle pendici ora
riottose, ora lievi, dell’Appennino. Ha insegnato per anni Lettere e si è
dedicata alla cultura, alla storia ed alla poesia. Fa parte di numerose giurie
di concorsi letterari, tra cui quello di Solofra e “Pubblica con noi” Fara di
Rimini. Tra le sue opere ricordiamo “Quotidianamente” (1993); “La danza di
attimi vaganti” (1996); “S. Angelo al
monte Raparo e il culto micaelico” (1998); “Mio padre racconta il Novecento”
(2006). Ultimamente, insieme all’amica e collega Ida Iannella, ha curato una mostra itinerante
sull’archeologo Dinu Adamesteanu.
Vincenzo
Capodiferro
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