16 agosto 2008

Shiller e Goethe, un'amicizia senza "tu"

di Augusto da San Buono


Friederich Schiller influì come nessun altro sulla formazione del borghese ottocentesco di media cultura”, scriverà Goethe, subito dopo la prematura morte del più giovane amico, avvenuta circa duecento anni fa. E al suo grido di dolore – “Egli era un genio, ed era nostro!" – farà eco in tutta Europa il rimpianto di chi lo venerava come il cantore della libertà, della giustizia, l’artista che aveva il culto del bello e del buono.
In effetti, Schiller, con il suo genio del teatro, del quale ha avuto un intuito e un istinto come pochi altri autori al mondo, con quel suo fare un teatro da “tribunale dell’anima e specchio dei tempi” riusciva ad infiammare le folle come nessuno era stato capace prima di lui, in Germania, ma anche altrove.
Schiller, con il suo titanismo ribelle, l’amore delle antitesi estreme, (il buono e il cattivo, i fratelli nemici, l’oppressore e la sua vittima), il culto della natura come sfrenatezza vitalistica, l’esaltazione dell’istintività e della passionalità, della rottura delle convenzioni, aveva scardinato i dettami del teatro del suo tempo, e nei suoi drammi riesplodeva, con nuovo fragore, lo Sturm und Drang (tempesta e assalto) inaugurato anni prima da Herder, Hamann, Klinger e dallo stesso Goethe.
Cittadino francese, aveva uno stile retorico, convulso, irsuto, ma che prendeva direttamente al cuore dello spettatore, lo faceva delirare. E l’onda delle sue opere, che incarnavano lo spirito e le virtù più alte del popolo tedesco, si riverberò in tutta Europa, a partire dalla Francia rivoluzionaria, che lo aveva eletto cittadino francese quale benemerito della libertà. Il decreto, del 1792, porta la firma nientemeno che di George-Jacques Danton, l’avvocato Danton dal viso largo roseo e rincagnato come quello di un maiale, che allora era ministro della Giustizia e aveva visto, e ammirato, i drammi dello scrittore tedesco, che continuarono ad avere una straordinaria popolarità per tutto l’Ottocento, dovunque e comunque fossero rappresentate. Infatti tali opere vennero amplificate grazie alla messa in musica dei più grandi compositori del tempo, parliamo di Rossini, Donizetti, Verdi che porteranno sulle scene le sue grandi tragedie, dal “Gugliemo Tell” a “I masnadieri”, da “Luisa Miller”, “Maria Stuarda” al “Don Carlo”. Per non parlare del grande Ludwig van Beethoven, che dopo aver vagheggiato per anni l’idea di mettere in musica la “Ode alla gioia”, riuscì ad inserirla, in modo davvero sublime , nel finale della Nona sinfonia. E oggi quell’ode, che in origine doveva intitolarsi ode alla libertà, è diventata l’inno dell’Unione Europea.

Incontro con Madame De Stael


Ma la libertà cantata da Schiller, e travasata nella grande musica ottocentesca, non è solo una nobile retorica frutto di quei tempi di feroce oppressione e tirannia, bensì fa i conti, in un crescendo tragico, con le contraddizioni, le ombre, le oscurità che si annidano nel groviglio umano, sul piano individuale come su quello collettivo. I suoi drammi - nutriti di profonda conoscenza storica e filosofica e animati da un talento scenico senza pari - scandagliano le tortuosità in cui si dibatte la libertà, personale e politica, nel mondo moderno.
Madame de Stael , che l’aveva conosciuto a Weimar, nel 1803, dove si era recata per incontrare Goethe, vedendolo vestito con l’uniforme di corte, tutto compunto e serioso, lo aveva scambiato per il vecchio comandante del piccolo esercito locale. Al che lui rispose: “Sono il poeta Schiller. Ai suoi ordini, Madame”. Era pallido, aveva i capelli rossicci, un naso grande, gli occhi chiari e dolci, un aspetto volitivo, capace anche di spietatezze e villanie. Ma dentro di sé rivelava un nucleo assetato di amore e di soavità, dice la de Stael.
Ma altri che lo conobbero parlano di uno Schiller da volto nobile e bello come quello di un angelo guerriero, dicono che era sublime e che gli si leggeva nello sguardo tutto il suo idealismo e la sua lotta eroica contro ogni tirannia. E lo stesso Goethe confermò che ogni suo movimento, ogni suo atteggiamento “era fiero e pieno di grandezza”. Era magro, alto, ma curvo, con il petto incavato, sofferente di quel male ai polmoni che dopo averlo tormentato per anni lo avrebbe portato alla tomba. Il vecchio Goethe lo ricorda così e non si consolerà mai della perdita dell’amico con cui aveva dato vita alla rinascita dell’umanesimo tedesco, al classicismo di Weimar, utopia di un’armonia di vita politica, cultura ed arte che poteva essere realizzata solo in un piccolo staterello in cui tutto era a portata d' occhio e di mano come nell' antica Polis greca... Ma in realtà erano davvero così amici, i due grandi poeti tedeschi?

Incontro con Goethe

Schiller e Goethe (non si conoscevano personalmente, ma avevano intessuto uno scambio epistolare ormai da anni) si incontrano per la prima volta nell’estate del 1794, a Jena, presso la Società per lo studio della Natura. Fanno quattro passi e discorrono delle cose appena sentite. Sono diversi in tutto, ma sono due geni, tra i più grandi che la Germania e l’umanità abbiano avuto, e non possono continuare ad eludersi. Goethe ha quarantacinque anni ed è ormai un monumento vivente. “Quest’uomo, questo Goethe – scrive Schiller ad un amico - mi sbarra la strada, e mi ricorda anche troppo spesso che il destino mi ha trattato duramente. Con che leggerezza il suo genio è stato portato dal suo destino, io invece come sono costretto ancor oggi a combattere minuto per minuto”. E’ vero. Schiller ha tuttora problemi a mettere insieme il primo e secondo piatto, nonostante sia professore di storia all’Università di Jena. Dal momento che ha lasciato la carriera militare (era ufficiale medico del reggimento dei granatieri a Stoccarda), e ha deciso di vivere della sua penna, - cosa non facile anche per un autore come lui, che aveva esordito con uno strepitoso successo (“ I Masnadieri) -, Schiller ha vissuto di privazioni, stenti, miserie che gli hanno esacerbato l’animo e procurato un’affezione polmonare cronica, malattia che gli sarà fatale. Ha solo trentacinque anni, ma ne dimostra molti di più. “Con tutti gli acciacchi e le sofferenze fisiche e interiori che ho, mi sento addosso il doppio degli anni”. A poco più di vent’anni era diventato lo scrittore più amato dai tedeschi, grazie a “I masnadieri”, che aveva portato la gente fino al delirio, successo che aveva replicato con il “Don Carlos”, e tuttavia ciò non era servito a dargli una stabilità economica. E anche la sua prestazione accademica non era remunerata, l’unico introito era la tassa di iscrizione ai corsi degli studenti, che non erano moltissimi. Doveva ancora soffrire, arrabattarsi; doveva sopravvivere, mentre il grande Goethe sperperava i talleri del principe Carl August nei viaggi in Italia e diceva di lui che aveva un gran talento, sì, il suo talento era robusto, ma era immaturo. Le sue opere erano dei paradossi etici e teatrali da cui lui aveva cercato di purificarsi ormai da gran tempo. Deplorava che un’opera come i Masnadieri suscitasse il plauso appassionato sia dello studente che della più colta dama di corte. Anzi, a dirla tutta, quei drammoni dai toni crudi e ignari di chiaroscuri del giovane Schiller, che avevano suscitato l’entusiasmo e il delirio degli spettatori, gli facevano davvero paura, gli davano l’impressione che tutti i suoi sforzi fossero stati vani. Un testimone dell’epoca dirà che alla fine della prima rappresentazione de I masnadieri al teatro nazionale di Mannheim, nel 1782, il teatro sembrava un manicomio, occhi stravolti, pugni chiusi, grida roche, donne che svenivano, sconosciuti che si abbracciavano singhiozzando.
Sì, va bene il dramma familiare, il conflitto tra fratelli, il conflitto padre-figlio, il teatro classico dei greci, va bene quel senso di minaccia che incombe sull’ordine cosmico e anche la condanna di una società corrotta, la devozione pietistica, la difesa dei diritti dell’individuo nei confronti di una società ipocrita e menzognera, spesso schiava dell’arbitrio e della tirannia di un signorotto di campagna … ma c’è una “soverchia prepotenza passionale nelle sue opere”, dice Goethe che probabilmente soffre di quel sentimento umanissimo che è l’invidia per i successi del più giovane Schiller, successi che a lui mancavano dal tempo de “I dolori del giovane Werther”. E tuttavia, a suo tempo, lo aveva raccomandato affinché fosse nominato professore di storia all’Università di Jena, nel 1789. Perché? , forse proprio per non doverlo incontrare, per non doverlo “affrontare” (passeranno altri cinque anni prima che i due si incontrino), forse per toglierselo dalle scatole, o dirottarlo su alti versanti dello scibile umano (la storia, la filosofia) riservati a un nucleo ristretto di persone? Non lo sappiamo.
Ma quando i due finalmente si incontrano è un momento mitico, magico, unico, irripetibile , un evento straordinario e fecondo, che influenzerà tutta la cultura tedesca e mondiale.

La lettera di Schiller

Schiller capisce subito che quel monumento vivente che è Goethe (ma la prima impressione un poco lo delude: “ E’ di media statura, dal portamento e dal passo rigidi, ha il viso chiuso , però il suo occhio è molto espressivo , vivace , e si pende con molto piacere dai suoi sguardi, e la sua voce è di estrema gradevolezza) deve conquistarlo come amico, visto che non può eliminarlo o sconfiggerlo. Gli scrive una lettera per il suo 45° compleanno (il 23 agosto 1794, esattamente un mese dopo il loro incontro), in cui traccia il ritratto interno di Goethe con un potere di sintesi e uno slancio di visione davvero uniche. Lo vede come un genio sintetico che compendia l’intera natura per meglio penetrare nei singoli fenomeni, uno spirito greco che è stato sbalestrato nel mondo del nord e che perciò è costretto a riplasmarsi la Grecia dal di dentro, per forza di intelletto. Uno che passa continuamente dalla visione diretta all’astrazione e viceversa, giungendo per puro intuito a collimare perfettamente coi più ardui raggiungimenti del pensiero speculativo. Nessuno prima di allora aveva meditato su di lui con tanto acume, con tanta genialità e – sì, anche questo – con tanto veggente amore. Goethe si commuove e con gioia accetta un sodalizio operativo con lui, anzi ha perfino l’umiltà di chiedergli di essere illuminato e spronato dal più giovane amico. E’ da tempo che vive troppo isolato, a Weimar, ha bisogno di un colloquio ad alto livello, e sente che quell’idealista, quell’agonista sovraeccitato che ama smodatamente il tabacco e il caffè, che ha insane abitudini di lavorare la notte e dormire fino all’ora di pranzo, che ha fretta di spendere, bruciare la sua vita in nome di un ideale, in fondo non gli dispiace per nulla. Anzi, gli può essere utile, può avere con lui un duetto dialettico di altissimo livello che gli darà nuova linfa e grandissimi risultati artistici.
E i due diventano amici, ma – dice Italo Alighiero Chiusano - non mai amici nel senso più affettuoso e tempestoso (o anche idillico) che la parola possa evocare, è un’amicizia la loro senza tu, un’amicizia senza confidenza intima, un’amicizia intellettuale, un puro scambio di pensieri e progetti da cui nascerà la cosiddetta “Klassik di Weimar”, una classicità che aveva avuto come padre lontano Winckelmann, e poi Immanuel Kant, i classici, greci e romani, soprattutto greci intesi come scuola di vita e d’arte, nella nobile semplicità e quieta grandezza; la legge morale calata nel cuore dell’uomo, intrinseca alla sua stessa natura; il bello, oggetto dei compiacenza disinteressata, finita in sé, perfetta pregustazione dell’infinito; il dovere e la felicità dei sensi conciliati nell’armonia della bellezza estetica; insomma “un umanesimo individualistico che, attraverso un continuo perfezionamento interiore, diventa esempio e norma universale “ ( W. Von Humboldt)
Dopo il crollo della Germania nella barbarie nazista, Thomas Mann, reduce dall’esilio negli Stati Uniti, commemorando Schiller disse: "La Germania si è smarrita perché ha voltato le spalle a uomini come Schiller che hanno dato lezioni di umanità, di cultura e civiltà".
E’ vero. Ma Schiller – scrive ai tempi nostri Claudio Magris - non va glorificato e irrigidito nella formula del poeta della libertà e della nobile e astratta idealità. Ad uno studio più approfondito , si rivela oggi invece sempre più come il tempestoso ma anche elusivo genio di una sconcertante modernità. Egli scava nell' oscurità del cuore umano e dell' azione politica , affronta il problema delle libertà dei moderni, il nesso fra diritti umani e diritti storici, tra codice e tradizione, fra passione e libertà, tra ordine e rivoluzione, la sua è anche una poesia della “legge” , dei suoi limiti, della sua necessità, della sua complessità . E tutto ciò è di una stupefacente modernità , attiene ai nostri tempi, al nostro vivere attuale.
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Rev. 03-02.13 AdB

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