01 luglio 2007

Giorgio Caproni. Corpo a corpo con Dio.

di Augusto da San Buono
La prima volta che vidi Giorgio Caproni fu circa vent’anni fa, a Roma (“enfasi e orina… Non è il mio ambiente, manca il paesaggio industriale a me tanto caro, manca il porto, mancano le navi”), in via Vitellia, strada che costeggia le mura di Villa Pamphili. Il poeta livornese (“Livorno è l’infanzia e Annina, mia madre… Quando lei passava, Livorno odorava d’aria e di barche”), ma lungamente vissuto a Genova (“Genova sono io, ogni pietra di Genova è legata alla mia storia d’uomo”) era un vecchietto, alto, magrissimo, dal viso affilato, severo, sofferente, più che ieratico, che camminava incerto, come smarrito, trascinandosi dietro l’ombra della disperazione e dell’esilio (“Hanno bruciato tutto./La chiesa. La scuola./Il Municipio. Tutto. /Anche l’erba”).
 
Io non sapevo chi fosse. Fu mia zia Rina, che faceva la portiera al “Casermone”, - antico agglomerato di case di due piani, ex caserma al tempo risorgimentale della Repubblica Romana, nonché “stalla di Garibaldi”, che aveva conosciuto la mia infanzia - che mi disse che quel vecchio era il “maestro”, e che tutti i giorni faceva quella passeggiata, da solo, in cerca di chissà che cosa (“Ricordo una chiesa antica,/romita, / nell’ora in cui l’aria s’arancia / e si scheggia ogni voce / sotto l’arcata del cielo//… Hanno rubato Dio. /Il cielo è vuoto). E – continuò mia zia - non si sa a che pensi. Sembra un fantasma, uno scheletro, ridotto a pelle e ossa, com’è; uno di quelli che hanno perduto la bussola e girano a vuoto, su se stessi. Ma bisogna pur capirlo. Da quando è morta la moglie, la povera Signora Rina (si chiamava come me), non ci sta più con la testa (“ Di questo sono certo: io/ son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento”…S’ha un bel dire./ ma di tutto uno può scordarsi./fuorché di morire”) .


La zia Rina lo conosceva bene, perché in diverse occasioni era stata a casa loro, in viale dei Quattro Venti, a fare le iniezioni alla povera signora Caproni, e tuttora ogni tanto vi si recava nel caso il maestro avesse bisogno di qualcosa. Sai, non ha più memoria…( “Tutti riceviamo un dono ./Poi non ricordiamo più/ né da chi né che sia/ Soltanto, ne conserviamo / - pungente e senza condono – la spina della nostalgia.”).

Dissi a mia zia che Caproni era considerato il maggior poeta italiano vivente, e che sarebbe stato un vero onore per me poter salutare l’autore del “Passaggio di Enea” (“Amore mio, nei vapori d’un bar/ all’alba, amore mio che inverno/ lungo e che brividi attenderti!”), Enea che dopo la guerra e l’incendio, va in cerca di una mai trovata nuova terra dove fondare la mai fondata città, “quell’Enea che simboleggia un po’ il destino della mia generazione fallita”, dirà il poeta delle “Stanze della funicolare (“La mia città dagli amori in salita, /Genova mia di mare tutta scale/ e, su dal porto, risucchi di vita”) e del “Seme del piangere (“Come scendeva fina/ e giovane le scale Annina!/ Mordendosi la catenina / d’oro, usciva via/ lasciando nel buio una scia/ di cipria che non finiva”), raccolte poetiche che avevano ottenuto il premio Viareggio per la poesia sia nel 1952 che nel 1959, per non parlare del “Il Muro della Terra” dal tocco schubertiano, con impennate di violino (“Ho studiato il violino per vari anni, mi ha esercitato alla pazienza e alla quotidiana scoperta dei miei e degli altrui sentimenti”), sprofondate di violoncello, con sfumature di un goticismo hoffmaniano (“Portami con te lontano/ lontano…/ nel tuo futuro”) dove l’unica certezza è quella della vita e della morte.
“Oggi come oggi sento che tutte le strutture (le istituzioni) non reggono più, oggi non viviamo più in un mondo geometricamente perfetto, anche se pieno d’orrende ingiustizie, come all’età di Pericle… Oggi dobbiamo rifare tutto da capo, oserei dire Dio stesso, se questa non fosse, per credenti o miscredenti, una boutade. La mancanza di una certezza, più che mia, mi sembra di un’epoca. Come non ricordare il “Franco Cacciatore”, che insegue la propria ombra e cerca di ucciderla, il libro più spettrale – dice Citati – che sia apparso nella letteratura italiana, un libretto d’opera che nasconde in se la propria musica. Tutto vi è chiuso, serrato, geometrico. (“Sedetti fuori dell’osteria,/ al limite della foresta./ Aspettai invano. Ore e ore/ Nessuna predace in cresta/ apparve della Malinconia/ Aspettai ancora. Altre ore:/ Pensai, in straziata allegria , / al colpo fulminante/ del franco cacciatore” ), o il “Congedo del viaggiatore cerimonioso” (“…No, non è questo il mio paese. Qua – fra tanta gente che viene e tanta gente che va – io sono lontano e solo (straniero) come l’angelo in chiesa dove non c’è Dio), o del suo ultimo libro, che avevo acquistato recentemente da Bono, sul corso, a Gallipoli, “Il conte di Kevenhuller” (“L’AVVISO del Conte fu accolto/ quasi con frenesia./ Il sangue dà sempre allegria/ L’assassinio è esultanza/ Uccidere, un passo di danza/ che sfiora la liturgia”).
Ma tutte queste citazioni, mia zia Rina non battè neppure un ciglio. Rimase incerta dubbiosa, sospetta, assai perplessa. In fondo – disse - si tratta di un maestro elementare in pensione, poverino, che stenta pure a campare, è vestito male, ha le scarpe rotte, ha bisogno di continue assistenza e cure. Non mi sembra il caso di esagerare con la poesia (“Ah poesia, poesia,/ Tristissima copia/ di parole, e fuga/ dell’anima mia”), che in fondo è un perditempo per chi non ha nulla di meglio di fare…
La cara zia Rina non poteva avere nessun altro tipo di considerazione che non fosse di puro compatimento e umana pietà per quell’uomo anziano, abbandonato, triste, malinconico, sofferente, spaesato, che camminava incerto e disperato lungo il muro della Villa Pamphili su cui tante volte, da bambini, io e mio fratello Alberto, c’eravamo arrampicati e avevamo scavalcato, per vedere cosa c’era al di là (“Batte profondo un tamburo/ Sono arrivato al muro/ che vien detto futuro?); quest’uomo “estraneo”, che viveva in permanente esilio. Esiliato dallo spazio (la sua città d’amore, Genova, che aveva dovuto abbandonare per sempre), esiliato dal tempo passato (Annina, la madre, sarta, ricamatrice abilissima, suonatrice di chitarra, con la sua bicicletta azzurra, che faceva scandalo a Livorno; Annina Picchi che amava i canti e i balli, ed era piena di vitalità, una delle figure più importanti della poesia del Novecento), esiliato dalla vita ( quel continuo viaggio nel sogno, nella notte, nella morte, in un livido, delicato delirio romantico; un viaggiatore ironico, lieto, disperato e fraterno, “che sa d’aver più conoscenze ormai di là che di qua”), uno che si sente simile all’ultima rondine in attesa di trasformarsi in pipistrello (“L’ora era tra l’ultima rondine e la nottola“), che se ne va in giro nell’Erebo e nel Purgatorio con un dolore immedicabile e quieto, con una solitudine ormai definitiva. (“E quando sarò così solo da non aver più nemmeno me stesso per compagnia staccherò dal muro la lanterna, un’alba, e dirò addio al vuoto”), un uomo gettato nel vuoto mondo senza nessun orientamento.
La zia Rina, per tutta risposta, mi gelò. Mi disse che il maestro non voleva vedere nessuno, che la gente lo spaventava, aveva timore di incontrare pure il garzone del lattaio. Allora mi ritrassi, ma la pregai di consegnargli un mio libro, “L’isola e il leone”, con una dedica tutta speciale “al più grande poeta italiano vivente”. Non so se la mia povera zia (morì qualche anno dopo) consegnò quel libro, comunque non ebbi alcuna risposta da Caproni, né avrei potuto onestamente averla. Era già uno spettro, un ectoplasma, un fantasma pieno di silenzi, che camminava nel vuoto in cerca di un Dio che “non s’è nascosto. Dio s’è suicidato”. E tuttavia continuava ad invocarlo: “Mio Dio, anche se non esisti, / perché non ci assisti?”. Continuava a pregarlo:“Signore, anche se non ci sei, / egualmente proteggi/ e assisti me e i miei”, con la sua amabilità ironica. Ora se ne sarebbe andato in un vuoto Paradiso (“Me ne vado dove, / da tempo, già se ne è andato Dio”) dove s’udivano “fucilate d’amore /nel brivido del fogliame/ mosso dal soffio delle ore…”.
“Il bisogno di Dio – dirà – non è mio, è dell’umanità, è soprattutto il bisogno di un poco di giustizia, di un poco di luce, di un poco di anima in tanta massa condizionata dai potenti mezzi di diffusione (e di educazione alla rovescia) oggi esistenti, dove le parole sono “stracci” o “frecce di sole”, dove per risolvere la questione della vita basta “il sesso e la partita./ Resta (miseria d’una sorte) /da risolver la morte”.
“All’origine dei miei versi c’è la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o continuo avvertimento della presenza, in tutto, della morte… La mia poesia è un’allegoria della vita con tutto quanto ha di sgomentante la vita stessa, la guerra ingiusta, la guerra fascista, che ha gravato su tutta la giovinezza, fino alla maturità, della mia generazione e credo che questa continua condanna della guerra si senta nella mia poesia, che è così poco autobiografica, come invece alcuni lettori frettolosi, incapaci di leggere a fondo, l’hanno qualificata”.
In realtà, Caproni è disperato per la iniqua inutilità della storia (“fa freddo nella storia”), è disperato per il sentimento dell’assenza di Dio, un Dio esiliato, che significa esilio dell’uomo da Dio, cioè da ogni cosa e da ogni luogo. Ma le sue parole, benché siano terribilmente disperate, non possono mai essere vuote, anzi, ci insegnano a vedere – come disse Bo – per trasparenza il fondo buio della nostra anima”. La sua è una lotta senza quartiere, un corpo a corpo con Dio . Egli vuole capire, afferrare, intendere Dio, con tutte le forze protese della sua pura mente geometrica, di colui che ha abitato profondamente il regno del Vuoto, che ha una lunga abitudine al buio, alla desolazione, alla terra bruciata, alla guerra, al massacro, alla morte. (Ha combattuto sul fronte delle Alpi Marittime e poi in Veneto, è stato partigiano nella Val di Trebbia ). E’ un uomo da luoghi di frontiera, da terra di nessuno, da osterie solitarie, da cacciatori sconosciuti, dove tutto è solitudine, addio, viaggio, fuga. Esilio.
Rividi Giorgio Caproni un anno dopo l’incontro, da lontano, (da ombra a ombra) in via Vitellia, a Roma: - “Non è vero che io non ami Roma. Questa città ha tante cose stupende, anche se mi sa un poco di Medio Oriente, forse per il clima, forse perché è la città santa, che induce ad aspettarsi, in certi tramonti al Granicolo, a due passi da casa mia, di veder apparire fra le palme i cammelli. Ma in nessuna altra città del mondo, credo che si possa godere la libertà che si gode a Roma” - sugli schermi della Tv, credo che il programma fosse “Domenica in”, e conduceva Mino Damato, il celebre giornalista assetato di scoop, che aveva fatto la “prova del fuoco”, nel senso che aveva camminato a piedi nudi sui carboni ardenti, come fanno i fachiri e i saltimbanchi.
“La mia sfiducia – aveva detto Caproni – non è sfiducia assoluta nell’uomo, ma nella società così com’è andata conformandosi. La religione e le ideologie scricchiolano e si conservano in piedi o con la forza o per ipocrisia. Davvero un uomo d’oggi, soltanto perché viaggia tanto più comodamente e rapidamente, perché conosce gli antibiotici e il computer, perché ha una macchina, perché viaggia nello spazio, perché ha l’acqua corrente in abbondanza in casa, l’aria condizionata, ecc.,ecc., è più civile , è più felice d’un greco antico, d’un pigmeo ecc., e magari addirittura d’uno schiavo romano ben trattato dal padrone perché costoso?”
Uomo schivo, estremamente ritroso, Caproni fu convinto ad accettare l’invito dagli amici intellettuali, Falqui, Luzi, Spaziani, Bertolucci, e si lasciò trasportare da Damato che lo presentò, ovviamente, come uno scoop: Ecco a voi, siori e siori, il più grande dei poeti viventi, Giorgio Caproni, in predicato, quest’anno, di vincere il Nobel per la letteratura. Lui se ne stava seduto, sempre magrissimo, sempre smarrito, sempre in esilio, accartocciato su se stesso, con una camicia bianca troppo grande, i capelli grigi troppo corti, da militare o carcerato, il viso troppo scavato, simile ad un cranio nudo, sofferente, timido, impacciato, fuori posto, fuori luogo. Sembrava un povero vecchio proletario amante disperato della libertà, imprigionato in uno studio televisivo. Sembrava capitato lì per caso e probabilmente gli stessi inservienti l’avrebbero cacciato, se non fosse intervenuto il grande Mino Damato, che intuì rapidamente che forse non era uno scoop averlo chiamato (i poeti non fanno audience) e così lo tenne a bagnomaria per un paio d’ore, prima di intervistarlo. Dopo balletti, trine e odori di lillà, canzonette e schetches vari finalmente toccò al grande maestro della poesia, che era diventato una imbarazzante pratica da evadere. Un paio di domande, le più viete possibili ( Che significa poesia, che significa essere poeti, poeti si diventa o si nasce.?) e via a casa, grazie maestro. Ad majora.
Le risposte di Caproni furono il massimo della concisione. (Poesia significa in primo luogo libertà; il poeta è un minatore, o un subacqueo che va giù nelle viscere dell’io e, miracolosamente, torna alla superficie col “tu” e col “noi”; essere poeti non è un mestiere, io non mi sono mai definito tale, è una qualità quasi fisiologica). Era stufo, stanco di essere torturato in quello studio pieno di luci, di voci, di odori strani (Portatemi via, per favore, portatemi a casa mia, alla scrivania. “Mia mano, fatti piuma:/ fatti vela; e leggera/ muovendoti sulla tastiera / sii cauta…// sii arguta e attenta: pia / Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita”). Non aveva voluto soggiungere che “Poesia significa libertà, ma anche disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona; di fronte a ogni forma di irregimentazione o, peggio, di massificazione. Che la poesia è un traffico con l’inconscio e non è lucidità raziocinante, esposizione. E che le sensazioni oscure sono per il poeta le più interessanti, a condizione che le renda chiare: “se percorre la notte – diceva Proust – lo faccia come l’Angelo delle tenebre, portandovi luce”. Ma la luce a Caproni – scrive Beccaria – viene anzitutto dalla linea esistenziale della sua lirica, che partecipa direttamente l’esperienza del suo vivere, comunica la parola fraterna, non ingolfata nei labirinti del manierismo, nell’esasperazione della tecnica, nel feticismo del significante”. La sua poesia è estrema. Vive in una misteriosa armonia tra scheggia e poema, tra l’apocalisse e il nulla. “Poesia che è musica e che si è fatta – scrive Raboni - via via più difficile, irta, amara, dissonante, di una gestualità spoglia, malinconica, slogata, rastremata, nell’essenziale, per l’atroce violenza metafisica della morte di Dio (“Sta forse nel suo non essere/ l’immensità di Dio? Non ha saputo resistere/ al suo non esistere?”), dell’esilio dell’uomo dal luogo di tutti i luoghi, della sua cacciata irrimediabile da ogni possibile paradiso. (“Dio esiste soltanto nell’atto di chi lo prega: un atto, in fondo, di disperazione e negazione”).
“Di questa cacciata la poesia di Caproni si è fatta in modo via via più limpido, esclusivo e potente, cronaca e commemorazione. Da un certo punto in poi Caproni non ha fatto altro che congedarsi dalla terra e dalla speranza, come se davvero fosse venuto per lui, poeta-viaggiatore, utente effimero e appassionato della vita, il momento di chiedere l’alt. Ma in realtà quel congedo ha avuto inizio con l’inizio stesso della sua poesia e non avrà mai fine”.
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Rev. 06-02-13 AdB

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