02 marzo 2007

Anton Cechov

ANTON CECHOV:
IN SCENA LA VITA

DI TUTTI I GIORNI
di Augusto da San Buono

Ripensavo, tempo fa, a quel monologo dello Zio Vania, quello di Sonia, con la sua malinconia così profonda, così amara, così dolorosa, così totale, da sfociare in tristezza, ma non in disperazione … in quella malinconia, infatti, c’è una fede, in fondo: “Servirà a qualcuno il nostro lavorare, -dice Sonia, - Noi siamo infelici, ma altri dopo di noi saranno felici, forse…”
E poi quel monologo recitato, per il film della Tatò, da un Mastroianni-Astrov, ormai malato di cancro, ormai all’ultimo stadio, ormai morente… ”Certo, bisogna essere dei barbari insensati per bruciare tanta bellezza, distruggere ciò che noi non siamo capaci di creare”. Si riferiva agli alberi, alle foreste della Russia, alle foreste del mondo, che l’uomo continua a distruggere con assoluta crudele avida stupidità …

Certo, mi dicevo, Cechov è uno dei più grandi autori teatrali di tutti i tempi, uno che ha spazzato via tutto il bagaglio altisonante del teatro ottocentesco, le sue convenzioni, i suoi miti, i suoi trucchi e lo ha fatto senza proclami, né colpi di grancassa; ha dato un colpo di spugna al vecchio teatro, con un gesto autenticamente rivoluzionario, portando la vita, la vita di tutti i giorni, direttamente sul palcoscenico. E lo ha fatto con un linguaggio semplice, essenziale, banale, un po’ come aveva fatto anche nei suoi racconti, in cui descrive gli “uomini superflui” del suo tempo, una sorta di minuzioso catalogo psicologico, morale e intellettuale della Russia e di un’epoca storica di trapasso, geniale cronaca della vita, impietosa nella sua verità, e insieme pervasa di pietà e dolore. Il teatro di Anton Cechov, “un allegro malinconico”, morto di tubercolosi, a soli 44 anni, una sera d’estate del 1904, a Badenweiler, Germania, dove s’era recato, con la moglie, l’attrice Olga Knipper, per tentare nuove cure, è la continuazione della sua narrativa ed è qui la sua forza innovativa che fa del Cechov drammaturgo uno dei pilastri del novecento, insieme a Pirandello, Ibsen e Shaw. C’è un episodio grottesco, subito dopo la sua morte, che sembrerebbe scritto da lui stesso. La sua salma proveniente dalla Germania su un vagone frigorifero, giunta alla stazione di Mosca, viene scambiata per quella di un Generale russo che era stato ucciso in Manciuria. Così, con grande sorpresa dei pochi amici che erano accorsi per renderle l’estremo saluto, alla salma di Cechov vengono resi i solenni onori militari dalle principali autorità cittadine, con tanto di trombe, fanfara e presenta-t-arm. Sembra proprio uno dei suoi primi raccontini che gli avevano fatto guadagnare i primi soldi e aiutare una famiglia troppo numerosa e di scarse risorse, quando aveva appena diciannove anni. Ma è anche – se vogliamo – l’esatto contrario di tutto ciò che era stato lo scrittore nella sua vita, spirito vivace e allegro, dotato di straordinario senso dell’humor, è vero, ma uomo riservato, schivo, modesto, alieno da ogni forma di ostentazione e di vanità, anzi addirittura a disagio per la sua fama di scrittore, in crisi spirituale e incapace di comunicare, come tutti i suoi personaggi. Il vero dramma dell’umanità – nelle opere dello scrittore russo - è quello dell’incomunicabilità, dell’isolamento senza speranza, dell’eterna mancanza di sintonia fra due esseri che si parlano. Il loro parlarsi non è che un monologo, quasi sempre inarticolato e rarefatto. (“Quando manca una vera vita si vive di miraggi”, dice lo zio Vania). E Cechov-Trigorin del “Gabbiano” vive di ideali mancati, che si allontanano sempre più nel momento in cui sembra che li raggiungi, miraggi, appunto. Cechov è uno scrittore che non si fa illusioni e gli stessi studi di medicina (fece il medico per brevissimo tempo, fino a quando si rese conto che con tutta la sua scienza non era riuscito a salvare una bellissima fanciulla di cui si era innamorato), lo avevano portato a considerare gli uomini come tanti ammalati verso i quali ogni giudizio andava sospeso perché prima di esprimere un giudizio bisognerebbe essere in grado di indicare loro una via di guarigione certa, infallibile. Cechov non aveva messaggi da comunicare agli uomini, egli sapeva fare solo una cosa: descrivere il lento monotono fluire della vita, senza preoccuparsi di trovarvi un senso qualsiasi. Ma quale senso poi? La vita, - dice Anton Cechov, - è quello che è e basta, ”feroce, rozza e implacabile nel suo conservatorismo”. Tutto quello che possiamo fare è ascoltarla dentro di noi, negli altri, nelle cose. Si esigono eroi, eroismo, ed eroismo che produca effetti scenici. Pure nella vita non ci si spara, non ci si impicca, non si dichiara il proprio amore e non si enunciano pensieri profondi tutti i giorni e a getto continuo. No, quasi sempre nella vita si mangia, si beve, si fa l’amore, si dicono delle sciocchezze. E tutto questo che si deve vedere sul palcoscenico… Bisogna lasciare la vita qual è, gli uomini quali sono, veri e non gonfi di retorica.
In realtà il teatro di Cechov è un teatro di atmosfere, essenzialmente lirico. La trama delle commedie è infatti ridotta quasi a nulla. Gli avvenimenti più spettacolari della vita dei personaggi accadono fuori della scena. All’azione vera e propria Cechov sostituisce la rappresentazione sommessa di una serie di stati d’animo, vuole rappresentare la vita nel suo lento fluire, non proclamare messaggi, dare soluzioni. Quello che gli interessa è la “struttura d’anima” dei suoi personaggi, il cui moto segreto, contrapposto all’apparente staticità, è fatto di un gioco tenue di intonazioni, ritmi, pause. Una battuta banale cela e rivela insieme lo strazio di un’esistenza naufragata e l’orrore si un universo svuotato, il tutto in un complesso gioco di tonalità di volta in volta liriche, ironiche, drammatiche, satiriche, prorompenti o soffocate.
Da “Il Gabbiano” (1896), la commedia più scopertamente autobiografica, in cui l’autore si rappresenta sia in Trigorin, il romanziere arrivato, che in Treplev, il drammaturgo rivoluzionario, in cui i temi sono l’arte e l’amore, ma anche l’impotenza spirituale e il dramma dell’adolescenza, la giovinezza disperata di Nina, appaiono inconciliabili coordinate dei protagonisti colti nelle minime vibrazioni dei loro animi; allo “Zio Vania” (1897), in cui è rappresentato mirabilmente il tema tipicamente cechoviano della vita che assiste indifferente a consumarsi della tragedia degli uomini, il dramma della vanità delle cose, della vanità delle passioni umani, dell’impossibilità dei personaggi a uscire dalla prigione del proprio destino. Per giungere alle “Tre sorelle”(1901), che vivono un’esistenza insensata, immerse nel tedio di una piccola città di provincia, con la rete dei loro ricordi fittizi e l’aspirazione illusoria ad una nuova vita, a cui fa seguito il disinganno e l’evento casuale drammatico. Infine il “Giardino dei ciliegi” (1903), un po’ la summa dell’arte drammatica di Cechov, in cui si narra la vicenda di una famiglia aristocratica che è costretta dai debiti a vendere il meraviglioso giardino che è il suo orgoglio. Invano i protagonisti della commedia cercano di impedire che la catastrofe si compia. Alla fine rinunciano a lottare e si allontanano, inseguiti dai rombi cupi dei colpi di scure che si abbattono sul giardino dei ciliegi, simbolo di irreparaibile decadenza, di un mondo aristocratico ed esangue che sta per scomparire e che verrà sostituito da una borghesia arrembante, rozza e vitale (Il giardino viene acquistato dall’ex servo Lopachin). Ma nell'opera non è difficile avvertire l'eco della pena di Checov, minato dalla tubercolosi, e prossimo alla morte.
L'opera si può fare in diversi modi , chiave verista, simbolista,metafisica, e c’è stato addirittura chi ha visto nel “giardino” dio stesso , uno e trino, ma forse la pièce – come scrisse Mejerchol allo stesso Cechov, è “astratta come una sinfonia di Ciajkowskij, e il regista deve afferrarla prima di tutto con l’udito, e ciò vale un po’ per tutto il suo teatro. E Cechov stesso, nella sua avversione al naturalismo e nella sua aspirazione all’essenzialità diceva: “La scena è arte, la scena riflette in sé la quintessenza della vita, sulla scena non bisogna portare nulla di superfluo”.
-----------------------
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti sono moderati e controllati quotidianamente.
Tutte le opinioni sono benvenute. E' gradita la pacatezza.

I GIORNI DI PASQUA NEI BENI DEL FAI IN LOMBARDIA Picnic, giochi all'aria aperta e visite speciali per tutta la famiglia domenica 31 marzo e lunedì 1aprile 2024

                                                       I GIORNI DI PASQUA NEI BENI DEL FAI IN LOMBARDIA Picnic, giochi all'aria aperta e...