04 novembre 2006

Natalia Ginzburg, l'antipatica

di Augusto da San Buono

1. Che noia, la Ginzburg!

La prima opera della Ginzburg in cui m'imbattei fu "Ti ho sposato per Allegria", una commedia, che io vidi nella versione cinematografica con Albertazzi e la Vitti. Erano i primi anni sessanta, se non ricordo male. Bene, è stato uno dei pochi, rari film, che non sono riuscito a vedere fino in fondo. Uscimmo, la mia fidanzata ed io, alla fine del primo tempo. Una noia mortale, da sbadigliare come orsi alla fine del letargo. Mi ritrovai poi, nei primi anni 70', ad acquistare - non so come nè perchè, forse qualcuno me ne aveva parlato in termini esaltanti - "Caro Michele", in edizione economica, Oscar Mondadori. Tutto quel che ricordo è che era un libro scritto in forma diaristica, in prima persona e, soprattutto, che era di una noia semimortale. Non ricordo bene, ma dubito assai che lo lessi fino in fondo. Tuttavia ritengo che in entrambi i casi ci fossero esigenze diverse da parte mia e soprattutto delle carenze, un difetto di preparazione, diciamo che ero troppo giovane e quindi non in grado di apprezzare una scrittrice severa algida inquieta e inquietante come la Ginzburg che - con una prosa tutta personale e volutamente dimessa, minimalista e quasi cronachistica - monotizzava la sua indagine attorno ai temi dell'angoscia e del dolore, pessimisticamente osservati e senza alcuna indicazione che appaghi, al di fuori della rassegnazione tragica e fallimentare... Non potevo capire allora che quel linguaggio, quella prosa della memoria, quel suo retroterra culturale post-gobettiano, quell'esigenza di affrancare la memoria dal suo ruolo, riconducendola al suo luogo originario (l'infanzia circondata dai sogni), quell' impossibilità di tornare, quel suo ribellarsi e non amare il suo ambiente borghese, nè l'essere ebrea, quel suo realismo grigio cechoviano, quell'intensa tristezza, quella narrazione spoglia e di tono corale, quel voler essere quadro, fotografia di una generazione, quella memoria tesa a ricostruire per via sentimentale il ritratto di tutta una generazione seguendo il cammino a ritroso, dall'io interiore alle cose, che in tal modo vengono moralizzate e in ogni loro movimento analizzate a un livello di intimità famigliare, ecc. ecc.

Fattostà che ad ogni incontro con i suoi libri, anche fugace, e le sue commedie (oh, casualmente, s’intende) mi sono sempre terribilmente annoiato. Che noia, la Ginzburg! …. Poi ho letto “La Famiglia Manzoni”, da cui ho preso a pieni mani per farne un recital, all’inizio degli anni ’90 e allora ho cominciato ad apprezzare la Ginzburg per il suo modo severo, attento, rigoroso, senza un minimo di enfasi, un'analisi quasi scientifica della famiglia di “don Lisander", dalla Giulia con i capelli rossi e gli occhi verdi alla tenera Matilde, ultima figlia di Manzoni morta in giovane età. Gran bel libro “La famiglia Manzoni”, ma è una biografia. O possiamo considerarlo romanzo?, o dovrò per forza leggere “Lessico famigliare”, questo suo romanzo-verità, forse il più compiuto dei suoi, certamente il più famoso e premiato, quello che - secondo il tarantino Spagnoletti - è "il controcanto di un'epoca quieta e disperata "?

2. La veletta di Natalia.
Anche Rocco Scotellaro, il poeta di Tricarico, provò una forte antipatia per Natalia, almeno all’inizio.
"Avevi, Natalia, nome gonfio/ una veletta triste sul tuo viso/. Eri un mondo diverso, già cresciuto". Così scrive Rocco Scotellaro, che fece da guida alla Ginzburg per i "Sassi" di Matera e poi l'ebbe ospite a Tricarico, il paesino di cui era Sindaco. Il tono è quello di una triste e dolce elegia, dove però rifluiscono nodi storici antichi e nuovi, difficoltà di comprensione, di conflittualità tra nord e sud, derivate proprio dalla diversità dell'universo di origine (per quanto entrambi comunisti, l'ex signorina Levi, ex vedova Ginzburg era figlia di un professore universitario ebreo, mentre Scotellaro era figlio di un calzolaio analfabeta).
"Mi ero ribellato al suo sguardo che mi collocava tra i poveri del mezzogiorno da redimere ... La mia certezza fu che lei non era in grado di capirmi. E ciò dipendeva dal fatto che Natalia era la prima donna moderna che avevo conosciuto, umana, spregiudicata e sensibilissima, ma anche dura, animalesca e provocante ".

“Che quelli del sud s'impicchino!”.
Natalia aveva visitato Matera (incuriosita dal "Cristo” di Levi) nel dicembre 1947, subito dopo aver vinto un premio letterario per il suo romanzo. "E' stato così". Ma dopo esserne stata accolta con grande entusiasmo e calore, aveva scritto -due mesi dopo - un articolo di peste ("I corvi volano su Matera") che aveva provocato risentite risposte da parte dell' intellighenzia locale per la parzialità dell'osservazione, che coglieva solo gli aspetti negativi e taceva del nuovo che si stava muovendo. Come tutta risposta Natalia disse:"Quelli del sud letterario si sono terribilmente arrabbiati con me; che s'impicchino!".
Roma è la capitale di nulla

Ai primi del '48 Natalia scrisse a Scotellaro:"Ho raccontato ai miei amici le cose che ho visto a Tricarico e a Matera... mi sono trovata benissimo con voi e assolutamente a mio agio, avevo l'impressione che foste delle persone che conoscevo da tanto tempo... Del resto non ne dubitavo, dopo aver letto il prodigioso Cristo di Carlo Levi... Per me l'Italia del Nord e del Sud sono uniti in una visione armoniosa, dove appare remota ogni superiorità o alterigia di cultura.

Allora, Rocco Scotellaro che un po' ce l'aveva con Natalia, ma non per l'articolo apparso su "Omnibus", bensì per il fatto che lavorando da Einaudi l'avesse bocciato come scrittore nonostante la raccomandazione di Carlo Levi (" Dovevi raccomandarti a Sereni e non a Carlo, gli dirà Natalia), ritrattò il suo giudizio e disse: io mi illudevo di capire lei, invece devo riconoscere che non ero in grado di giudicarla e che erravo profondamente, per mia ignoranza e per il desiderio di impormi a lei, che era una donna, e di guastarle tutte le sue caratteristiche. E' una scrittrice che merita di essere studiata, leggerò attentamente il suo libro... "Ma anche Natalia fu sempre coerente con se' stessa, fino in fondo, e non esitò a polemizzare con alcuni giornalisti romani che stigmatizzarono il trasferimento dei quadri di Carlo Levi al museo di Matera:"E' come se andasse al confino per sempre". Io non accetto neanche lontamente l'idea che Matera e la Lucania e in genere l'Italia Meridionale siano da considerarsi per sempre luogo di confino, di emarginazione, di esilio, quando ROMA oggi non è più la capitale di NULLA.

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