04 luglio 2006

Pico della Mirandola

L’anno 6 di Pico della Mirandola di Eros Barone (tratto da La Prealpina del 06-12-2005)

Il 1486 è per il giovane Pico della Mirandola un anno straordinario. Nel marzo, a ventitré anni, torna da Parigi a Firenze, tra i suoi amici Lorenzo dei Medici, Poliziano e Marsilio Ficino.
L'otto maggio parte per Roma: Pico sta preparando una dìsputa da tenersi con dotti di ogni parte del mondo, invitati a sue spese per discutere le sue tesi filosofiche. Due giorni dopo ad Arezzo tenta senza successo di rapire Margherita, moglie di Giuliano dei Medici, causando molto scandalo. Il successivo periodo di isolamento trascorso prevalentemente a Fratta, tra Perugia e Todi, è per Pico eccezionalmente fecondo. Scrive il "Commento sopra una canzona de Amore" dell'amico Girolamo Benivieni; raccoglie le sue tesi, o "Conclusiones", sino al numero di 900, in vista della dìsputa da tenersi all'inizio dell'anno successivo; compone un elegante "Discorso", chiamato poi "De hominis dignitate" (ossia "Sulla dignità dell'uomo"), destinato a introdurre e spiegare le "Conclusiones".
I due centri di gravitazione del "Discorso" di Pico della Mirandola, il tema della "dignità dell'uomo" in quanto creatura camaleòntica e proteiforme, e il tema della pluralità dei percorsi mediante cui si giunge a Dio, sono speculari e si richiamano a vicenda, culminando in un'idea di libertà che identifica essenzialmente il nerbo della tradizione culturale dell'Europa con la capacità di riconoscere e comprendere le differenze.
Insegnamento, questo, tanto più prezioso in un'epoca che vede risorgere molteplici fondamentalismi (religiosi, economici, etnocentrici), che bàsano la loro pretesa al monopolio della verità sulla negazione delle differenze e su uno sforzo aggressivo per cancellarle.
Non a caso Pico dà inizio al "Discorso", motivando la dignità dell'uomo alla luce non solo delle fonti ermetiche (Asclepio dice che che "l'uomo è un grande miracolo"), ma anche delle fonti arabe ("Abdallah profeta saraceno, interrogato dai suoi discepoli su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, scorgesse di sommamente mirabile, rispose: 'l'uomo'"). La dignità umana non si fonda pertanto su antichi luoghi comuni di origine bìblica (quali l'uomo-microcosmo e la sua centralità nell'universo) - giacché in tal caso dovremmo forse preferire gli angeli agli uomini -, ma sul fatto che l'essere umano, essendo connotato da un alto grado di plasticità e potendo assimilarsi alle diverse creature (visione pichiana, questa, di eccezionale modernità, anche in senso scientifico), potrà alla fine attingere l'identità con Dio.
La dignità umana, così come è concepita da Pico, non consiste essenzialmente né nel dominio sul macrocosmo da parte dell'uomo in quanto microcosmo (anche se questa idea è ben presente nello stesso "Discorso"), poiché questo è semmai un tema centrale per Ficino che nella sua "Theologia platonica" declina la dignità umana in termini di immortalità dell'anima, né nella centralità umana né nel dominio della creazione né nella libertà come tale: il "Discorso" di Pico sulla dignità umana assume in realtà il suo carattere peculiare in relazione ad una fonte platonica, cioè al mito di Eros nel "Simposio". Secondo tale mito, Eros è stato concepito da 'Poros' (ricchezza) e 'Penía' (indigenza) il giorno della nascita di Afrodite, nel giardino di Zeus, e possiede, a causa di tale origine, una natura carente, intermedia tra l'ignoranza e la sapienza. Così Pico si mantiene fedele allo spirito originario del testo platonico: la dignità dell'uomo non è un possesso innato (come si suole ritenere in base agli stereòtipi religiosi correnti), ma è da ricercare nella capacità di attingere le mete più alte da parte di un essere che occupa una posizione intermedia, "né mortale né immortale, né terrena né celeste".
L'altra idea, che è sottesa al tema della pluralità delle vie e che conferisce al "Discorso" una pregnante attualità sia nel dibattito filosofico e religioso sia nel dibattito politico e culturale, è l'idea di tolleranza, declinata da Pico nei termini di una "unità" che non implica tanto il convergere sui contenuti quanto il procedere di pari passo, nonostante la diversità dei nomi, verso la stessa mèta. In sostanza, il tema centrale del "Discorso" è l'idea secondo cui esiste una pluralità di percorsi, che comprendono il cristianesimo, l'ebraismo, l'islàm, la tradizione greca e infine quella zoroastriana, percorsi che sono isomorfi nella struttura e idèntici nel fine.
L'insegnamento che si ricava dal "Discorso" incide perciò sulla cruciale questione dell'universalismo e aiuta a distinguere, in una fase duramente segnata dallo "scontro di civiltà" fra i contrapposti fondamentalismi e dal crescente divario fra diritti proclamati e diritti effettivi, un universalismo 'sintagmatico' che, come quello che caratterizza l'umanesimo di ispirazione platonica, raccoglie i frammenti di verità sparsi in ogni cultura da un universalismo 'paradigmatico', in cui si esprime l'òttica di coloro che pensano che la propria verità includa ogni altra verità, escludendo la possibilità di verità indipendenti.
La domanda che il "Discorso" di Pico ci pone ha allora un'immensa importanza, poiché mette in gioco, a partire dal presente, il passato e il futuro della nostra stessa civiltà: è possibile delineare un atteggiamento universalistico che nasca dalla pratica, nello stesso soggetto, dei due linguaggi dell'estensione e dell'inclusione? In altri termini, è possibile un universalismo non monistico e non sincretistico che accosti, nella stessa persona, l'adesione alla propria verità e il riconoscimento della pluralità delle verità?

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