04 luglio 2006

Simone Weil, l'indomabile

di Augusto da San Buono

Simone Weil, donna d’azione e di pensiero, mistica e rivoluzionaria, donna indomabile che per tutta la vita cercò la verità con ansia irresoluta, muore la sera del 24 agosto 1943 nel sanatorio di Ashford, nel Kent, dopo aver lottato fino all’ultimo nella redazione londinese “Francia Libera” contro la guerra ( vds. gli scritti “Sulla guerra -1933-1943”, editi da Pratiche Editrice). Da New York, dove si era rifugiata ed era stata al fianco degli “ultimi”, i poveri di Harlem, Simone l’indomabile si era portata a Londra, unendosi alla resistenza gollista ed era in attesa di essere inviata in missione clandestina nella Francia occupata dai nazisti, ma, ormai sfinita dagli stenti, pallida, magrissima, anoressica, ridotta ad un’ostia consacrata, costretta ad interrompere la sua azione inesausta, viene ricoverata nel tubercolosario di Ashford dove morirà pochi giorni dopo, in solitudine, con una croce sul petto. Della sua morte dà l’annuncio, qualche giorno dopo, il “Tuesday Express” di Ashford. “French Professor Starves Herself to Death”. Aveva solo trentaquattro anni (era nata a Parigi il 3 febbraio 1909 da una famiglia borghese di origine ebraica), ma aveva vissuto almeno tre vite piene, in cui non c’era mai stato posto per il sonno, né per riempirsi la pancia. Aveva costantemente fame e sete “d’altro”. Al centro del cuore dell’uomo esiste, -dice, - un desiderio mai soddisfatto, una fame di un bene assoluto e l’obbligo di procurarselo. Questo mondo è inabitabile, ecco bisogna fuggire nell’altro. Ma la porta è chiusa. Quanto bisogna bussare prima che si apra? Per entrare davvero, per non restare sulla soglia, bisogna cessare di essere un animale sociale.
Questa passione per la verità, della sua verità, la conduce in una ricerca senza fine ai limiti della morte. Infatti, dopo aver vissuto una vita così piena, così intensa, così densa, così occupata dall’agire e dal fare per gli altri, senza mai aver tempo per sé stessa, dedica tutta l’ultima parte della sua breve esistenza (dal 1937 in poi, dopo le durissime esperienze nella fabbrica della Renault come operaia semplice, la guerra civile spagnola, arruolata nelle file anarchiche della famosa Colonna Durruti, la prigione e i numerosi guai fisici) all’ ”Attesa di Dio”. Ricorda un po’ “Aspettando Godot”, dove i personaggi “non hanno niente da fare”, sono sventurati, pieni di acciacchi e di dolori fisici, e, caduti a terra, non possono più rialzarsi e strisciano come vermi. Anche per Simone “coloro che hanno ricevuto uno di quei colpi per cui si dibatte sul terreno come un verme semispiaccicato non hanno parole per scrivere ciò che accade loro.” Ci sono analogie tra i “Quaderni” della Weil e la disperazione di Bekett. Godot, per alcuni è simbolo di Dio, del cristianesimo, della redenzione, ma per altri è un’allegoria della resistenza dei francesi ai tedeschi, alla quale Beckett prese attivamente parte. I personaggi di Godot, Estragone e Vladimiro, compiono entrambi il percorso descritto da Simone Weil nell’ ”Attesa di Dio”: anche se camminassimo per anni, non faremmo che descrivere cerchi intorno al mondo. Loro aspettano Godot e nella sventura sono incapaci di migliorare la loro situazione o cercare una risposta ai loro problemi. Godot deve arrivare e piantare in loro il seme della salvezza che diverrà il loro albero della vita, il più bello degli alberi. L’uomo non deve fare nulla per essere salvato, deve restare nell’inattività, limitarsi ad obbedire, abbandonare i propri interessi personali, la propria identità, il proprio diritto a sapere e interrogare. Nella miseria dell’uomo moderno, Beckett ha visto la sua più alta dignità.
Tutta la vita di Simone Weil fu dominata dal pensiero del raggiungimento della “meta finale” : l’assoluto, la verità, che trovò forse ad Assisi, sulla tomba di San Francesco, o nel monastero delle Clarisse, o nei canti gregoriani nel monastero di Solesmes, in Portogallo, trovò nella Passione del Cristo, nella croce, patria dell’anima, e con la morte, “l’istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo, entra nell’anima la verità pura, nuda, certa, eterna. Non c’è amore della verità senza un assenso totale e senza riserve alla morte. Posso dire di non aver mai desiderato per me altro bene”. Ma prima di arrivare, ed abbracciare questa sua concezione di un cristianesimo nutrito della tradizione orientale e greca, questo voler far diventare cristiano anche Platone e l’Iliade (“Ciò che unisce Omero agli Evangelisti è il senso del valore della miseria umana, una miseria vissuta dallo stesso Cristo sulla croce”), questo cristianesimo discusso, senza Chiesa, minacciato da un angoscioso agnosticismo, Simone Weil fa molte altre cose. Visse, come ho detto, almeno altre due vite. E si schierò sempre dalla parte del debole, sempre nel versante di coloro che volevano la pace, la pace a tutti i costi, perché – diceva - anche se ci illudiamo di maneggiarla, la forza si può soltanto subire. Il destino di chi uccide è di essere ucciso a sua volta.
E’ l’epoca in cui Jean-Paul Sartre pubblica “ L'essere e il nulla”, e continua lo scandalo del romanzo di Camus, “Lo straniero”, due espressioni dello smarrimento e della caduta delle certezze che ponevano interrogativi esistenziali. E Simone aveva già scritto la risposta con quella sua stessa vita che si era appena spenta. La risposta era nei suoi scritti, talora profetici, che non cessano anche oggi di interrogarci, opere e frammenti dai quali si esce profondamente cambiati.
Leggendo la sua vita, sembra che Simone conoscesse il suo destino, la brevità del suo passaggio terreno. Infatti non perse mai tempo e puntò tutte le sue fiches nel Quotidiano, ovvero nello spazio della storia che consente di comprendere le domande esistenziali dell'uomo. Tutto per lei acquistava importanza perché ogni cosa era essenziale e rivelatrice. La tensione personale rende tutta l'opera della Weil affascinante e di una ricchezza straordinaria. ”A soli 14 anni ... dopo mesi di tenebre interiori, ebbi d'improvviso e per sempre la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle, penetra nel regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità e faccia un continuo sforzo d'attenzione per raggiungerla: in questo mondo diventa egli pure un genio”.
Questa determinazione la porterà a fissare i passaggi cruciali che ciascun individuo dovrà compiere per dare risposta alle domande che gli salgono dal cuore.
Come Rimbaud, - scrive Ferrarotti - la Weil era “un mistico allo stato selvaggio”, una migrante in terra straniera che non ha diritti né protezione, una portatrice sana di un pensiero itinerante che non potrà riposare all’ombra di alcuna ortodossia. Il suo destino era quello dell’Albatro di Baudelaire, “ridicolo e sublime come gli esuli”. La sua opera è talmente dispersa da scoraggiare qualunque tentativo di sintesi. Ma chi ascolta la sua parola e si sforza di decifrare la sua azione e il suo pensiero non può non nutrire una sconfinata ammirazione per questa avventura solitaria della “Pasionaria”, o “Vergine Rossa”, questa folle “Pellegrina dell’assoluto”, “Indomabile”, tutti epiteti che l’hanno accompagnata nel cammino delle sua vita e che rendono l’idea della sua stranezza e della sua purezza. Intrattabile, esigente, ostinata, intransigente, ossessiva, spesso è contro tutto e tutti e ammonisce: “Del mondo noi non possediamo niente – poiché il caso può toglierci tutto – all’infuori del potere di dire “io”. La sua è una voce che è incessantemente alla ricerca di un grado di perfezione da superare giorno dopo giorno e tutta la sua opera è compenetrata dall’eterna dualità ellenica del bene e del male, che rende immortale la purezza di Antigone, vittima di Creonte: “Ho sentito che la grande poesia greca sarebbe cento volte più vicina al popolo, (se potesse conoscerla) della letteratura francese classica e moderna… Le vecchie poesie che si scrivevano duemilacinquecento anni fa sono bellissime, sono così umane che restano ancora molto vicine a noi e possono interessare tutti. Soprattutto per gli uomini comuni, per chi sa cosa significa lottare e soffrire”.
A vederla dava l’idea di fragilità e di goffaggine, anche di bruttezza fisica, ma sempre intensa, affascinante, indomabile e folle come una donchisciotte in gonnella. Sembrava uno di quegli esseri strani non destinati ad una lunga vita : “Cosa volete, - dice Baldacci, un suo insegnante al Liceo, - è una piccola donna che non mangia e non dorme e se ne sta là così , con i suoi capelli che pendono e il suo mal di testa, a fumare ininterrottamente”. E un minatore di Le Puy:“Era troppo istruita e non mangiava. No, non poteva campare. ”E, infine, Georges Bataille, che scrive:“Pochissimi esseri umani mi hanno interessato altrettanto. Incontestabilmente, era di una bruttezza che faceva spavento, ma io credo che fosse anche dotata, in un certo senso, di una vera bellezza che è quella dell’intelligenza e del cuore… Era certamente un essere ammirevole, asessuato, con qualcosa di nefasto. Sempre nera, con abiti neri, i capelli corvini, la carnagione scura. Era un Don Chisciotte lucido, dal pessimismo ardito, coraggioso, attratto dall’impossibile…C’era in lei una meravigliosa volontà d’inanità.
E tuttavia “alla fragilità tocca spesso il compito di diventare forma ed espressione della verità” e la vita di Simone Weil lo conferma. Quest’esile creatura dall'esistenza intensa ma brevissima tiene testa a Trotzkij, si trasforma in pellegrina dell'assoluto che interpreta l'autentica e profonda inquietudine umana. In lei, vita e opera sono un'icona dell'esistere. Ogni sussulto d'esperienza, tensioni spirituali e icastiche intuizioni si alternano, fitti-fitti, nei quattro volumi dei “Quaderni”, che rappresentano il desiderio intellettuale di raggiungere territori ignoti e inesplorati dalla conoscenza.
Entrata giovanissima (a 22 anni è già titolare di cattedra di filosofia presso un liceo francese), nel campo dell’insegnamento, traccia subito il suo programma. Vuole fornire al popolo un accesso alla cultura, insegnargli a servirsi del linguaggio. Vuole comunicare ai proletari l’amore per la vera cultura, creare addirittura delle Università popolari. E a tal proposito costituisce il “ Gruppo di Educazione Sociale”, dopo che aveva costituito, in precedenza, il Gruppo “La volontà di Pace”. Ma questo non le basta. Il suo obiettivo è quello di partecipare attivamente al mondo operaio, allontanandosi il più spesso possibile dal mondo borghese e intellettuale. Desidera condividere la condizione dei poveri, degli oppressi, dei prigionieri, dei vinti, degli schiavi… Nell’estate del 1929 aveva lavorato per dieci ore al giorno con i contadini delle campagne francesi, china ad estirpare patate dal terreno, nonostante la sua inabilità e goffaggine nel lavoro manuale e la sua costante cattiva salute (soffre di terribili emicranie). Vuole ridurre il suo corpo ad un utensile, privarlo dei bisogni fondamentali, vuole ridurre le sue emozioni a segni. “Io sono perché penso, penso perché lo voglio, e il volere ha in sé la propria ragion d’essere”.
La trasferiscono a Le Puy, dove finalmente conosce la “Vergine rossa“, una statua di bronzo su una roccia. Compra una cartolina che la raffigura e la manda al professore che l’aveva battezzata in quel modo. Poi torna a glorificare l’operaio , che fonda la conoscenza sulla morale: “La geometria, come forse ogni pensiero, è figlia del coraggio operaio”. Del suo stipendio decide di tenere solo la metà, circa seicento franchi al mese, il resto lo distribuisce ai disoccupati e alla cassa di solidarietà per i minatori di Saint-Etienne. Non spende nulla per il cibo, i vestiti, il riscaldamento. Sua madre le spedisce pacchi di viveri e le infila qualche abito nell’armadio, ordina provviste di carbone, tutte cose di cui Simone si rifiuta di occuparsi.
Fa un sacco di cose. Insegna al liceo, organizza l’insegnamento per i minatori, fa attività sindacale, collabora con un giornale di Lione, scrive articoli ponderosi come “Riflessioni sulla crisi economica”, imponendosi sempre e comunque il massimo sforzo fisico e intellettuale. Vive ogni giorno come fosse l’ultimo…
Non c’è nessuno che non la conosca, con quell’abbigliamento inelegante e la sua proverbiale goffaggine, più unica che rara, le espressioni, lo sguardo penetrante e l’atteggiamento che dimostra l’intenzione di non farsi intimidire da nessuno, né dai benpensanti, né soprattutto dal preside della sua Scuola, che vorrebbe imporle un certo tipo di comportamento.
Ai minatori dice: “Vi dovete liberare dell’influenza degli intellettuali e dei preti. In tutte le epoche la facoltà di maneggiare le parole è parsa agli uomini qualcosa di miracoloso. In generale questi assemblatori di parole, preti o intellettuali che siano, sono sempre stati dalla parte della classe dominante, dalla parte degli sfruttatori contro i produttori”.
Cerca in tutti i modi di integrarsi nella classe operaia. Frequenta la loro compagnia, va a mangiare con loro o fare una partita a briscola all’osteria, li accompagna al cinema, alle feste popolari, chiede di essere portata nelle loro case, si sfinisce.
“Simone, la tua “trolla”, si sta ammazzando”, scrive la madre al fratello di Simone, Andrè, nel frattempo divenuto famoso matematico, che l’aveva battezzata fin da ragazzini col nome di un folletto dispettoso della mitologia scandinava, troll... “Questa ragazzina ha idee assurde, - continua Madame Weil - e tuttavia non si può negare che abbia un ascendente straordinario sugli operai, sui maestri, eccetera, e ispira loro una tale fiducia che è roba da non credere”.
Va al caffè con gli operai, stringe la mano ai disoccupati all’uscita del Liceo, fuma sigarette una dietro l’altra, sono tutte cose disdicevoli per una giovane professoressa di filosofia. Queste sue provocazioni dovevano finire per scandalizzare e far reagire i benpensanti e i conformisti della città, che la segnalano ai rappresentanti dell’ordine e all’autorità, che fanno di tutto per metterla a tacere, isolarla, escluderla. L’indignazione cresce e si parla di lei anche sui giornali locali:“A quanto pare l’Anticristo è a La Puy. E’ una donna che si veste da uomo. Qualcuno ci chiede perché Mademoiselle Weil, professoressa di filosofia al liceo femminile di Le Puy, si trovi alla testa della manifestazioni dei disoccupati di questa città. E’ molto semplice: la vergine rossa della tribù di Levi è una messaggera del vangelo bolscevico, che ha indottrinato e traviato quei malcapitati.
In realtà, Simone, è vero che aveva subito il fascino del marxismo, - di cui tuttavia rifiutava la configurazione teorica dello stato per il suo autoritarismo, ma ora si, via via che constata come loro siano inadeguati ad affrontare un periodo tanto critico, in particolare in Germania, si sente sempre meno comunista. D’altra parte pur occupandosi di politica fin dagli anni del liceo non si era mai iscritta ad alcun partito, e la sua stessa militanza sindacale e politica iniziale - più anarchica che marxista – trovava le sue ragioni in un’ispirazione etica che la guiderà sempre a mettersi dalla parte degli oppressi: "Occorre essere sempre disposti a cambiare di parte per seguire la giustizia, questa eterna fuggiasca dal campo dei vincitori".
Proprio di questo periodo, tra la fine degli anni 20 e inizio dei 30, appartengono due testi rimasti inediti e recentemente tradotti da Adelphi, “Lezioni di filosofia”, e “ Primi scritti filosofici”. Scorrendoli viene in mente la categoria estetico-teologica del "tutto nel frammento". I testi che verranno approfonditi ed enucleati fino alla morte qui compaiono tutti come orizzonte di ricerca.
In questo la Weil rivela una statura fuori dal comune senza maestri, che si misura con i classici e si confronta con la realtà così com'è. Da quest'ultimo rapporto, il più vero possibile, nasce l'originalità filosofica. La stessa decisione di lavorare in fabbrica come operaia semplice alla Renault, la più grande fabbrica automobilistica francese, dal 1934 al ’35, ossia nell'epoca del successo delle ricette tayloriste, con catene di montaggio (ricordare il film “Tempi moderni” di Charlot), matura per condividere meglio la condizione operaia, il ruolo del corpo nel pensiero, la scoperta dello spirito nelle implicazioni sociali e i fondamenti della morale. Anche se fisicamente ne rimarrà prostrata (si prenderà una grave forma di pleurite), gli anni del lavoro in fabbrica daranno l’avvio ad una profonda e sofferta riflessione sul senso della propria esistenza e una straordinaria testimonianza nel «Diario di fabbrica», acuta fenomenologia dall'interno della condizione operaia del '900, un pamphlet che ha ancora rilievo per quella attuale, pur con tutte le modifiche del caso.
"Lentamente nella sofferenza - scrive - ho riconquistato attraverso la schiavitù il senso della mia dignità di essere umano, un senso che questa volta non si basava su alcunchè di esteriore."
Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell'uomo, in una società che è stata trasformata in una macchina possente, nella quale l'individuo avverte di essere solo un ingranaggio e che arriva a comprimere il cuore e a fabbricare l'incoscienza. Complessità sociale, gerarchie sociali sempre più chiuse, macchine di potere sempre più sofisticate e oppressive: il crescente pessimismo delle Weil, da lei vissuto come una ferita sempre più dolorosa, non si tradurrà mai in senso di impotenza. Da un lato glielo impedisce la prospettiva religiosa, dall'altro, l'ansia e la febbre di agire a favore dei ceti subalterni la porteranno, fino all'ultimo, a impegnarsi e a lottare ovunque, con i repubblicani in Spagna o nei quartieri di Harlem a New York, o nella Londra bombardata della Seconda Guerra Mondiale. Ma Simone Weil è pessimista. Vede la società andare nella direzione in cui aumenta lo sfruttamento del lavoro operaio e gli individui vengono sradicati dal loro passato, gettati in una condizione di solitudine e di assenza di valori, mentre si rafforzano le gerarchie e i poteri burocratici, le strutture di comando e le pratiche violente e ci si avvia verso la guerra. Da questa profonda tensione interiore nasce la svolta della fede, che non è, in lei, mai rinuncia alle sue posizioni sociali, ma convinzione che di fronte alla miseria umana occorre intravedere anche una prospettiva ultraterrena di salvezza. La ricostruzione sociale e politica della società deve, quindi, poggiare su basi etico-religiose, su una rigenerazione spirituale di individui e collettività, in cui a una nuova democrazia si accompagni un nuovo radicamento nel proprio passato, nella tradizione, in una società giusta e rispettosa delle persone. Fede, tensione morale e impegno politico non l'abbandoneranno mai, fino alla morte. "La croce è la nostra patria", diceva più volte.
Anche la riflessione politica, le varie esperienze di militanza sindacale e politica e l'adesione a posizioni sindacaliste rivoluzionarie esprimono una fortissima tensione spirituale, uno slancio ed una ispirazione etico-religiosa, l'intenzione di una scelta esistenziale, quella di stare sempre dalla parte degli oppressi. E' proprio la centralità della scelta etica, nel determinare gli orientamenti dell'esistenza degli individui, la porta a rifiutare, del marxismo, il materialismo e il determinismo economicistico. Una caratteristica della sua esistenza fu quel particolarissimo contatto col "malheur", con la sofferenza come realtà universale nonchè l’accettazione di esserne posseduti senza che ciò porti ad alcuna rassegnazione: "Non si tratta di cercare un rimedio contro la sofferenza, ma di farne un uso soprannaturale". "Dio si è svuotato della sua divinità e ci ha riempito di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Questo atto è il fine dell’atto che ci ha creati. In questo stesso momento Dio con la sua volontà creatrice mi mantiene nell’esistenza perchè io vi rinunci. Dio attende con pazienza che io voglia infine acconsentire ad amarlo".
Decreazione, quindi, come atto di spoliazione totale, di morte di ciò che in noi dice "io", come unica via per portare a realtà quella scintilla divina che in noi si dà, l’increato appunto.
"La verità non si trova mediante prove, ma mediante esplorazione. Essa è sempre sperimentale".
La Weil, così, vede la storia umana come asservimento degli uomini.
"La società è diventata una macchina per comprimere il cuore" e per fabbricare l'incoscienza, la stupidità, la corruzione, la disonestà e soprattutto la vertigine del caos. Nella storia umana due sono state e sono le principali forme di oppressione: la schiavitù esercitata in nome della forza e l'asservimento in nome della ricchezza trasformata in capitale.
Nel saggio L'Iliade o il poema della forza (1939), Weil esalta il modo in cui l'uomo greco viveva la guerra e il suo terribile gioco accordando eguale rispetto al vinto e al vincitore, provando sgomento per la distruzione di una città. Quando gli uomini entravano nel gioco della guerra, diventavano pietre nelle mani degli dèi, ossia cose sotto il "giogo della Forza". Alla fine vince solo la Guerra.
La Guerra è una prova della miseria umana, dei limiti dell'essere umano, è l'emergere di una Forza che domina l'anima dell'uomo e la incatena al suo destino immodificabile. Achille che sgozza dodici adolescenti troiani sulla pira di Patroclo, tanto naturalmente come si recidono i fiori per una tomba, non sfuggirà al destino comune della morte, unica e inesorabile vincitrice.
La gioia nasce dalla totale adesione dell’anima alla bellezza del mondo, e tale adesione costituisce un vero e proprio sacramento offerto a tutti. La bellezza è un cibo, si mangia, ma deve restare a distanza “come un frutto che si guarda senza tendere la mano”.
Il desiderio di godere puramente della bellezza della creazione l’avvicina a Francesco D’assisi e alla saggezza orientale. “Di tutto questo, attraverso il distacco, nutriti”. Simone s’è innamorata perdutamente di Cristo e pensa sempre a lui, all’amore povero e vagabondo, sempre disteso sulla nuda terra. E’ lui l’unica speranza di arrivare al “porto”, alla crocifissione finale. Pochi giorni prima di morire scrive: “la totale umiltà è l’assenso alla morte, che fa di noi un niente inerte – a immagine del Cristo che muore come un delinquente comune”.

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