04 luglio 2006

L'Opera proibita di Cecilia Bartoli

Opera proibita di Augusto da San Buono

La bella soprano romana Cecilia Bartoli, reduce dai successi dei cofanetti discografici precedenti (vds. Vivaldi, Gluk e Salieri), con quattro milioni di dischi venduti, si ripresenta al pubblico con “Opera proibita”, vestita, in copertina, come l’Anitona Ekberg della “Dolce Vita”, immersa nella fontana di Trevi, con abito da sera, lunghi capelli sciolti, arruffati, sorriso aperto e carnale. Canta quindici recitativi di Handel, Scarlatti e Caldara, tutti attivi nella capitale dello Stato della Chiesa all’inizio del Settecento. Quando arrivò a Roma la prima volta, poco prima del Natale del 1706, Georg Friederich Handel, aveva appena vent’anni e il suo soggiorno avrebbe marcato indelebilmente la vita musicale della città. Un suo concerto d’organo al Laterano lasciò tutti stupiti, affascinati, ripieni della sua musica timbrica. E la cosa si ripetè anche con la messa in musica di un libretto di Sua Eminenza Benedetto Pamphilij in cui la ricercatezza linguistica e speculazione filosofica si fondono in un tessuto drammaturgico di grande spessore. Con la loro osmosi fra sacro e profano, di teatralità e musicalità pura, gli oratori di Handel costituiranno il vertice dello sviluppo settecentesco del genere, nonché un termine di riferimento obbligato per la successiva storia dell’oratorio e della futura musica sinfonico-corale. “Il trionfo del Tempo e del Disinganno”, che qui viene proposto, ci introduce nell’atmosfera di raffinato intrattenimento culturale della Roma cardinalizia, il cui repertorio iconografico si anima nei dialoghi e nelle arie dell’oratorio, come in questa cantata, che la Bartoli esegue in modo semplicemente mirabile: “Un pensiero nemico di pace/Fece il Tempo volubile, edace…”.
Degli altri due musicisti italiani, Alessandro Scarlatti e Antonio Caldara, che da Napoli a Venezia contribuirono a dettare le regole del nuovo teatro e della nuova vocalità secentesca, sappiamo che erano assidui frequentatori della Città Eterna. In particolare il siciliano Scarlatti si era formato a Roma, dove ebbe il suo primo incarico di un certo rilievo, nel 1678, a soli diciotto anni: vice-maestro di cappella alla chiesa di S. Giacomo degli Incurabili. Dell’anno seguente è la sua prima opera, “Gli equivoci nel sembiante”, inscenata con grande successo al Teatro Capranica di Roma. E del 1680 è una “Passione secondo S. Giovanni”, particolarmente apprezzata. Il suo talento non passò inosservato e poté contare sul mecenatismo di parecchie personalità, come il marchese Francesco Maria Ruspoli, i cardinali Pietro Ottoboni e Benedetto Pamphilj. Ma per un compositore particolarmente votato all’opera come lui il clima che si stava profilando in quegli anni a Roma non era dei più propizi: il Papa Innocente XII aveva infatti vietato le rappresentazioni pubbliche dell’opera e per Scarlatti esercitare proficuamente la sua professione diventava più difficile. E tuttavia, dopo aver girato tutte le maggiori corti d’Europa, vi tornò e vi soggiornò dal 1703 al 1708, dirigendo le cappelle musicali del cardinale Ottoboni e della chiesa di Santa Maria Maggiore.
Il veneziano Caldara, vero e proprio modello di maestri come Perez, Hasse, Gassmann, Cafaro e Sacchini, per la capacità di saper unire scena canto e danza, era nato dieci anni dopo Scarlatti ed era stato allievo nella composizione di Giovanni Legrenzi, specializzato nel suonare la viola ed il violoncello, e poi cantore a San Marco, « musico contralto » fino al 1698, aveva sposato la cantante lirica Caterina Petrolli. Poi, dopo aver soggiornato a lungo in Spagna, come compositore di camera del Re Carlo III, e a Vienna, nel 1709 era tornato a Roma, dov’era stato nella prima giovinezza, per assumere la carica di compositore e maestro di cappella del principe Ruspoli, carica che mantenne sino al 1716.
E Cecilia, cantando con la sua voce brunita e temperamentosa, una voce che è piena di passioni e desideri, di anfratti, di sensualità e ambiguità, rende onore alla grandezza di questi straordinari musicisti: “Caldo sangue, /che bagnando il sen mi vai,/e d’amore/ fuggi pur, fuggi da me/ ch’io già moro e resto esangue…”.

Voce, quella di Cecilia, che sa essere anche floreale, lieve, magica, ma sempre rigorosa, come ne “Il giardino di rose” di Scarlatti, dove si ricrea quella calura estiva in cui veglia e sonno perdono identità: “Mentr’io goddo in dolce oblio/ con più lento mormorio/ Scherzi l’aura intorno al cor./Mormorando su la sponda/ Vada a passo l’onda/Or che poso in grembo ai fiori”.
Ma perché “Opera Proibita”, trattandosi di “oratori sacri”, esempi ispiratori di santità eroica? Ce lo spiega la stessa Cecilia Bartoli: “A Roma, dopo il terremoto del 1703, che non causò vittime, fu decretato, in segno di ringraziamento al Signore, l’annullamento di ogni forma di spettacolo. Fiorirono quindi gli oratori, ovvero melodrammi sacri, con soggetti biblici ed allegorici, i cui libretti erano spesso scritti da cardinali come Ottoboni e Pamphilij, Accolti e Fabbri, che li allestivano nei loro palazzi privati e si dilettavano sessualmente coi richiestissimi castrati, predilezione definita “il peccato nobile”. Negli argomenti, l’erotismo si cela tra le pieghe del sacro, con l’esito di un’ambiguità seducente. E per di più in questi brani sono frenetici gli slittamenti di identità sessuale, come nel Trionfo dell’innocenza di Caldara: una donna si traveste da monaco per avere accesso a un chiostro: lei si innamora di una ragazza, credendola un eremita, con tutte le allusioni del caso; ma lui, cioè lei, ne respinge l’amore, mentre la musica, di sensualità travolgente, esprime l’opposto di un rifiuto: “Vanne pentita a piangere/ E ammorza nelle lagrime/ Il tuo impudico ardor/. Tenti invan la mia costanza/Ch’altra speme non t’avanza/Che l’eterno mio rigor”.
Se poi si pensa che i vari ruoli erano interpretati dai castrati, che erano i veri “divi” della Roma di quel tempo, il sovrapporsi dei travestimenti fa girare la testa. Tutte le energie musicali, non potendo prendere la strada dell’Opera, si indirizzarono così verso l’Oratorio, che non era soggetto alle proibizioni, proprio per la sua sacralità, e conobbe a Roma, in quegli anni, una fioritura senza precedenti per qualità e vigore.
Abbiamo compreso che il fil rouge che lega le arie dei tre grandi musicisti è quello della avversione ecclesiastica all’opera, che era vietata in tutti i teatri pubblici, ma in realtà abbiamo visto come alcuni influenti rappresentanti della stessa Chiesa aggiravano il divieto. Erano infatti i potenti Cardinali Pamphilij e Ottoboni, o il principe Francesco Maria Ruspoli, che si dilettavano a vergare versi ambigui e pieni di doppi sensi, a far rappresentare le opere, sotto il falso nome di “oratorio” nei loro fastosi palazzi e nelle chiese, il tutto costituiva una vera e propria orgia barocca, con un pubblico molto ricettivo alla sensualità e all’erotismo di storie seducenti e complicate come “Il Piacere” di Handel, o “Il trionfo dell’Innocenza” di Caldara. Per i visitatori forestieri la Roma barocca di quel tempo assunse allo stesso tempo i volti di custode della morale cattolica e luogo di peccato e perdizione. Ma uno dei segreti del suo fascino fu proprio la sensualità, e la sua abbagliante bellezza architettonica continuò a ricordare il generoso mecenatismo di quei cardinali che aveva prodotto importanti conquiste nell’arte di ogni genere. Ma che cosa c’entra in tutto ciò “ La dolce vita” di Fellini, film che fu oggetto di violenti attacchi da parte della Chiesa? In realtà c’era l’approvazione di un cardinale che si convinse della validità e del significato profondamente cattolico del film, e forse anche l’appoggio dall’interno della Chiesa, nonostante le richieste ufficiali di censura. Ma c’era soprattutto un affresco barocco e l’irrazionalismo cattolico di Fellini, come scrisse Pisolini, forse lo stesso affresco che il ventenne Handel aveva scoperto nella Città eterna due secoli e mezzo prima. E anche lo stesso regista riminese affermò: “il film nella sua trasfigurazione continua, nel suo aspetto figurativo, ha un’aria barocca e bizantineggiante”. La dolce vita - dice Kezic- era un quadro, o meglio ancora un documentario della Roma di quel tempo, che dopo la morte di Pio XII, che aveva protetto la moralità con un pugno di ferro, era un carnevale notturno, una festa continua che durò diversi anni, ma era anche la denuncia di una crisi profonda di una società ammalata e piena di futili abitudini. Insomma ci sono, traslati, dei riferimenti alla Roma del XVIII secolo.
Ma torniamo alla performance di Cecilia Bartoli. Settanta minuti per quindici arie e recitativi tratti dagli oratori di Handel, Scarlatti, Caldara, alcuni dei quali inediti.
In accordo con il complesso dei Musiciens du Louvre diretti da Marc Minkowski, la Bartoli imprime al suo canto un carattere più borghese che aristocratico, più contemporaneo che settecentesco: staccando tempi uniformemente incalzanti, morde le parole e le intenzioni, le vuole afferrare, possedere, più che evocare. La scelta è evidente nelle arie di furore e di tempesta, quando la concitazione espressiva comprime l’espandersi degli ornamenti creativi del canto, come in Notte funesta…Ferma l’ali di Handel, dove la Maddalena, figura emblematica del percorso peccato-redenzione, invoca la veglia per vivere appieno il compianto sulla morte di Cristo. E qui il tempo, fatto di flauti e viola in perfetto accordo, sembra veramente fermarsi, immobilità piena di tempeste, di pathos e passione bachiana: “Ferma l’ali , e su i miei lumi/ Non volar, o sonno ingrato…/:Lascia pria che piangan tanto/ Quanto sangue ha sparso in fiumi/ Il mio Dio per me svenato”.
La bella voce brunita e temperamentosa di Cecilia si concede più agio, più respiri, nel genere patetico, ma anche qui l’abbandono appare controllato, non raggiunge l’incoscienza meravigliosa dei lunghi «legati», delle infinite «messe di voce» e l’espandersi del fiato si mantiene entro contenuti confini temporali e di tessitura.
…Sì piangete pupille dolenti/ E a stilel cadenti/Si disciolga , si stemeri il mio cor…
La Bartoli e Minkowski attraversano trionfanti la Roma barocca correndo sulla corsia di sorpasso del Grande Raccordo Anulare; l’acqua della Fontana di Trevi sgorga a fiotti, però poi si placa nel cerchio della grande vasca. Ora lo sappiamo, che la luce rossa del proibito sta tutta nella musica di quell’acqua sensuale, un proibito assai sofisticato e sottile, tutto da scoprire. (“Lascia la spina,/Cogli la rosa…).
Che s’accende dove la voce floreale e rigorosa di Cecilia si posa sulle arie piccanti e ambigue degli Oratori, dove c’erano fremiti di una religiosità dolente e bramosa, carnale, carica di di sospiri e lacrime, su testi scopertamente punteggiati di sensi e doppi sensi. (Ecco negl’orti tuoi/La Carità divina/Che con dolci vicende/Porge a le rose tue/ Del sen l’ardore, /E da quelle s’accende/ Un amoroso foco/Nel suo core).
Musica proibita che s’apre con le trombe di Scarlatti della “Cantata per la notte del santissimo natale”, poi gode nell’oblio di terzine ovattate per la Vergine del Rosario, per accendersi di scatti vivaldiani nel Trionfo del tempo del disinganno di Handel. I lamenti sono la specialità di Cecilia, scrive Carla Moreni, quel caldo sangue che va bagnando il sen nell’aria di Ismaele, sospira e invoca su armonie che solo Scarlatti sa insinuare così cangianti, spianando il passo ai veleni lascivi di Caldara in un “Trionfo” della castità furiosa e selvaggia, da ragazzaccia romana che ci pare di sentire con gli zoccoli sull’acciottolato mentre proclama: “pudico il mio seno giammai cederà”.
E di essi vengono rappresentati alcuni inediti che rappresentano ancora tesori intatti dei nostri principi del settecento musicale.

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