02 luglio 2006

Beppe Fenoglio

di Augusto da San Buono

Beppe Fenoglio era tutto sincerità, incapace di qualsiasi tipo di menzogna, tagliato con l’accetta della Langa che “s'allarga al deserto del mondo quando l'uomo preferisce aprirsi la strada da solo”. Era un uomo di una dura tenerezza, un inscalfittibile guerriero balbuziente, trasparente e fragile come il vetro soffiato, un uomo immobile sempre in fuga inseguito da pallottole e pensieri, un timido e feroce Lawrence delle Langhe, (gli mancava solo il barracano), uno che si credeva brutto, ma sapeva d'essere straordinariamente affascinante: "... hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto ... Ma non sei poi così brutto. Ma come fanno a dire che sei brutto? … Lo dicono senza ... senza riflettere ...".
“Beppe – dice Davide Lajolo, suo impareggiabile biografo, amico e conterraneo - aveva la statura dell'olmo che il contadino pota perchè i rami nuovi siano alti e robusti. Era alto, con quelle sue gambe impossibili, lunghe, dinoccolate, quasi a ripeterne il motivo del naso allungato … Era solido come le piante nel vento, con i piedi e anche la testa piantati nell'avaro humus delle sue colline. Aveva la faccia disuguale, solcata da rughe profonde come lassù la terra screpolata ai margini dei castagni di confine ... Me lo ricordo con quell'aria assorta in cui prendevano fuoco gli occhi grandi, lucenti nelle pupille dove nascondeva tutta la tenerezza. Era un " barbaro" civilissimo, con caratteristiche indelebili e non ripetibili, un 'irregolare' regolarissimo.
Anche le sue parole dei libri che cadono sulla carta sono "pesanti come la zappa quando cade sulla terra gerbida", parole che venivano da Alba, dove c'era la pena del vivere come realtà, il gusto del poco pane e il bisogno della dannazione.
Fenoglio è davvero unico, sia come uomo che come scrittore. Avvolta nel fitto groviglio di un’inestricabile questione filologica, la sua scrittura, ritenuta per molto tempo neorelista o neoverista, era sostenuta da un tenace, disperato progetto di stile. Così disperato e appassionato da evadere dal proprio luogo naturale (la lingua italiana, la sua radice dialettale) e aggrapparsi, ri-radicarsi a un altro, estraneo, esterno, lontano territorio: la lingua inglese. Questa lingua che Fenoglio non aveva studiato all'estero, o in eleganti collegi internazionali, ma in un modesto Liceo di provincia (dove peraltro era entrato per il rotto della cuffia, perché i suoi genitori volevano mandarlo al Tecnico); questa lingua straniera che aveva studiato soprattutto a casa, sui classici (Shakespeare, Marlowe, Coleridge, James, Conrad) fu la lingua della sua salvazione. Anche se l’inglese di Fenoglio fa ridere chi la parla e la scrive come ad esempio la nostra amica Cinzia da Boston, egli era convinto di maneggiarla al meglio. Infatti annotò:"Potrà forse interessare questa piccola rivelazione:“Primavera di Bellezza” venne concepito e steso in lingua inglese. Il testo quale lo conoscono i lettori italiani è quindi una mera traduzione".
Ma Fenoglio non era solo un autodidatta, era un solitario, lontanissimo dalla società letteraria e dal mondo editoriale." Era diverso da come siamo in genere noi letterati. Non si faceva avanti, non chiedeva niente a nessuno ... E poi i suoi libri non erano prodotti finiti", dirà Bobbio, ammettendo di aver sbagliato giudizio su di lui.
Per tutta la vita, Beppe lavorò in una casa vinicola piemontese e non si spostò mai dal suo paese natale, la mitica Alba delle Langhe, e tuttavia in cuor suoi aspirava a diventare un "classico" nel senso vero della parola, ossia come chi tenta di trasformare l'esperienza in memoria, di affermare la memorabilità degli eventi narrati.
E Fenoglio oggi è un classico della nostra letteratura. Lo è diventato, in virtù del suo stile di scrittura e di una sofferenza vera e profonda (mi ricorda un po' il "sii grande e soffri " del Giovane Holden). Memorabile in sé non è la Resistenza o l'esperienza partigiana del Nostro, ma possono diventarlo se entrano in virtù della scrittura, dello stile, nel tempo grande dell'epica, beninteso con tutte le limitazioni, le sofferenze, le degradazioni che la vocazione "epica" costa ad uno scrittore contemporaneo.
Qualche giorno dopo la sua morte, a soli 40 anni, per un cancro alla gola, - “ Cristo, è ingiusta questa morte! Perchè non è venuta quando era cercata ogni giorno, ogni ora, ogni minuto in mezzo agli spari, alle imboscate, ai rastrellamenti, alla guerriglia? E' un incubo senza fine ... Ora non vorrei morire, no, non vorrei proprio morire. E ricordò come aveva fatto morire Johnny: "La raffica non suonò più forte di un frullo di un uccello, ma Johnny si abbattè con una coscia e il fegato trapassati ... qualcuno lo chiamava dal profondo del vallo, una voce già lontanissima ..."- Felicino Campanello si presentò con un enorme scartafaccio sotto il braccio presso l'Einaudi. C’erano Elio Vittorini, Italo Calvino, la Ginzburg, e consegnò loro il malloppo: lì dentro c'era "Johnny il partigiano" e tutto il materiale inedito che aveva trovato nei cassetti di Beppe Fenoglio. A vedere la mole del libro il primo a rimanerne impressionato fu Vittorini: "Minchia! - disse il siculo , - a Beppe gli si è allungato parecchio … il manoscritto! ... E anche Calvino e la Ginzburg scossero la testa. Lo lessero, o forse lo sfogliarono e basta, e non trovarono nulla di nuovo, nulla che valesse la pena di essere pubblicato. – “Felici' - dissero in coro - riportalo al mittente”. Ma Lorenzo Mondo la pensò diversamente da loro – “aspettate un attimino“ - e si mise ad esaminare l'opera, pagina dopo pagina, riga dopo riga e alla fine scelse - tra la seconda e terza stesura - i capitoli che riteneva fossero quelli capaci di esprimere meglio l'epopea fenogliana. E così, grazie a Mondo (che poi entrò in polemica con la Corti, che rivendicava per sè tale merito) videro la luce “Il partigiano Jhonny, "opera di capitale importanza, uno dei più alti esempi di moralità letteraria e di grande rilievo stilistico, e “Una questione privata“ che, in seconda battuta, stranamente, tanto piacque a Calvino, che da quel momento si diede molto da fare, con convinzione, per far intendere al colto e all'inclita la grandezza e lo spessore di un autore come Fenoglio, defunto ormai da 6 anni ...
Ma Fenoglio non è tutta “resistenza”. Uno dei motivi più costanti e pregnanti che inseguono la vita e il lavoro del Nostro è quello della donna e dell'amore.
"La donna di Fenoglio – scrive Lajolo - è insieme luce di poesia e ossessione senza scampo. Gli riempie il cuore e la testa". Beppe soleva dire agli amici: - "quella donna mi sta nel cervello" - e contemporaneamente si batteva la mano sulla nuca persino con violenza per significare quanto la fitta fosse profonda. La prima "cotta" la prese quand'era ancora studente liceale, per "Fulvia", che troviamo protagonista in "Una questione privata", un libro rivelatore anche per questo "dolorante amore". Fulvia è una ragazza di buona famiglia borghese, giovane ricca, molto bella, e corteggiatissima; forse ama, o è affascinata, da Fenoglio, ma si sottomette alle convenienze sociali e al volere dei genitori, senza mai però rinunciare completamente a lui. Gli svolazza intorno come una farfalla delicata, coloratissima, piena di profumi e di incertezze, continuando ad illuderlo e tormentarlo, facendolo passare dall'incantamento all'ossessione d'amore. Molte lettere giovanili di Fenoglio, pubblicate postume sotto il titolo di Lettere a donne immaginarie, sono ispirate da lei e rivolte a Lei, la giovane compagna di Liceo, a " Fulvia dannazione", a "Fulvia splendore", una sorta di Beatrice tutta fenogliana, che entrerà in un modo o nell'altro nella sua opera, che darà parte di sè a tutte le donne protagoniste o comprimarie nei suoi racconti, ma le donne che hanno contato nella vita di Fenoglio sono diverse.
Quando la morte - che già gli ha tolto la parola - lo stringe alla gola e Beppe sa di non avere più scampo, su piccoli foglietti raccomanda a tutti la sua bambina. Ed è per Margherita, "Ita", l'ultimo scritto con mano virilmente ferma, nell'ultimo sforzo, prima che la mano si perda come la sua voce, come l'ultimo respiro.
"Ciao per sempre, Ghita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amata tanto e sa di continuare a essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò, bambina mia adorata e non devi mai pensare che ti abbia lasciata. Tuo papà"
Subito dopo chiude gli occhi, li serra stretti, ma non riesce a fermare le lacrime. Poi, alla dieci del mattino di quella domenica 18 febbraio 1963 entra in coma e vi rimane fino alla morte, che arriverà, col suo falcione, all'una e mezza di notte precise.
Si possono scomodare Dostoevskij e Shakespeare parlando di Fenoglio? Certamente, dico io. Beppe non è così immerso nel sottosuolo per ritrovare i semi della rivolta, come Dosto, nè scuote i fulmini dell'universo, mettendo allo scoperto l'eterno dramma umano, come Willy, e tuttavia ha anch'egli bisogno di affondare il bisturi nelle atrocità e nefandezze dell'uomo, per essere più forte di se stesso, della sua limitatezza fisica, della sua fragilità psichica. Usa il bisturi con quella disperata rassegnazione e ribellione della sua gente della langhe, una piaga, una specie di meridione del Piemonte. E riesce ad ottenere una cosa rara nella scrittura: non solo il distacco da sè, ma il controllo feroce dei suoi sentimenti. La vita povera e miserevole di questi contadini la racconta, vivendola, con una spietatezza che non si ritrova neppure in Verga. E se Dostoevskij, pur rimanendo dalla parte dell'uomo, è animato dall’ardore di inabissarsi in Dio, Fenoglio ha sradicato ogni misticismo fino al punto da far gridare ad uno dei suoi protagonisti: " DIO NON FU MAI CON NOI". Poco prima di morire lascia scritto al fratello Walter, su un foglietto (la tracheotomia gli impediva ormai di parlare): "Funerali civili, di ultimo grado, domenica mattina, senza soste, senza fiori, senza discorsi. "E prima ancora, appena sedicenne, aveva scritto un altro biglietto, laconico, per il Parroco di Alba: "Da domani non vengo più all'oratorio". E non ci mise mai più piede, nè entrò mai più in una chiesa. E tuttavia non si sognò - mai – neppure per un attimo, di togliere il crocifisso ovunque lo trovasse. Per quello ebbe sempre il massimo rispetto.

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